Ovviamente non è mia intenzione star qui a analizzare il Festival di Sanremo 2021. Né da un punto di vista dello spettacolo televisivo, ne ho scritto anche troppo, e la televisione non è esattamente il mio interesse primario, né dal punto di vista musicale, che invece non è di interesse primario di chi il Festival pensa, mette in piedi e conduce, Amadeus.
Chiaramente dirò qualcosa, in fondo quest’anno pagelle a parte non ho scritto i miei soliti diari e non ho neanche fatto pezzi di colore, anzi, proprio per le pagelle mi sono fermate nello scrivere questo mio diario, nonostante nel mentre il lock down sia diventato esattamente un lock down, tutti i figli a casa in DAD, ambulanze ogni dieci minuti a sirene spiegate, dati allarmanti, ma non farò un pezzo di analisi, perché non credo che il Festival, proprio in quanto programma televisivo, sia qualcosa di unico da trattare nel momento in cui c’è, non dopo. Una bolla, che del resto di questo Festival è stata parola portante, i protocolli Covid, le interviste fatte in video, i cantanti reclusi in camera, la città raccontata come deserta. Ecco, parto da quel “raccontata”. E in questo spiego anche la scelta di non fare un diario, o quantomeno di non farlo di Sanremo (la scelta di stoppare per sei giorni il mio, di diario, è figlia più della difficoltà di conciliare le pagelle, le videointerviste, lo stare svegli fino a notte tarda, tardissima, con lo scrivere un diario piuttosto impegnativo, per me, da un punto di vista letterario, e anche la consapevolezza che il diario sarebbe finito in qualche modo ingoiato dal chiacchiericcio di questi giorni). Dopo anni passati a raccontare Sanremo da Sanremo, seppur in una posizione laterale, chi ha seguito Attico Monina, per dire, ben sa come io me ne sia sempre stato altrove, seppur lì, quest’anno sono rimasto a casa. C’era la possibilità di andare in loco, ma farlo come nei miei ultimi Festival, quindi organizzando eventi collaterali, incontrando artisti in situazioni di relax, allestendo set live di artisti fuori dal giro della kermesse, dalle cantautrici del Festivalino di Anatomia Femminile agli emergenti, come l’anno scorso i ragazzi del Team Mirò, era impossibili, oltre che folle. Andare in Sala Stampa non mi è mai piaciuto, l’ho sempre evitato come la peste, e comunque la Sala Stampa quest’anno era connessa via Webex, come la DAD dei miei figli, perché mai andare via da casa per assistere a interviste in remoto con gli artisti? Solo per la conferenza delle 12 con Amadeus e i vertici RAI? Dai, siamo seri. Anche fuori da lì, del resto, le cose non erano poi così diverse. Abbiamo visto foto, filmati, letto racconti della città deserta, niente feste notturne, niente strade affollate di fan, niente transenne con folla accalcata per farsi un selfie con l’artista di passaggio, niente ristoranti dove mangiare e chiacchierare con gli addetti ai lavori. Se questo era e è stato il Festival unico, questo ce lo auguriamo, e anomalo del Covid, allora ho optato per seguirlo da casa, come non facevo da anni e anni. E ho deciso di seguirlo proprio come uno spettatore normale, ho disertato la giornata dei preascolti per i giornalisti e i critici musicali, volevo ascoltare le canzoni direttamente durante il programma, come tutti. Poi però, all’ultimo, la malinconia ha prevalso, la consapevolezza che Sanremo è, in quanto evento unico, direi non prettamente musicale ma collaterale alla musica, qualcosa che in qualche modo per una settimana catalizza l’attenzione di tutti, me compreso, che mi permette, per altro, di fare cose che non potrei fare nel resto dell’anno, azzardare atti di forza altrimenti irripetibili, dare vita a visioni che poi mi ripeto per tutto l’anno che vorrei realizzate anche altrove, ma che a Sanremo mi vengono più semplici per una contingenza, lì c’è una maggiore attenzione e quindi ci si può premettere budget superiori a quelli che ci si può permettere in genere, c’è anche una concentrazione di artisti e addetti ai lavori superiori alla media, e soprattutto si vive in una settimana ininterrottamente, come se non esistesse giorno e notte, con una adrenalina e una voglia di fare unica, come fossimo tutti dentro un rave party che dura un fine settimana dentro un capannone abbandonato.
