Vagare per casa tra Dylan e Springsteen

Mi sono venute in mente le opere di questi due artisti, nate in stato di costrizione e devo dire che il pensarle mi è di sollievo


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Siamo di nuovo qui. Lo so, siamo sempre stati qui, non ci siamo spostati se non fugacemente, illusoriamente, ma l’illusione, a volte, è sufficiente per essere altrove, o quantomeno per sentircisi, mentre al momento, ora come ora, di illusorio c’è ben poco.

Ci sono le mura dentro le quali siamo più o meno volontariamente costretti, e ci siamo noi. Il mondo, almeno quello che ora è il mondo, concetto non esattamente coincidente con quello del mondo fino a poco più di un anno fa, anzi, affatto coincidente con quel mondo lì, se ne sta oltre le finestre, ovattato. Certo, meno silenzioso che un anno fa di questi tempi, le strade deserte, il silenzio della città una città altrimenti brulicante di vita e di rumori, rotto dal canto degli uccellini, come in una sorta di sequel di Io sono leggenda, e dal grido delle sirene delle ambulanze, niente smog, aria pulita come in alta montagna, niente traffico, niente gente in giro, ma pur sempre qualcosa di diverso dall’usuale.

Perché, diciamolo per l’ennesima e spero ultima volta, parlo per me e non solo per me, essere abituati a vivere in casa, non da asociali o disturbati, ma semplicemente da free lance senza un ufficio che contempli il doversene uscire, lo studio a pochi passi dalla camera da letto, di più, l’aver deciso, per scelta, questo sì, di evitare da sempre luoghi di mondanità, ma anche di condivisione, nel mio caso specifico, presentazioni, conferenze stampa, round table, diventa, nel momento in cui tutto questo esce dal campo delle scelte e entra a pieno diritto in quello delle imposizioni, seppur a fin di bene, qualcosa di vagamente opprimente.

Non parlo di dittature o cose del genere, non credo che siamo mai stati in nulla di vagamente avvicinabile al concetto, per altro aleatorio, di dittatura sanitaria, né parlo di privazione dei diritti elementari, credo che per sconfiggere una pandemia sia necessario applicare assai più stringentemente di così le restrizioni che da noi sono sempre applicate all’acqua di rose, ci sono le regole e ci sono le deroghe alle regole e laddove non ci sono le deroghe ce le creiamo noi, singolarmente, fatte ad hoc su di noi, parlo di qualcosa che agisce a livello mentale, la vita che ci eravamo abituati a vivere che tracima lentamente in qualcosa di apatico e assonnato, ovattato, appunto, tutto quello che concerneva il campo della socialità, della cultura, dello svago, del divertimento, che diventa orpello rinunciabile, fugato, dimenticato.

L’uomo è evidentemente animale assai adattabile, non l’ho certo scoperto io, sorta di novello Gerard Durrell, perché altrimenti non si spiega come sia stato possibile passare dall’essere quelli degli aperitivi, delle gite fuori porta, delle vacanzine pronti via prenotate all’ultimo su AirBnB, di quelle più lunghe progettate per tempo, dei concerti, degli abbracci, dei baci, a essere questi qui che se ne stanno appartati da tutti, senza più un contatto fisico, anche visivo, i device che hanno sostanzialmente sostituito la pelle, lo sguardo, zoom, streamyard, skype, la dad, le videochiamate ai cari su Whatsapp.

Niente uscite, se non programmate. Niente uscite, quindi, che non prevedano già in partenza una meta.

Ecco, questa è una delle cose che mi mancano di più, e la metto in un elenco assai lungo e denso di cose che mi mancano tantissime, il poter andare in giro senza una meta, senza un perché, per andare, perdermi, trovare qualcosa che non stavo cercando, serendipity, psicogeografia, deriva, vagabondaggio, errare. Facevo una media di dieci chilometri al giorno, tra strade e casa, perché anche dentro casa cammino tantissimo, ogni volta che sto al telefono cammino e cammino, e io sono sempre stato ore al telefono, e ora non mi muovo praticamente più, le strade precluse, le autocertificazioni, le acclarate esigenze urgenti, gli sceriffi, i runner, i gendarmi, il telefono che neanche squilla più, le progettualità azzerate, gli amici abbacchiati, la paura di chiedere come va a chi, come te, non è che se la stia vivendo benissimo.

