Questa edizione del Festival si conferma l’edizione del grande vuoto

Di questa settantunesima edizione è meglio dimenticare tutto ma proprio tutto alla svelta: rimuoverlo, come un calcolo sbagliato


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È stato un fiasco, un disastro, una Caporetto, quindi sarà un successo. A questo punto, dopo tre sere, si può dire, le jeux sont fait: niente si salva di questo Festival, non la qualità musicale, non la caratura degli interpreti, non si dica degli ospiti, non parliamo nemmeno dei conduttori, che ricordano due arzilli buontemponi in libera uscita da un ospizio. È la vecchiezza, che con le sue ali bianche si stende su un teatro svuotato, pieno di palloncini dalle forme equivoche, espediente cassato subito, tanto valeva lasciar le poltroncine desolate, quei velluti orfani evocativi almeno di qualcosa, non si sa cosa ma qualcosa Dio mio, i latrati del passato, la resurrezione che, forse, verrà. No, qui c’è il Festival che non c’è. Un Festival oltre la decadenza, da fine impero, da liquidazione. Dove nessuno ci crede veramente, dove chiunque tira per sé e basta, dove tutti aspettano solo di tirar le due, sera dopo sera, pur che passi. Una follia, chè non si può pretendere un avanspettacolo di 6 ore. E dunque una rovina, ma bisognerà pur spacciarla per trionfo e come? Interpretando i numeri, filosofeggiando, concentrandosi sull’attimo fuggente di share che non significa niente, oppure, nel modo più patetico, ripetendo ogni tanto per quanto che “è il Festival dei giovani, il più seguito dai giovani”.
Davvero? C’è una certa differenza tra seguire e commentare via social, il cronista, per esempio, è bombardato da interazioni di chi il Festival non lo vede e se ne vanta e ti scarica addosso la croce: “Ah, vedilo tu anche per me, poi mi racconti, io non ce la faccio”. Ma da raccontare cosa c’è? È un antifestival, la negazione di un Festival, mai vista una latitanza di questa violenza negli ultimi 50 anni. Neanche ai tempi, primi anni ’70, epoca barricadera, dell’unica serata finale trasmessa in televisione, il resto, se uno voleva, alla radio. No, qui non c’è neppure l’eventualità di qualcosa, non c’è un solo brano, una faccia, una battuta – e sono sempre un esercito gli autori che mettono in bocca a Fiorello doppi sensi da avanspettacolo. Niente cui aggrapparsi. In questo senso, è il Festival perfetto, davvero specchio del tempo. Perché non c’è. Così come non ci siamo più noi come umani, relegati nell’impossibilità da un anno; e non c’è più socialità, e non c’è il lavoro, il commercio, le attività; così come non c’è, troppo spesso, lo Stato che lascia tutte le emergenze dove sono e così le acuisce; allo stesso modo in cui non c’è il Paese, non c’è il Festival che pretende di rappresentarlo.
Un’aria da fine dei giochi, fine dell’impero, nessuna pretesa nemmeno di fingere, di ballare mentre si affonda. Prova ne sia la sinistra propensione al cazzeggio infantile: non è un Festival di canzoni ma una sfilata di moda impazzita, cantanti vestiti da Leonardo da Vinci, da benzinaro, da sfigato al parco col pallone, uno, in fama di poeta da Instagram, è arrivato per cantare non si è capito quali tematiche sociali ma vestito con la braghe da sbarco e le calzette allucinogene e le scar de tennis di jannacciana memoria: ma perché Dio santo, perché? Tutti uguali nelle stesse filastrocche, pippirippippì Gazzè, popporoppoppò lo Stato Sociale, papparappappà questi Extraliscio con un ragazzo morto (sic). Come a dire: è tutto finito, facciamo gli scemi. E poi il cosiddetto “indie”, a conferma che l’indie italiano, se è questo che si vede sull’Ariston, non solo “manda un odore curioso” ma è proprio decomposto.
In Rai, cinicamente, dicevano: gli diamo la schiuma, tanto dove vanno? Come sempre, capiscono domani; come sempre, non si sono resi conto che a questo punto un baraccone coi “quadri viventi di Achille Lauro”, di per sé la negazione riconosciuta di chi si annulla nelle evocazioni altrui, non è più inevitabile seguirlo: l’offerta si è moltiplicata, se Mediaset gentilmente, come sempre, rinuncia a una controprogrammazione (ma fino a un certo punto, e meno che in passato), perché a Sanremo ci vanno pure gli ectoplasmi di Maria, beh la Rete libera una offerta infinita di alternative con le sue Netflix, Amazon, Youtube e quant’altro. Oppure si può semplicemente spegnere all’ennesima pantomima di Ibrahimovic che dopo dieci minuti si è trasformato in Celentano. Di questa settantunesima edizione non resta un solo istante e in verità è meglio dimenticare tutto ma proprio tutto alla svelta: rimuoverlo, come un calcolo sbagliato.
Dite che la Rai imparerà? Difficile, l’arroganza è congenita, è incurabile e, visto l’andazzo, si potrà incolpare gli italiani di non avere guardato, di non essere stati abbastanza italiani. Solo che, grazie a Dio, un vaccino contro il Festival esiste, è quello del rispetto di sé e delle proprie orecchie. Perché in questo caravanserraglio, ciò che riecheggia sono i ragli. Dietro i sorrisi di circostanza delle conferenze stampa, che velano le bestemmie, gli insulti, le scenate di chi rischia la testa, Amadeus prima di tutti, ci sta il solito gioco delle tre carte in funzione esorcistica: diciamo, insistiamo che comunque, per quanto, concedendo che, diciamo però che alla fine è stato un trionfo. Finiranno per crederci, alla loro rimozione forzata. Ma è proprio la formula, è il Festival che ormai non regge più e questo, al di là degli ascolti più o meno drogati degli anni scorsi, già da parecchie stagioni. D’accordo, questo è stato il Sanremo del grande vuoto, il Sanremo pandemico che rischia di far vincere un cantante positivo al Covid, il che sarebbe la Nemesi perfetta per un Festival che è stata una colossale presa in giro, un’orgia di infantilismo paternalistico, i conduttori che si radono a vicenda, si salutano col culo, che è a suo modo una scena icastica. Ma è anche il redde rationem di un andazzo che non poteva reggere ancora a lungo, e che è crollato, fatalmente nel momento più tragico, più difficile della sua ultrasettantennale storia.