La narrazione, lo storytelling, l’affabulare, il raccontare storie.
Chiedetemi cosa oggi come oggi rappresenti più l’urgenza che sembra aver colpito tutti, da chi di comunicazione vive a chi, invece, cerca semplicemente di seguire le mode del momento, o magari chiedetemi di indicare la peculiarità di questi tempi anomali, fatti di social, frammentati, di passaggio dal liquido all’evaporato, e non esiterei un secondo a dire: la narrazione, lo storytelling, l’affabulare, il raccontare storie.
Il che, per uno che una vita fa ha deciso che avrebbe campato proprio narrando, potrebbe anche essere una buona notizia, una cosa ti sei specializzato a fare e quella cosa è diventata di colpo la più richiesta sul mercato, come fare l’idraulico in un quartiere dove tutti hanno rubinetti che perdono o galleggianti che non fanno il proprio dovere.
Solo che a me delle mode, si sarà intuito, frega pochino.
Anzi, outsider vero, per natura, non per posa, quando qualcosa che faccio diventa la cosa che tutti vogliono fare provo una forma di idiosincrasia, quasi un disagio insopportabile, mi irrigidisco e comincio a chiedermi dove ho sbagliato, perché è come se di colpo mi accorgessi che quello cui ho dedicato praticamente la quasi totalità della mia vita professionale negli ultimi venticinque anni, altro non è che un motivetto reggaeton di quelli che piacono ai truzzi poco dotati di buongusto e senso della frase, non è che chiamare storytelling qualcosa che nei fatti va avanti dai tempi di Cervantes, forse addirittura di Omero sia questa grande ricercatezza che credevi di avere per le mani, il sentiero solitario che pensavi di percorrere è il lungomare di Rimini in una qualsiasi sera di agosto, fattene una ragione.
Certo, magari sfanghi qualche euro insegnando agli altri quello che, non fosse altro che per una mera faccenda di abitudine e esperienza, sai fare meglio, tieni webinar, masterclass, workshop, cominci a buttare lì che è vero, scrivi per riviste e giornali online, e ci scrivi seguendo uno stile decisamente letterario, ma in fondo sei più uno da libri, ne hai pubblicati probabilmente più di ogni altro italiano vivente, ottanta, a breve escono l’ottantunesimo e l’ottantaduesimo, hai iniziato proprio come narratore, raccolte di racconti e romanzi, hai anche scritto monologhi per il teatro, insomma, quando si tratta di raccontare storie sei uno che ne mastica, il fatto che ora tu lo stia raccontando usando la seconda persona singolare invece che la prima, quindi mettendo questa narrazione in bocca a chi legge, in qualche modo, ne è prova provata, capace che chi legge neanche se ne fosse accorto, fino a qualche parola fa, quando lo hai sottolineato tu stesso, diamine che drago che sei.
Che drago che sono.
Racconto storie da quando a andare di moda erano i pubblicitari, quelli che dovevano concentrare un concetto in una frase, meglio ancora, in pochissime parole, uno slogan, un claim, vivo anche a Milano, la città che sui pubblicitari e i loro claim, va detto, ha costruito una narrazione vincente, quella della città delle apericene, dell’incontrarsi, del fare business senza neanche accorgersene, del lavorare divertendosi, la porta italiana verso l’Europa.
E racconto storie usandone tantissime, di parole, perché dire una cosa in dieci parole quando la posso dire in mille, questa la mai filosofia di vita. Racconto storie e sono convinto che il modo di raccontarle sia assai più importante delle storie stesse, delle trame, la forma è sostanza, e a volte è sostanza anche in assenza della sostanza stessa. Per questo mi soffermo spesso a raccontare storie già raccontate da altri, arrivando buon ultimo, so che il modo in cui le racconterò io è unico, mio, appunto, e che questo mio modo unico di raccontare la trama, di mettere le parole, le tante, tantissime parole, una dietro l’altra, farà la differenza.
Dovrei farmi pagare un tot al chilo, me lo ripeto spesso, anche se poi finisco per appassionarmi troppo a quel che scrivo, e mi faccio andar bene le cose come stanno, non ho di che lamentarmene, del resto, non fosse che vorrei essere pagato a volte per il fatto di esserci, più che per quello che faccio.
E cosa faccio, del resto.
Sono uno scrittore, l’ho già detto.
E sono un critico musicale.