Del resto, questo ci dice una narrazione ufficiale e anche una narrazione sotterranea, partigiana, carbonara, Milano, che è la città dove vivo, la città dove più o meno ho deciso di vivere, quella che nel corso degli anni, ventiquattro quelli da quando Milano è la mia città, è cambiata e tanto, diventando da una città arcigna e votata solo al business a una città aperta, di condivisione, sprint, ora è agonizzante, le vetrine dei negozi che non si sono più alzate, i bar tristemente vuoti, gli aperitivi dimenticati da Dio e dagli uomini, la gente pronta a riversarsi in giro al primo spiraglio di apertura, tanto quanto prima era pronta a esibire infradito e scollature al primo raggio di sole, o giacconi all’ultimo grido al primo freddo autunnale, niente città vicina all’Europa, niente la sola metropoli italiana, qualcosa di riflesso su se stessa, di dolente e indolenzita, il nostro sindaco Sala che è passato dai suoi video fuori fuoco giornalieri a un silenzio imbarazzato, niente più frecce tricolori o Bella ciao devastate da Palazzo Marino con un Saturnino particolarmente fuori tempo, un silenzio tombale che prelude a una fine imminente.

Sembra di essere in quei film dell’orrore, quelli estivi, di poco conto, che si vedevano più per farsi quattro risate con gli amici che per provare qualcosa che abbia anche vagamente a che fare con la paura, nella quale il protagonista finisce erroneamente dentro una bara, da vivo, il buio, il rumore del respiro che si fa assordante, la claustrofobia, l’impossibilità di farsi sentire, di poter essere salvato. Peggio, come quando il protagonista, vivo, viene seppellito, esattamente quel momento lì, lo sguardo immobile che vorrebbe farsi grido di allarme, il solo dito mignolo che potrebbe attirare l’attenzione di chi, invece, distrattamente ci seppellisce. Angoscia pura, distillata, in loop.

Non parlo, poi, dei giovani, quelli che per loro natura sono portati a passare le loro giornate in giro, aggrovigliati, assembrati, ammassati, o che, sempre per loro natura, non tirano fuori il naso dalla loro camera, il buio, l’ostilità verso gli adulti, i genitori in primis, ora divisi, isolati, la Dad, la movida, le zone rosse, i vaccini che non arriveranno mai, parlo più prosaicamente di me, di un cinquantunenne che semmai quei giovani li vede in casa, quattro figli tutti in didattica a distanza, e che per una volta vorrebbe non sapere dove sono, non per disinteresse o disamore, tutt’altro, ma perché la vita per come la conoscevamo prima, pur con tutte le storture del caso, la corsa a un successo effimero, il maltrattare la natura e il proprio corpo, la frammentazione emotiva e sociale figlia di un analfabetismo primario e di ritorno dilagante, mi manca tremendamente, come del resto mi mancano le persone, i miei cari che non vedo quasi da sette mesi e che presumibilmente continuerò a non vedere per mesi, il mare, Dio santo, il mare che per la prima volta in vita mia non ho visto per così tanto tempo, gli stessi mesi dai quali non vedo i miei cari, fine agosto il nostro momentaneo addio, gli amici, quelli che non avrei comunque visto con continuità e che ora non vedo e non sento più, la apatia di cui prima, la pigrizia, la difficoltà di raccontarsi feriti, quelli coi quali invece c’era una familiarità ulteriore, ora distanti, e distanti ma vicini è uno slogan che lascia davvero basiti, come l’andrà tutto bene o il ne usciremo migliore che ormai sono impronunciabili, svuotati di significati che forse non hanno mai avuto ma che oggi risulterebbero solo opprimenti.

Siamo di nuovo qui, dentro le mura di casa nostra, e dentro le mura di casa nostra sappiamo che dovremo restare almeno per le prossime settimane, l’esperienza recente ci indurrebbe a pensare assai di più, quella promessa di un ultimo grande sacrificio fatto a fin di bene, per godersi poi una vita che oggi ci sembra inipotizzabile credibile come certe offerte incredibili delle pubblicità online, tutte le pubblicità, stare soli a Natale per incontrarsi poi è stata l’ultima menzogna che ci è stata raccontata da chi oggi per altro viene rimpianto nonostante gli evidenti errori di gestione, un piano vaccinale talmente carente che ogni giorno va riscritto e ripresentato, e Dio mi tenga a distanza dal chiedermi perché ci sono professori universitari o collaboratori di professori universitari già vaccinati, le Università chiuse e senza previsione di riaperture a breve, mentre ci sono anziani che non hanno ancora ricevuto la chiamata per il vaccino, un Raoul Casadei morto di Covid mentre aspettava la chiamata. Siamo qui, sono qui, e come il protagonista delle Confessioni di un oppiomane di Thomas de Quincey, è con la planimetria della mia casa che devo fare i conti, con i suoi confini, certo, le pareti a fare da frangiflutti tra me e i miei cari e il mondo esterno, e con quello che dentro casa si trova.

