Sono in difficoltà. Lo dico subito, come incipit, e anche come premessa, tanto da fugare dubbi e ipotetici fraintendimenti. Io sono in difficoltà. E sono in difficoltà perché ho deciso, credo prima inconsapevolmente, poi, col tempo, in maniera più cosciente, addirittura radicale e ideologica, di non allinearmi.
No, fermi tutti, non sto parlando del sistema musica, non è questo il giorno per parlare di quello. Parlo di non allinearmi ai tempi che stiamo vivendo, che sto vivendo.
Ci sto dentro, e non è che io abbia poi scelte alternative, ma non mi sono mai voluto allineare, e ora mi trovo probabilmente a un punto di rottura, sono in difficoltà.
Perché per quanto io sia accusato spesso, credo quasi tutti i giorni, qualsiasi cosa dica o scriva, di essere uno che ama rimestare nel fango, che cerca costantemente la polemica per stare al centro dell’agone e quindi della scena, un occhio di bue, così si chiamano i riflettori, bello puntato in faccia, nei fatti ho sempre provato a fare qualcosa che guarda in tutt’altra direzione, e oggi capisco che questo mio modo di fare è a un impasse.
Viviamo nell’epoca frammentata, la società liquida che è passata alla fase gassosa, l’iperconnessione e la velocità che hanno comportato una soglia di attenzione sempre più bassa, una capacità di comprensione sempre più bassa. In questo tutto diventa bianco o nero, polarizzato, essere semplici diventa una necessità, perché manca il modo, la voglia e la capacità di approfondire, qualsiasi argomento diventa argomento del giorno, puntando a salire tra i trend topic e con la certezza che l’indomani non avrà lasciato traccia dietro di sé.
Ci si lamenta tutti dell’analfabetismo funzionale, ma lo alimentiamo omologandoci a un linguaggio e una comunicazione che resta sempre a surfare in superficie, e che spesso lascia intravedere la poca profondità dei fondali, lì sotto.
No, non va bene.
Ho usato una prima persona plurale, parlando di analfabetismo funzionale, e l’ho fatto per compiacervi, voi che leggete, e mettermi nel gruppo, con voi. Sottintendendo da una parte che voi che leggete siate esattamente tra quanti si muovono a quella maniera, nella massa informe, e provando a farvi l’occhiolino mettendomi al vostro fianco. Ma io non ragiono così, e non ho evidenza che lo facciate voi, anzi, con una certa supponenza posso azzardare che se siete tra quanti leggono con continuità quel che scrivo non potete essere parte di quel “Noi”, perché la mia difficoltà deriva proprio dal mio non essere allineato a quella modalità di comportamento.
Ripeto, mi accusano sovente di essere un polemista, anche capace, intendiamoci, uno che cerca la rissa e di attenzioni, ma quel che io provo quotidianamente a fare è in prima istanza provare a scardinare proprio quel modo di comunicare, e quindi di ragionare, e di ipotizzare dibattiti, cui ho fatto fin qui riferimento. Scrivo pezzi lunghissimi, di difficile lettura, che richiedono tempo, attenzione, prevedono si perda il filo, si torni indietro, si vada a cercare una delle tante citazioni o riferimenti tirati fuori da contesti molto diversi tra loro, quindi non necessariamente parte delle conoscenze personali di chi mi legge. Provo a supportare delle tesi, partendo spesso, direi praticamente sempre, da vicende personali, poco conta se riportate fedelmente o adattate alla contingenza, cioè a buttare lì spunti e suggestioni. Polarizzo, è indubbio, perché tendo a non tirarmi indietro quando c’è da prendere una posizione netta, ma non intendo polarizzare la discussione, perché, piaccia o meno, approfondisco, sviluppo, mi soffermo e mi risoffermo. Il fatto che io ami provocare, anche come semplice gesto intellettuale, che io tenda a usare l’ironia e il sarcasmo, che non abbia difficoltà a sbertucciare i potenti e svergognarli, e che spesso stronchi i Big non deve, almeno in questo contesto, distrarre rispetto all’argomento che sto affrontando, ché il non perdere il focus è poi esattamente il focus di questo mio scrivere, oggi, perché io non mi limito mai, e dico mai, a chiedervi di scegliere tra Bianco o Nero, e se così può essere è perché si decide, arbitrariamente, di non seguire le regole dichiarate del gioco, del mio gioco, cioè perdersi in quel che scrivo e guardare il panorama fuori dal finestrino mentre si cerca di tornare verso la strada principale. Dico questo onde anticipare quanti volessero dirmi che se non si capisce è colpa mia, che evidentemente non sono stato abbastanza chiaro, che non so spiegarmi. Ora, ovvio che non sta a me dire se so o meno spiegarmi, anche se è evidente che ritenga di sì e come me lo ritengano quanti mi pubblicano, ma che io sia capace o meno di spiegarmi, dato irrilevante, è invece certo che non chiedo mai di scegliere tra due poli, Bianco e Nero, continuo a stare sull’usato sicuro, così, senza abbozzare qualcosa che risulti un po’ più di uno sviluppo.