La malinconia è arrivata, ha colto me e Mattia, Mattia Toccaceli, colui col quale negli ultimi anni abbiamo organizzato eventi direi senza falsa modestia pazzeschi, da Monina Against the Machine a Casa Picena, passando per i due Attico Monina, e quindi, lunedì, a Festival praticamente quasi iniziato, abbiamo deciso di esserci, per quel che era possibile e nei modi che la contingenza ci permetteva, cioè in remoto, io a Milano, lui altrove.
Così è nata SanreMonina, che ovviamente non poteva né voleva essere una versione Covid di Attico Monina, quanto piuttosto un provare almeno per cinque giorni a sentirci vivi, e in questo, credo, tutto è filato liscio. O almeno, così ci è parso. Volevamo, io e Mattia, fare una diretta al giorno, con ospite un artista in gara, selizionato. Io ero stato tirato dentro da Alberto Salerno nella sua Storie di Musica edizione sanremese, che vedeva anche la presenza di Mara Maionchi, di più mi sembrava troppo. Solo che Sanremo è un flusso di energia e di adrenalina, almeno per come la vediamo noi, così la faccenda ci è un po’ sfuggita di mano, e abbiamo finito per fare assai più di quanto avessimo pensato. Abbiamo incontrato, in remoto, è evidente, i Coma_Cose, Arisa, Extralisco e Davide Toffolo, Annalisa, Francesco Renga, Bugo, La Rappresentante di Lista, Fulminacci, Ermal Meta, Le Deva, Madame, Noemi, Willy Peyote e abbiamo chiuso, domenica mattina, con Orietta Berti.
Praticamente tutti coloro che ho apprezzato, del resto non avrei mai cercato di incontrare chi non mi interessa, e del resto, in questa modalità remota, dire di no a interviste che non mi interessano è stato decisamente più facile, come avviene in questi tempi che ci vedono lontani e filtrati dai device.
Ho optato, e non è un dettaglio irrilevante, per il discorso che voglio fare, per fare le interviste esattamente dalla postazione che ho usato durante questa settimana, in Sala, la credenza che fu dei nonni di mia moglie Marina alle mie spalle, laddove solitamente c’era la libreria. Sono a casa, ho pensato, si capisca bene. Non ho necessità di dimostrare che in casa ho libri. Né particolare interesse a farlo.
Fare interviste, prendiamo l’esempio dell’ultima, a Orietta Berti, alle dieci e trenta di domenica mattina, con il Festival finito alle due e mezzo, io che sono andato a letto dopo le tre, è una cosa stranissima. Farla in ciabatte e pantaloni corti, tanto non si vede nulla, mentre di là sento mia moglie che prepara la colazione ai gemelli, è stranissima. Pensare che negli anni scorsi, con buona probabilità, a quest’ora starei preparando il ritorno a Milano, senza aver dormito un minuto, le feste, gli incontri, le bevute in relax, come del resto per tutta la settimana, i camion con le attrezzature da caricare, i vestiti da rimettere nelle valige, cibi e bevande da riporre negli scatoloni, i dischi, perché a Sanremo ancora gli uffici stampa ti lasciano i dischi, da mettere da qualche parte, è quasi annichilente.
Perché, è di questo che volevo parlare, Sanremo è una cosa anomala, ripeto, una bolla, dove per una settimana si corre, ci si incontra, si parla con gente con cui solitamente non si ha alcun rapporto, gente a cui stai sul cazzo, vicendevolmente, si incontrano artisti di cui hai una stima anche sommaria, che finge di stimarti perché pensa che è così che vada fatto, ci sono le pagelle, il voto in Sala Stampa, insomma, un circo. Le pagelle, ecco, anche le pagelle sono una anomalia sanremese. Certo, ci sono anche quelle di X Factor, ma a parte che è una cosa che in realtà credo di fare solo io, nello specifico con mia figlia Lucia, e proprio il farle con mia figlia Lucia è alla base del mio farle, mi interessa sviluppare un punto di vista intergenerazionale, ma a Sanremo le pagelle diventano quasi un punto fermo della kermesse, al pari dei fiori, del gossip, del presentatore che prende qualche gaffe che non mancherà di scatenare polemiche lunghe e spassosissime. Io non sono un professore, non sono uso dare voti ai musicisti o alle loro opere. Non faccio neanche recensioni, da anni, e quando le facevo le facevo a fatica, perché mi fa cagare leggerle, figuriamoci scriverle. Non sono un professore e non credo che fare pagelle sia compito del critico musicale. Nei fatti neanche seguire il Festival rientrerebbe a pieno titolo nei compiti di un critico musicale, se non tangenzialmente, non fatevi ingannare dal Premio della Critica, in realtà assegnato prevalentemente da giornalisti, neanche sempre