Confrontarsi col conosciuto, il molto conosciuto, la propria stanza, la propria casa, la propria testa, è un’esperienza che facciamo in genere senza pensarci, naturalmente, ma come succede ai carcerati che di colpo hanno solo quegli spazi angusti, non sto dicendo che casa sia uno spazio angusto come una cella, sarei un idiota, ma sicuramente è uno spazio più angusto della città e del resto del mondo, che ormai era diventato per molti di noi, per lavoro o per piacere, il campo di gioco,  confrontarci col conosciuto, il molto conosciuto, in una condizione di costrizione totalizzante, il conosciuto che diventa il tutto, l’universo intero, è qualcosa di anomalo, di straniante, di spiazzante, di disturbante e conturbante.

Certo, de Quincey raccontava il perlustrare ossessivamente quella stanza sotto gli effetti dell’oppio, mentre qui tocca aggirarsi per casa in assenza di sostanze psicotrope, ma il senso di psichedelico vagare ovattato, credo, a tratti sia simile. Volendo rivolgersi ancora per un attimo alla letteratura, e sempre partendo da quelli che, a ragione, vengono considerati gli antenati dei testi psciogeografici di un Walter Benjamin, testi psicogeografici scritti prima che la psicogeografia venisse in qualche modo codificata da Guy Debord e dai situazionisti, attenzione, mi viene in mente il Daniel Defoe di Robinon Crusoe, anche se in genere è Il diaro dell’anno della peste a venir tirato in ballo come primo esempio di testo psicogeografico dedicato a Londra, che della psicogeografia è insieme a Parigi la città più iconica e centrale. L’isola nella quale Robinson si muove, naufrago, la sola compagnia di Venerdì e della noce di cocco, è uno spazio più grande di una stanza o di una casa, neanche troppo a ben vedere, ma è pur sempre un luogo delimitato, il mare al posto delle pareti, la marea e il vento a scombinare impercettibilmente la planimetria e l’arredo.

In una condizione di costrizione, seppur agiata, si fa per dire, la famiglia intorno, famiglia non tossica, parlo per me, una casa accogliente, la salute, parlo sempre per me, non rimane che provare a vagare, e siccome dopo oltre un anno il vagare dentro queste stanze non mi presenta più paesaggi da scoprire, mi spingo a navigare in un altrove che non sia circoscrivibile fisicamente, quindi mappabile. Una sorta di Confessioni di un oppiomane, solo che di oppio non ve n’è neanche l’ombra.

Ecco, dovendo pensarmi in un modo preciso, che mi consenta la scorciatoia della citazione, citazione dotta, non sia mai che io passi anche da stanco per uno scrittore sciatto, mi sento esattamente come Bucky Wunderlick, il protagonista di Great Jones Street, romanzo del 1973 di quel genio assoluto della letteratura mondiale che risponde al nome di Don De Lillo. Ora, qualcuno potrebbe aver da ridire sul fatto che io tenda a identificarmi come una rockstar che decide di nascondersi dal mondo, non essendo io rockstar e non avendo soprattutto io deciso di nascondermi, ma essendo il nascondimento in qualche modo a me imposto dall’alto, ma quel senso di claustrofobia a metà strada tra la deriva psicotica e la consciuosness che Bucky dimostra pagina dopo pagina, il sapere qualcosa che sfugge evidentemente agli altri, vai poi a capire se coincidente con la realtà o appunto figlia della psicosi, quella lucidità apatica e psichedelica di chi di colpo semplicemente implode, beh, rende perfettamente l’idea di come io tenda a sentirmi in questi giorni, l’ennesimo lock down dentro il quale siamo cascati con le scarpe e tutto a cadenzare le giornate, tutte uguali.

Allora, i giorni di isolamento non sembrano destinati a finire di qui a breve, credo sia il caso di provare a incanalare queste sensazioni da qualche parte, a farne progettualità, pur nell’impossibilità di progettare alcunché, di spingere i confini di queste stanze e di questa mente altrove, anche in assenza di oppio. Mi vengono in mente, ricordatevi che mi sono appena paragonato a Bucky Wunderlick, rockstar assoluta protagonista del romanzo di De Lillo, almeno un paio di opere nate in stato di costrizione, fisica o mentale, e devo dire che il pensarle mi è già di sollievo.

La prima, in ordine cronologico, è The Basement Tapes di Bob Dylan. La seconda Nebraska di Bruce Springsteen.

Entrambe le storie sono piuttosto note, e non è certo questa sede di approfondimenti, quanto più che altro di suggestione e, spero, incuriosimento.