Sono uno scrittore che presta spesso la sua penna alla critica musicale, questa potrebbe essere una definizione calzante, e nello storytelling dire che sono uno scrittore che presta spesso la sua penna alla critica musicale credo funzioni, mi dà quell’aura da intellettuale, da artista rinascimentale che in fondo è quello cui miro da tempo.
Il lavoro del critico musicale, del resto, è un lavoro anomalo, perché, stando agli standard, ti spingerebbe costantemente a confrontarti con gli artisti e i loro fan, attraverso le forme canoniche e codificate delle interviste e delle recensioni, anche se in realtà degli artisti non ti occupi mai realmente, concentrando tutta la tua attenzione sulle opere.
Opere che diventano tali passando dalla fase della scrittura e composizione, se sei un critico musicale che applica al pop le tue competenze devi sempre confrontarti con canzoni che abbiano sia la parte musicale che quella testuale, e che poi vengono interpretate, spesso dal medesimo artista, sia autore che interprete, appunto.
Prendiamo in considerazione proprio questo attimo, quello in cui un’opera passa dalla fase di composizione/scrittura a quella di interpretazione. Di più, concentriamoci sui termini che descrivono queste fasi, in modo particolare sulla parola “interpretazione” e di conseguenza “interprete”.
Nel linguaggio comune questa parola identifica l’azione svolta dall’interprete, che quasi mai viene associato all’arte, alla canzone, quanto piuttosto al tradurre da un linguaggio sconosciuto a uno a noi più familiare. La Scuola di Interpreti di Forlì, per dire, non forma cantanti pronti per un talent, perché è il mondo dei talent che ha ritirato fuori gli interpreti, diciamolo apertamente, dopo anni e anni di cantanti che si scrivevano le canzoni da soli, zac, ecco tornare gli autori, spesso i medesimi per qualche tempo per tutti gli interpreti, la moda degli autori è una delle novità del sistema musica, ma tornando alla Scuola di Interpreti di Forlì, non sono voci pronte per un talent quelle che escono da lì, ma professionisti che andranno con buona probabilità a lavorare alla Nazioni Unite o a Bruxelles.
Interpretare, quindi, in senso lato, significa rendere fruibile a tutti qualcosa che di suo sarebbe ostico, sconosciuto, incomprensibile.
Interpretare un artista e renderlo fruibile agli altri, il famoso libro aperto che chiunque può leggere è compito del biografo, laddove il biografo non si limiti a raccontare la cronologia degli eventi e il dipanarsi delle opere, ma provi, come un antropologo, a decifrare come eventi e opere hanno impattato sulla cultura popolare.
Poi ci sono gli attori, che interpretano personaggi scritti da uno sceneggiatore, da un commediografo, dando loro non solo una faccia e una voce, ma anche una personalità intellegibile. Talmente intellegibile da esulare la faccia, la voce e la personalità stessa dell’attore medesimo, quelli bravi dovrebbero essere capaci di scomparire davanti alla macchina da presa per lasciare spazio ai personaggi, così che uno quelli veda e riconosca, i personaggi, ma quelli bravissimi sono capaci di farlo pur rimanendo presenti, riconoscibili in controluce, per loro del resto registi e sceneggiatori scrivono film, tagliando su di loro personaggi già esistenti o costruendone di nuovi.
Il lavoro del critico musicale è un lavoro anomalo, quindi, ribadisco, perché di suo ti spingerebbe costantemente a confrontarti con gli artisti e i loro fan, attraverso le forme canoniche e codificate delle interviste e delle recensioni, anche se in realtà degli artisti non ti occupi mai realmente, concentrando tutta la tua attenzione sulle opere. Non è un caso che quasi mai, quando scrivo come critico musicale, ripercorro le strade decodificate delle interviste e delle recensioni, anzi, credo di interviste di averne fatte davvero pochissime in vita mia, allo scopo di riportarla dentro un mio testo. Interpreto le loro opere, e interpretando le loro opere provo a interpretare loro stessi.
Così io intendo il mestiere del critico, e così lo porto avanti da quasi venticinque anni, non credo sia una novità per chi mi legge, anche se magari era arrivato il momento di fermare questa modalità in maniera didascalica su pagina, specificare i confini di questo stato libero, infilare la bandiera sulla torre più alta della fortezza.
Partiamo da qui.
E andiamo oltre.
Ora spostiamo lo sguardo sul ritratto.
In genere è di fotografi o pittori che pensiamo quando parliamo di ritratti.