di ambito musicale, sapeste chi vota vi passerebbe ogni poesia. Io, per dire, ho rinunciato sia al voto per la parte percentuale di voto inerente alla Sala Stampa, sia a quello per il Premio della Critica, ho già dato in passato, non mi interessa. Le pagelle di Sanremo, di questo stavo parlando, sono una parte del Festival, e se decidi di seguirlo, io la penso così, ti metti in gioco e prendi parte a questo carrozzone, diventando parte dell’intrattenimento. È come se di colpo, noi che nella vita ci si occupa di analisi musicali, si parla di dinamica e armonia, venissimo proiettati a giocare, sottolineo questo verbo, in un campionato che col nostro non ha davvero quasi nulla a che fare, siamo calciatori e di colpo ci troviamo delle mazze in mano, la palla non c’è, o se c’è è piccola e difficile da vedere, il campo è molto illuminato e con un pubblico molto più ampio del solito. Ecco, per una volta la metafora mi è venuta particolarmente bene, dice tutto quello che potrei dire con molte più parole, me la tengo stretta. Le pagelle sono una forma letteraria a sé, quindi scriverle è un esercizio di stile, e come tutti gli esercizi di stile mi piace cullare l’idea di averlo svolto in modo personale, mettendoci del mio, sia da un punto di vista formale che di contenuti. Ho anche parlato di musica, pensa te, ma l’ho fatto nella modalità sanremese, mettendo il tutto dentro un discorso altro, fatto di diversivi di varia natura.
Quest’anno, addirittura, ho azzardato una doppia pagella, per divertirmi, tentando una strada, quelle quartine in rima, che presto azzarderò anche da queste parti, e spero che almeno qui nessuno mi scassera la uallera perché non sono filologicamente degli Haiku. Sono pagelle sanremesi, Dio santo, è evidente che stiamo nel campo della finzione.
Finzione, e qui torniamo a Sanremo, ma vero. E so che questo concetto può suonare di non semplice digestione. Finto e falso non sono la stessa cosa.
Quello che penso delle canzoni in gara, degli artisti che le canzoni in gara hanno presentato, di Amadeus come organizzatore e conduttore, di Fiorello come mattatore, di Achille Lauro come… boh, come quello che sta provando a convincerci che è, lui che nei fatti è solo il testimonial di Gucci, roba inguardabile, fondamentalmente product placement della maison di moda spacciata per opere d’arte, canzoni orride ripetute come avessero mai incontrato un qualche successo, qualcosa che sfugge alla mia logica, ma temo anche alla logica di chiunque dotato di un minimo di lucidità, comunque quello che penso del Festival è tutto lì, nelle pagelle. Nero su bianco. Certo, alcune cose le ho dette a voce, nelle interviste di cui parlavo prima, come nei vari passaggi su Clubhouse, social che durante il Festival è stato particolarmente attivo, attivissimo, ma che a mio modo di vedere mal si addice a commentare uno spettacolo che preveda l’ascolto e la visione, o si parla o si ascolta, questo il semplice dato di fatto.
Quello su cui però mi vorrei concentrare è quello che questo Sanremo anonimo ci ha detto, o quantomeno quello che ha detto a me, questo è il mio diario, ovvio che parta dal mio personale punto di vista.
Mi ha detto che quello che per un intero anno abbiamo visto prima rallentare, poi fermarsi, poi illuderci che sarebbe ripartito, poi fermarsi senza dar più segni di vita, nei fatti mi manca davvero molto. Anche Sanremo, lo dico chiaramente. Cioè, mi manca anche qualcosa che ho sempre affrontato cercando di proporne una alternativa, una deviazione panoramica sul percorso principale, qualcosa che potesse abbeverarsi alla medesima fonte, un pubblico di riferimento immenso, proponendogli una visione su mondi lontanissimi. Mi manca l’idea di non dormire perché devo preparare interviste che poi puntualmente improvviserò, per riscrivere scalette che salteranno all’ultimo, per ascoltare canzoni di cui avrei fatto volentieri a meno. Mi manca di passare i giorni precedenti al telefono con gente che non sento che in quell’occasione, non perché non ce ne sia altra occasione durante il resto dell’anno, ma perché ci stiamo palesemente sul culo, come mi manca l’idea di dover parare i colpi ininterrotti dei fanclub degli artisti che maltratterò violentemente con le pagelle, gente che evidentemente prende sul serio un critico musicale che si mette a dare voti come fossimo a scuola (e per screditarlo gli dice che “nessuno lo prende sul serio”). Mi manca quella carica di pressioni che durante il Festival arriva