Dopo aver sconvolto il mondo del folk col famoso concerto al Festival di Newport, nel 1965, elettrificando un genere per sua natura acustico, sorta di gesto blasfemo portato proprio in seno al tempio del genere più arroccato sulla tradizione, Dylan nel 1966 ebbe un incidente in moto che lo terrà immobilizzato a lungo in casa. Non essendo tipo che usa passare il tempo a bighellonare, allora non c’era manco Clubhouse, figuriamoci, Dylan decide di trasferirsi in una villetta dalle parti di Woodstock e di trasferircisi in compagnia di un manipolo di ottimi strumentisti, suoi sodali, gruppo di ottimi strumentisti e sodali che rispondono al nome della Band. Da questa autoreclusione durata qualche settimana nel 1967 scaturiranno una serie di registrazioni a lungo mitizzate, uscite in un primo momento quasi dieci anni dopo col titolo di The Basement Tapes, e poi uscite in versione ampliata decenni dopo. Canzoni di culto per chi è seguace del culto dylaniano, certamente, e dimostrazione di come a volte gli incidenti sono una vera manna dal cielo (capiterà anche a Bersani, con Replay, di scrivere mentre era immobilizzato a letto con una gamba rotta). The Band di lì a breve esploderà, iniziando proprio col prendere questo nome e dando alle stampe quei due capolavori che rispondono al nome di Music from the Big Pink, con riferimento proprio alla casa rosa di Saugerties dove nacquero le Basement Tapes, album uscito nel 1968, e il successivo album eponimo, uscito nel 1969. La band di Rick Danko, Robbie Robertson, Levon Helm, Richard Manuel e Garth Hudson non sarà mai così ispirata, anche se singolarmente o insieme continueranno a produrre ottima musica. A riguardo di questa esperienza vissuta all’interno della Big Pink consiglio il libro di Greil Marcus che porta per titolo Quella strana vecchia America- I Basement Tapes di Bob Dylan, imperdibile come buona parte della produzione del critico musicale americano, a partire dal seminale Tracce di rossetto- Storia segreta del XX secolo.

Il caso di Nebraska è assai diverso, e forse più vicino alla condizione di cui parlavo in esergo. Diventato suo malgrado una vera rockstar, milioni di dischi venduti, tour in grandi arene in giro per il mondo, a inizio anni Ottanta Springsteen si ritira nella sua casa nel New Jersey,a  Freehold, e registra l’album in solitaria con un quattro piste. Sono canzoni cupe, che ci parlano di serial killer e della vita nelle badlands, il clima dell’inverno tra il 1981 e l’82 a rendere lo spirito del Boss ancora più introiettato verso se stesso. Canzoni che per qualche tempo restano lì, incise su una cassetta che Springsteen porta con sé in attesa di capire cosa farne. La decisione di pubblicarle in quella versione casalinga, scarna e minimale, arriva dopo che il nostro entrerà in studio con la sua E Street Band, i risultati raggiunti da queste incisione affatto convincenti vista la natura anomala di quelle canzoni, relegando Nebraska nel novero dei dischi “casalinghi” più belli di sempre.

Certo, la lista degli album incisi in casa, specie in tempi recenti, potrebbe essere infinita, ma è proprio la natura di questi lavori a avermeli fatti tornare in mente e di conseguenza citare. La casa, nello specifico, in questi casi non è un luogo come un altro, è proprio parte integrante dell’opera, caratterizzante tanto quanto  la composizione, la scrittura dei testi e l’utilizzo di determinati strumenti.

Chiudo però citando un romanzo, oggi va così, i libri sono del resto una parte importante di casa mia, non posso che trovarmeli tra le mani in continuazione, Il libro è di Jack Kerouac, e confesso di non averlo più letto da almeno una trentina d’anni, e si intitola Angeli di desolazione. Succede che Jack passò nove settimane dell’estate 1956 come avvistatore di incendi sulla cima della Desolation Peak, nella Catena delle Cascate a nord ovest di Washington. Solo in una capanna, un tavolo su cui mangiare e scrivere e un sacco a pelo dentro il quale dormire, per il resto solo la natura selvaggia e bellissima e se stesso. Un viaggio da fermo, che in qualche modo anticipa quello che con On the Road esploderà, regalandoci uno degli autori più importanti del Novecento, capostipite di quella Beat Generation che è stato il gruppo di scrittori più vicini all’idea di rocker che la letteratura ci abbia regalato, almeno fino all’avvento, trent’anni dopo, dei Cyberpunk.

The Basement Tapes di Bob Dylan, Nebraska di Bruce Springsteen e Angeli di Desolazione di Jack Kerouac, quindi, oltre che Great Jones Street di Don De Lillo, Questa strana vecchia America di Greil Marcus, Confessioni di un oppiomane di Thomas de Quincey e Robinson Crusoe di Daniel Defoe, direi che questo ennesimo lock down non può, almeno da queste parti, che partire da qui.