Il fotografo o il pittore, ma recentemente sono decisamente più i primi che i secondi a essere parte del nostro immaginario, diciamo quindi solo il fotografo, specie se applica la sua arte e il suo mestiere al ritratto e al ritratto di artista, tende a provare a fare qualcosa di diverso, fermare in maniera plastica, su immagine, la personalità altrimenti multistratificata e complessa di un artista.
In quel preciso momento, certo, cogliendone le sfumature relative all’attimo, non solo quello specifico in cui il ritratto viene scattato, ma anche di quel passaggio della vita dell’artista, quell’anno lì, quella parte della sua carriera, ma più in generale provando a concentrare in una sola foto l’essenza di un personaggio, la sostanza che diventa forma, il frammento che si fa eterno, la messa in scena che diventa verità assoluta, destinata a superare il transito terrestre del ritratto, nel senso di colui che finisce nel ritratto, e del ritrattista.
Bene. Mettiamoci anche questo.
Provate a seguirmi in questo strampalato ragionamento domenicale, tanto siamo tutti più o meno in lock down, si può giusto andare a fare due passi in un parco, ma per il resto è tutto uno stare imballati a casa, immobili, imbalsamati.
Tenere insieme questi due approcci è una sfida che mi interessa.
Provare a presentare l’interpretazione che un critico musicale dà dell’artista e il ritratto che lo stesso critico, stavolta vestendo i panni di biografo, riesce a tirare fuori, provando a cogliere attimo e eterno nello stesso istante.
Come se, da una cover, così in genere vengono chiamate le interpretazioni fatte da altri delle opere di un artista, anche se nello specifico stiamo parlando della cover non dell’opera ma dell’artista stesso, che sia capace di rendere la tridimensionalità di un personaggio per altro già conosciuto, e al tempo stesso il fermo immagine vivido e pulsante di un ritratto, restituzione in immagine di quella sostanza che formalmente è passata sotto le mani del critico.
Una cover e un ritratto, quindi, due opposti che trovano il proprio punto di incontro in un testo, con tutta una serie di passaggi precostituiti, chiamateli canoni, codici, come volete, che diventano la scatola in grado di conservare questi tesori.
Una cover e un ritratto che forniscono la planimetria di una mappa geografica, spazio non solo fisico entro il quale si muove la narrazione, sempre lei, lo storytelling.
Proviamo a spostare il discorso sulla musica, che è un po’ il campo d’azione delle storie che racconto.
Ci sono artisti che le storie le sanno raccontare, lo fanno da sempre, è il loro marchio di fabbrica, e mentre la scrivi, quella parola lì, fabbrica, provi un sussulto orgasmico, come quando, giocando a pallone, ti riesce un numero da circo piuttosto difficile, che hai più volte ripassato a mente ma raramente ti capita di poter esibire sul campo, perché la parola fabbrica è una parola quantomai coerente con gli artisti che stai per introdurre, con le loro opere, il critico di quelle parla, quelle racconta, e della loro storia di artisti, quella che proveresti a fermare su immagine fossi un fotografo, o a raccontare parola dopo parola in una biografia.
Fabbrica, indubbiamente, ma anche ultimi, lavoratori, partigiani, popolo, oppressi, ribelli, non allineati, resistenti, è di loro che parlano le opere della Gang, le loro canzoni, e quando dico Gang, io li chiamo al femminile, come a voler sottolineare il loro essere una band, certo, ma anche una gang, borderline quando si tratta di tracciare i confini tra regime e chi contro il regime, fosse anche solo il regime del pensiero unico, si ribella, intendo i fratelli Severini, Marino e Sandro, da Filottrano, nel cuore pulsante della provincia di Ancona, la loro terra, la mia terra.
