Addio a Lou Ottens, il genio della Philiphs che ha segnato un’epoca: quella dei nostri sogni

Con le sue musicassette aveva portato un po' di romanticismo nella creazione delle compilation. Lo streaming lo ha cancellato


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Perdiamo pezzi di Novecento, noi che del Novecento siamo figli, e ne perdiamo così tanti e così in fretta da non accorgercene più. Il lavoro cambia, si fa rarefatto, le auto ci conducono loro in un ronzio elettrico, la musica perde ogni supporto: pochi giorni fa se n’è andato all’età del secolo, 94 anni, un genio dal nome sconosciuto, Lou Ottens, uno che ci ha cambiato sul serio la vita a noi figli del Novecento. Ottens era un ingegnere della Philips capace di immaginare (e di creare) il primo registratore portatile, che però andava a bobine, quelle rotellone di nastro inciso; splendido ma scomodo, roba da cinema, da professionisti, non da famiglie. E così anni dopo, nel 1963, Lou ebbe un’altra prodigiosa illuminazione e partorì l’audiocassetta, quel rettangolino magico con dentro la tua voce e quella di chi volevi. Una bobina in miniatura, un deposito di memoria auditiva da portare con noi: già sembrava la fine del mondo, niente di più minuscolo, di più comodo sarebbe potuto arrivare. Ingenui noi uomini del Novecento…
Piccola, compatta, la “cassettina” segnò un’epoca, poi due, poi tre: certo, il vinile aveva il suo fascino, ma vuoi mettere la cassetta da portarti nel mangianastri, anche in macchina? Diventò subito il supporto di riserva, i più snob facoltosi comperavano sia il 33 giri che la cassetta, una reliquia da conservare, l’altra alter ego da strapazzare. Noi comuni mortali al massimo ci registravamo l’album, con alterne fortune. Ma la vera libidine era personalizzare la faccenda. Era un rituale di corteggiamento, tipo la ruota del pavone, bisognava saperci fare: ci sfidavamo, noi ragazzi del “Secolo Breve”, a chi otteneva copie più immacolate, qualcuno si lanciava pure nei mixaggi da deejay. “Me la fai una cassetta?”, e fioriva una mitologia di canzoni, di compilation che poi erano le moderne serenate, se uno voleva conquistare una fanciulla doveva solo azzeccare la raccolta giusta e poi consegnargliela in una cassetta con il nastro rosa.
La tecnologia galoppava, gli stereo diventavano sempre più sofisticati, lussuosi marchingegni a doppia piastra con testine di materiali sconosciuti, le stesse cassette si trasformavano nella pietra filosofale e tutti ci sentivamo un po’ come Calandrino nel Mugello: nastri al magnesio, al manganese, al doppio tungsteno. Con risultati a volte atroci, altrimenti sublimi. Arrivò fatalmente il walkman, l’apparecchietto con le cuffiette da passeggio, e i più esigenti disprezzavano le cassette originali che si compravano in negozio, preferivano acquistare un disco di vinile nero e registrarlo con le proprie alchimie e sentirselo in beato Nirvana in mezzo al traffico, come Ernesto Calindri col Cynar. Fiorì così una generazione di puristi un po’ fanatici e un po’ maniaci, a scuola, tra gli amici, il rango sociale si misurava ormai dalla dotazione tecnica dell’hi-fi e dalla conseguente capacità di ricavare copie al di là di ogni immaginazione. Da cui un curioso mercato nero dei nastri, del quale chi scrive trovò estensioni perfino all’Università, alla Statale di Milano con tanto di botteghino ufficiale…
Stagioni epiche, finché Ottens, suo malgrado, uccise la sua creatura escogitandone un’altra, il compact disc, sempre per Philips. Quel dischetto dai riflessi iridescenti ci mise poco a imporsi, la sua resa era perfetta anche se, a detta degli audiofili, troppo fredda; ma non perdeva nastro, non si attorcigliava, durava – dicevano, ma non era vero – in eterno. Però faceva tutto lui, o meglio faceva il computer, la magia dell’homo amanuensis che suscitava suoni da suoni andava completamente perduta. Il cd ha avuto vita breve, una trentina d’anni, giubilato da una tecnologia sempre più galoppante; oggi la musica non ha più corpo, solo codici, s’infila nello smartphone, nel portatile, nella “nuvola” di Internet, in un millimetrico quadratino di scheda (altroché la C-60) ce ne stanno a migliaia di canzoni. E questo, ancora una volta, è molto comodo, ma leggermente inquietante. Perché pare davvero il capolinea, dopo la musica liquida o volante, che è sempre con te, che non la puoi afferrare, cosa resta? Forse solo un microchip da infilarti nel cervello, così non sarai più tu a suonare le tue canzoni preferite ma loro a suonare te.
Di cassette ne sono state vendute 100 miliardi in 60 anni e, come tutte le cose belle, si fatica ad archiviarle: ancora oggi gli snob registrano o consumano musica su quel supporto e lo stesso vinile periodicamente vive le sue riscoperte. Ma è chiaro che si tratta di una riserva indiana di nostalgici, di figli del Novecento non ancora pronti a morire insieme ai loro feticci. Oggi i “Millenials” non perdono tempo a costruire raccolte per l’amata, la mandano direttamente sulle piattaforme digitali e dicono: scegli quello che ti pare, tanto c’è tutto. E in quel tutto non si trova niente, perché manca l’anima che si nascondeva in una cassettina fatta con amore, con intuizione, con classe. Addio Lou Ottens, che col tuo genio hai segnato un’epoca: quella dei nostri sogni.