praticamente ogni minuto da parte di chiunque, una pressione tale che ti puoi ritrovare a parlare davanti a qualche milione in tv o in radio, come a qualche centinaia sul web senza provare il minimo timore reverenziale, senza lasciare che nessun tipo di emozioni abbia la meglio su di te, senza, in poche parole, che la pressioni si tramuti in panico. Mi manca, parlo da misantropo che ha fatto dell’essere misantropo una delle proprio particolarità, quello che non c’è, che evita gli appuntamenti mondani, che scansa ogni incontro pubblico e se ci va poi lo lascia prima della fine, quello che ha fatto dell’essere altrove la propria cifra, mi manca, parlo da misantropo, essere costantemente circondato da gente, sempre, anche in bagno, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Certo, non mi manca la Sala Stampa, i colleghi, quelli continuerei a evitarli con piacere anche se domani fosse quello il solo luogo frequentabile, perché non è che sia ancora a quel livello di disperazione, ma per il resto mi manca tutto. Mi manca, cioè, di lavorare, e di farlo in mezzo alla gente, non chiuso in casa, in ciabatte, solo davanti a un pc. Il fatto che la botta di adrenalina mi sia arrivata attraverso il medesimo Pc, in collegamento con altri, sì, ma su Streamyard, è una sorta di corto circuito, sempre in ciabatte e a casa, mica nella bolgia sanremese, ma questa è altra faccenda. La botta è arrivata, l’illusione di essere quasi nella normalità anche, credo si possa paragonare questa situazione a chi, dopo aver subito una amputazione continua a sentire l’arto amputato, roba del genere. Ora, ovviamente, si prospettano i giorni del down, la stanchezza, perché ridendo e scherzando, seppur in ciabatte e a casa, ho dormito poco o nulla per una intera settimana, mai a letto prima delle tre, alzandomi comunque alle sei e quaranta, la DAD è arrivata solo venerdì e io ho da portare i figli a scuola, passando la stragrande maggioranza del giorno e della notte a lavorare, come in effetti non succedeva da tempo, l’apatia che lascia spazio all’entusiasmo, ma in clamorosa assenza di allenamento, la fiacca già al decimo minuto di diretta, salvo poi rompere il fiato, prendere il ritmo, e ora ritrovarmi qui, sotto un plaid a tremare singhiozzante: voglio tornare a lavorare come prima del Covid, sob, sniff.
Come ovviare a tutto questo? Riprendendo il diario, mi sembra evidente. Ma iniziando a pensare anche a altri progetti, alzando lo sguardo oltre l’orizzonte, lasciando l’apatia a singhiozzare nel letto, pronto a rimettermi in gioco.
A partire da un podcast, di cui avrò modo di parlarvi nelle prossime settimane. Ma non solo quello.
Magari, a partire da qualcosa che sul palco dell’Ariston abbiamo visto nella sua versione posticcia, falsa, a beneficio di un pubblico disattento e disinformato, cioè un millantato ritorno ai suoni rock, imputato imprudentemente ai vincitori Maneskin, ragazzi carini e simpatici, che però stanno al rock come io sto al curling, forse anche meno, la finta ribellione di chi va a Sanremo e dopo che vince scoppia in lacrime fa davvero sorridere, per non dire di vendersi come rock solo perché usi i distorsori e ti presenti a torso nudo sul palco, Dio santo, questo da una parte, dall’altra la pagliacciata tutta forma priva di sostanza di Achille Lauro, l’idea cioè che una teatralità infarcita di citazioni prese ad minchiam e provocanti quanto lo può essere la parolaccia sgrammaticata detta dal bambino che ha capito che quello è un modo per attirare l’attenzione dei grandi. Ecco, penso che il discorso fatto giorni fa sulle provocazioni nell’arte, forse, vada approfondito, e credo che anche il discorso sul rock, un genere codificato ormai decenni addietro, forse una lingua morta, non lo escludo, ma comunque dai confini piuttosto precisi e ben tratteggiati, dentro i quali, è evidente, non si muovono i Maneskin, intenti, esattamente come Lauro, in un puro lavoro di simulazione, forma senza contenuto. Come vestirsi da chirurghi e essere convinti di essere in diritto di andare in giro a operare la gente. Magari i due discorsi, sempre di indossare un costume e spacciarsi per altro da sé si tratta, possono essere sviscerati insieme, chissà. Di fatto credo che sia necessario, oggi più che mai, fare chiarezza. E farla puntando in alto, magari un monologo teatrale, uno show, un libro, un album, tutte queste cose insieme.
Ora torno di là a piangere disperatamente, sotto quel plaid. Adrenalina e nostalgia canaglie.