Una realtà che va avanti imperterrita a raccontare storie che altrimenti sarebbero affidate solo alla memoria, e al racconto orale, quello dei nostri nonni, dei nostri padri, quello di chi scende in strada e in piazza e lotta per combattere contro un nemico che troppo spesso è anche difficile da identificare, da qualcosa come trentasette anni, tanti ne sono passati dall’uscita dell’esordio, Tribe’s Union, quando ancora punkeggiavano cantando in inglese, figli dei Clash e di quello spirito comunista e socialdemocratico che ancora oggi li accompagna, trentasette anni nei quali la loro musica, le loro canzoni, si è spostata verso le radici, il folk americano di Woody Guthrie, da una parte, quello anglosassone di Billy Bragg, dall’altra, per arrivare a sposare le loro canzoni con le nostre tradizioni, i lavori fatti con la Macina, i canti partigiani, quelli di lotta sociale e sindacale, le radici e le ali, tanto per citare il titolo di quello che è probabilmente il loro lavoro più famoso, più mainstream, almeno stando ai numeri, insieme al suo gemello Storie d’Italia, dischi rispettivamente di trent’anni e ventott’anni fa, quando per qualche tempo i nostri hanno provato a vedere se il sistema era in grado di reggere un virus potente come il loro, le radici e le ali sempre a animare ogni singola loro nota, ogni singola loro parola. Fino al recentissimo Ritorno al fuoco, come i due precedenti lavori, Sangue e cenere, del 2015, e Calibro 77, del 2017, album di cover, tanto per tornare a discorsi fatti qualche decina di righe qui sopra, frutto di un fortunato e premiato crowdfunding, il popolo della Gang è numeroso e generoso, questo i fratelli Severini lo hanno capito e hanno ben visto di ripagare tanta generosità con lavori sempre molto curati, di altissima qualità compositiva e lirica, come sempre del resto, lavori destinati a rimanere nella loro storia, di certo, ma ancor più in quella della canzone d’autore e politica italiana. Anche questo prodotto da Jono Manson, con un budget arrivato da oltre mille raiser, da loro chiamati giustamente co-produttori, oltre settantamila euro, Ritorno al fuoco è una produzione di respiro internazionale, suoni assolutamente corposi che ben si sposano a un impianto di matrice folk-rock, i fiati a farla da padrona in buona parte delle tracce, la voce di Marino e la chitarra di Sandro a imbastire un fil rouge capace di tenere insieme le storie che i testi raccontano, storie di resistenza, politica e umana, che spaziano nel tempo e nello spazio come i due fratelli marchigiani fossero a bordo del Tardis del Doctor Who.
Il disco, non posso che chiamare così un’opera tanto fisica, si apre con una canzone che a me colpisce particolarmente, non solo per l’arrangiamento fiatistico su una impostazione quasi country, ma perché ambientato nella zona di Milano nella quale vivo, la Casoretto della Banda Bellini, temporalmente riportati agli anni Settanta. A riprova che i Severini si spostano con agilità e perizia sulle tracce, portandoci a spasso con loro come solo i validi narratori sanno fare, ecco che la seconda traccia ci parla di una senza tetto, la Modesta Valenti del titolo, mentre El Pepe cui fa riferimento la settima traccia è Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay, forse ultimo simbolo di un disallineamento dal potere inteso come privilegio e forza, un sogno che si è fatto umanamente uomo.
Poi ci sono i Gang che fanno i Gang, alla vecchia maniera, in Rojave libero, i suoni blueseggianti di Amami se hai coraggio, brano in cui l’amore cantato è un amore alto, non si sa rivolto a chi da chi, quelli che ci portano in Calabria, Il treno per Riace ci parla ovviamente di Mimmo Lucano, ma con suoni che potrebbero stare tranquillamente dentro un film di Robert Rodriguez, o almeno nel Robert Rodriguez prima di incontrare Tarantino. In mezzo una canzone che per una volta sembra raccontare proprio la storia loro, dei fratelli Severini, con quel A volte che suona tanto come una autobiografia. E poi ancora una storia più vicina a noi raccontata in Concetta, ballata struggente, come struggente è la storia che prova a fermare nella memoria, quella di Concetta Candido, operaia che si diede fuoco nella sede Inps di Torino per protestare contro un ingiusto licenziamento, un salto a fine Ottocento, con Dago, storia di ribellione in difesa di undici nostri compatrioti imprigionati ingiustamente negli Stati Uniti, prova generale di quanto sarebbe poi capitato a Sacco e Vanzetti. A chiudere il tutto una cover devastante, perché così ne esce il mio piccolo cuore di militante, di A Pa, canzone che Francesco De Gregori ha scritto alla memoria di Pier Paolo Pasolini e i suoni orientaleggianti di Azadi, che di quel che capita in Pakistan ci narrano.
Un album importante, come tutte le opere di Marino e Sandro Severini, fuori da ogni logica di mercato, oggi che siamo in un tempo di brani brevi, col ritornello che scatta dopo venti secondi, poco suonato e comunque molto veloce, buono per Spotify, e forse proprio per questo perfetto per questi giorni che sono quelli dello storytelling, dell’affabulazione, del narrare storie.
Un album suonato, molto suonato, fisarmoniche, archi, fiati, oltre che gli strumenti tradizionali di chi viene dal punk e dopo essere passato dal folk si è assestato a fare del rock d’autore di quelli che ti fanno muovere il piede, ciondolare la testa, e battere il cuore.