Se, cioè, io prendo a esempio un caso di cronaca, uno qualsiasi, o un argomento del giorno, e per partire per un mio ragionamento ne sviluppo una questione, fosse anche un dettaglio, ma tu che leggi mi commenti o rispondi a un mio post in cui rimando al link di un pezzo, parlando per sommi casi della faccenda in sé per sé, cioè non per come io l’ho affrontata, ma per come è stata affrontata ovunque e altrove, beh, stai seguendo la moda del momento, la polarizzazione, hai dato una lettura distratta e sommaria, da analfabeta funzionale, e non stai facendo un buon servizio a nessuno, a partire da te via via a scendere. Certo, io potrei non ricorrere a esempi del genere, potrebbe azzardare qualcuno, proprio per non correre il rischio che poi mi si risponda fischi per fiaschi. Vero, corretto, solo che sono un uomo del Novecento che si trova a lavorare nel nuovo millennio, usando i social e scrivendo in rete, provo a forzare la mano, come chi a suo tempo ha elettrificato una chitarra elettrica, ma se scrivessi le mie parole a mano su un foglio di carta poi non avrei lettori, e chi scrive scrive per essere letto, chi dice il contrario mente o è la reincarnazione di Van Gogh.
Va beh, dirà sempre il qualcuno di cui sopra, ma quanto sei pretenzioso!
Ecco, su questo posso, anzi, devo concordare. Sono pretenzioso. Proprio pochi giorni fa ho intitolato un capitolo di questo diario mettendoci il nome del poeta e drammaturgo rumeno Radu Stanca, morto nel 1962 e non tradotto in italiano, non fossi pretenzioso sarei un pazzo, o uno che si atteggia a intellettuale (e no, mi spiace, io sono un intellettuale, non uno che ci si atteggia), quindi su questo convengo. Ma è appunto parte di quelle regole del gioco di cui parlavo prima, forse una delle prime regole del gioco, se mi leggi devi sapere che pretendo molto da te, altrimenti ciccia. Certo, uno può non accettare le regole e leggermi, e poi commentarmi in maniera polarizzata: io scelgo Bianco. Tutto legittimo, anche il farlo volutamente, oltre che il farlo naturalmente. E di qui viene il mio essere in difficoltà. La mia presa di coscienza che, forse, a pensarci bene, questo mio pretendere, questo mio dire e scrivere, quindi questo mio fare, sia fuori tempo massimo. Cioè, che se poi la conclusione sarà che io sono un polemista che quotidianamente entra nel campo di battaglia pronto sì a mettere a rischio la propria pelle, ma più che altro a uscirne con un tot di Like in più, forse potrei serenamente limitarmi a fare quello, dire, “scegli tu, Bianco o Nero” e non star qui a scrivere pezzi lunghissimi, complessi, provando a muovermi su un calesse mentre gli altri si aggirano scanzonati a bordo di un segway, quei cosi con due ruote che si mettono sotto i piedi facendoci passare immancabilmente per dei coglioni.
Attenzione, non sto facendo quello che piange, che si sente incompreso, che si lamenta di come il proprio genio non venga capito. Ho provato, a partire da un mio disagio personale, vissuto sulla mia pelle quotidianamente, a tirare su un plastico di come, oggi, sia difficile tentare di fare discorsi che non si muovano sul terreno della veloce superficialità polarizzante, senza doppi o tripli piani di lettura, spesso anche senza il primo piano di lettura, roba da slogan urlati in un corteo, coro da stadio.
Poi, però, perché era ovvio che c’era un però, lo gridava bello chiaro il titolo di questo capitolo, lo sottolineava la foto di accompagnamento, anche se scrivo questo più per stima nei vostri confronti, stima dovuta anche a una buona dose di autostima, perché altrimenti avrei dovuto dire che la foto è arrivata assai prima e assai più del titolo, per non dire del testo, però, comunque, poi mi ricredo, o quantomeno mi rincuoro.
Ecco sì, mi rincuoro più che mi ricredo, perché succede che mi prendo il mio tempo per ascoltare i due album che più attendevo da lungo tempo, Exuvia di Caparezza e Bingo di Margherita Vicario, e capisco che essere complessi, complicati, seppur nel loro caso risultando gradevoli e pop, si può cioè richiedere attenzione e tempo, molta attenzione e molto tempo, pretendere una lettura tra le righe, non perché quel che è scritto sulle righe sia poco, intendiamoci, ma perché il non detto apertamente è spesso e volentieri la vera ragion d’essere del dire e il dire, quello tra le righe come quello sulle righe, è qualcosa di fondante e fondamentale.
Perché Caparezza ha fatto probabilmente il suo più bell’album di sempre. Lontano, certo, da certa fruibilità colta ma di facile assunzione di brani come Fuori dal Tunnel, Vieni a ballare in Puglia e anche l’ultima Mi fa stare bene, ma pregno di una consapevolezza, di una capacità di autoanalisi, a tratti anche impietosa, in grado cioè di scandagliare il proprio essere un quasi cinquantenne in un periodo orrido come questo che raramente abbiamo saputo e potuto trovare in altri lavori musicali, italiani e non. Costruito come un concept, l’artista che si perde nella selva (oscura, dantiana), Exuvia è una sorta di sfida all’ultimo sangue tra Michele Salvemini e Caparezza, il suo alterego artistico, la sua anima divisa in due ben resa in maniera plastica nel singolo La scelta, un po’ dedita all’arte, Beethoven, un po’ interessata a prenderne le distanze per sposare la vita vera, Mark Hollis, con Michele che vince su Caparezza, pacificandolo col suo passato, certo, ma anche prendendo le debite distanze dal presente sotto i riflettori. In mezzo, e non poteva che essere così, l’oggi che si muove intorno sia a Michele che a Caparezza, fotografato con lo sguardo empatico che gli sappiamo riconoscere, l’ironia mai cinica che ne è tratto distintivo, e una qualche visione profetica che mai guasta. Un capolavoro, si sarebbe detto in altri tempi, quando la parola capolavoro veniva soppesata con cura, usata con parsimonia, spesa come fosse l’ultima banconota contenuta nel portafogli. Non sappiamo se e come ci sarà un seguito, perché questo potrebbe anche benissimo essere un commiato, di fatto Caparezza è al momento l’artista uomo più lucido in circolazione, e se dico uomo è perché non vorrei che qualcuno mi cagasse il cazzo con la faccenda della rappresentazione paritaria, certo, ma anche perché ora vado a dire di quello che credo sia la più lucida in circolazione tra le artiste donna, per intendersi una artista che non fatico a mettere proprio a fianco a Caparezza, più grande di lei anagraficamente, con una carriera più importante alle spalle, ma al momento suo pari per ispirazione e resa. Perché Bingo di Margherita Vicario, che a differenza di Exuvia di Caparezza non è un concept album, anzi è un lavoro costruito nel tempo e già anticipato da una porzione di singoli, tutti molto ma molto belli, ben otto tracce già edite, in ordine di apparizione Abauè (morte di un trap boy), uscito due e rotti anni fa, Mandela, Romeo, con Speranza, Giubbottino, un vero gioiello, un diamante, già ne ho scritto proprio qui, e ancora Pincio, Piňa Colada, con Izi, Orango Tango, anche di questo ho qui scritto, e l’ultimo Come va, cui vanno aggiunte sei tracce, l’introduttiva Bing, e poi Troppi preti troppe suore, XY, con Elodie, Fred Astaire, DNA (oh putain!) e Come noi, un album che, lo dico con l’enfasi che una affermazione come questa richiede, è a sua volta un capolavoro, migliore di buona parte delle produzioni italiane di questi anni dieci, forse proprio del nuovo millennio. So che limitarsi, da critico, a dire che un album è brutto o bello è qualcosa di avvilente, per chi legge, certo, così come lo è per chi scrive, ma forse non lo avete capito (certo che lo avete capito, scherzavo), la recensione di Bingo, come quella di Exuvia, è iniziata oltre duemilacento parole fa, con la prima frase di questo mio scritto. Perché questo Margherita Vicario fa in tutte le sue canzoni, prende un genere, lo destruttura, lo ricostruisce, ne rovescia le istanze, mettendone in evidenza i difetti, certo, ma a fine di bene, per creare bellezza e consapevolezza. E perché nel fare questo ci dice qualcosa, e ce lo dice bene, sa come costruire frasi musicali, come comporre, ma sa anche maneggiare da Dio le parole, le frasi e basta, e al tempo stesso ci apre uno scenario, ci fa dono di una sua visione del mondo. In questo Margherita e Michele, non io, Caparezza, anche se lo sono pure io, non è un segreto, sono due post-moderni incalliti, due che amano giocare coi generi, Margherita Vicario costruisce canzoni pop, rap, gioca col passato mettendoci lo swing, l’urban è casa sua, Caparezza stavolta gioca più che mai con l’elettronica, ma finisce anche in Sud America, senza scivolare nel classico, si sporca le mani col rock, oltre che col rap, postmoderni perché in grado di prendere alto e basso e farlo stare insieme, elevandolo senza renderlo inaccessibile a tutti, e perché l’ironia è il modo più usato per mettersi in salvo, loro che scrivono e cantano canzoni, certo, ma anche noi che le ascoltiamo.
Quindi in questo caso dire bello va bene, perché ho già esternato quel che c’era da esternare prima di tirarli in ballo, e non perché io abbia finto di essere in difficoltà di fronte allo zeitgeist, allo spirito di questi tempi malandati e devastati, ma perché quel mio disagio è il loro stesso disagio, e Bingo e Exuvia sono il loro modo per provare a porre rimedio a quel disagio, o a imparare a conviverci.
Chiaramente, non può che essere così, qualcuno avrà da ridire sul titolo del pezzo, sulla foto, o sul fatto che io abbia usato l’articolo prima di fare il nome di Margherita Vicario, e perché con quel riferimento paraculo nel titolo al brano sessista di Enrico Ruggeri ho dimostrato che in fondo in fondo, diciamocelo, parlo tanto di donne ma sono un privilegiato che abusa della sua posizione, artefice del patriarcato, forse anche un po’ fascista.