Dopo la prima assoluta dell’8 febbraio su Sky, è ora disponibile on demand sulla piattaforma Lei Mi Parla Ancora di Pupi Avati, che trae il titolo e la vicenda dal romanzo omonimo scritto dal nonagenario Giuseppe Sgarbi, padre del critico Vittorio e dell’editrice Elisabetta. Nel racconto non c’è concessione alcuna alla notorietà dei due figli, e probabilmente per evitarlo Vittorio è posto in una luce assai periferica, mentre Elisabetta, interpretata da Chiara Caselli, è soprattutto un’amorevole figlia sgomenta per il dolore vissuto dalla sua famiglia.
Che consiste nella morte della madre amatissima Caterina (Stefania Sandrelli) e nella sopravvivenza difficile del padre Giuseppe (l’ottantenne Renato Pozzetto), improvvisamente vedovo dopo sessantacinque anni vissuti accanto alla sua Rina, anzi “la” Rina, come gli piace dire. Elisabetta pensa che a lenire la sua sofferenza potrebbe essere la scrittura di un libro di memorie in cui ripercorre i ricordi di una vita a due che, per la durata dell’amore e la dolcezza dei sentimenti condivisi contiene qualcosa di miracoloso. Coinvolge un esperto ghost writer, Amicangelo (Fabrizio Gifuni), un uomo di mezza età dall’esistenza abbastanza disastrata (separato, con una figlia che vede pochissimo e i debitori sul collo), eterno aspirante scrittore di suo, il quale accetta per motivi alimentari.
Così il diffidente cittadino reso cinico dai tempi grami e dalla vita della metropoli, s’immerge controvoglia nei ritmi apparentemente eterni della provincia padana, lenti come il fiume che ne segna la geografia, incontrando un uomo che non potrebbe essere più lontano da lui caratterialmente, e aggirandosi negli spazi di una “casa della vita”, come l’avrebbe potuta chiamare Mario Praz, l’abitazione museo di Giuseppe ingombra d’una collezione intima e preziosa d’opere d’arte raccolte lungo tutta un’esistenza. E lì, inatteso, avverrà il miracolo.
Il vero miracolo di Lei Mi Parla Ancora è in primo luogo in questo legame indissolubile di Giuseppe e Caterina (da giovani Lino Musella e Isabella Ragonese), che il giorno del loro matrimonio hanno giurato a loro stessi che, se fossero stati capaci di serbare la stessa intensità di quel sentimento, sarebbero diventati immortali. Ed è per quella promessa mantenuta che allora Giuseppe continua a parlare con la propria moglie adorata anche dopo la sua dipartita, in una compresenza dei morti e dei viventi che non ha nulla di mistico, ma è solo la misura umanissima della forza di legami che non basta la fine a spezzare (infatti Giuseppe continua a parlare anche col fratello di lei, Bruno, interpretato da Alessandro Haber, suo grande amico). E la profonda e semplice spiritualità della visione della vita di quest’uomo riusciranno a fare breccia nel cuore inaridito e distratto di Amicangelo.
Ha importanza fino a un certo punto la progressione narrativa, invero sbrigativa, di Lei Mi Parla Ancora, nella quale si potrebbero, e si possono, criticare la meccanicità del ravvedimento di Amicangelo o la presenza incongrua della voce fuori campo di un narratore che rischia di dare al film un incedere eccessivamente favolistico. Conta soprattutto, in linea col cinema di Pupi Avati, il sapore delle atmosfere, che attraverso un incastro continuo e libero di passato e presente, in cui i personaggi, come in un sogno, possono muoversi da anziani nel mondo di ieri, e dove la storia segue le intermittenze del cuore e non la logica lineare del racconto.
Avati in Lei Mi Parla Ancora sbozza gli ambienti che meglio conosce di un brumoso mondo padano anni Quaranta e Cinquanta, raccontando la timidezza e la pudicizia della storia d’amore di due giovani di diversa estrazione sociale – Giuseppe è un veneto di origini modeste e Caterina una ferrarese borghese. Differenze che diventano evidenti quando lui la conduce presso la sua famiglia veneta, con momenti imbarazzanti e anche buffi, come, addirittura, la visita del sindaco e del parroco per salutare la nuova coppia o la conoscenza con le sorelle e la zia di lui, un po’ pettegole, un po’ cattive, forse solo spaventate da ciò che non conoscono.
Avati conduce il racconto di Lei Mi Parla Ancora nella dimensione che più gli si addice, raccontando i riti e il crepuscolarismo di provincia, con le balere di paese, i valzer in guanti bianchi o l’alluvione del 1951 del Po, un mondo ideale e idealistico in cui la gente poteva raccogliersi in piazza a vedere su di un improvvisato grande schermo Il Settimo Sigillo di Bergman. Mantiene però sempre un pudore nello sguardo che è nelle penombre in cui avvolge certi abbracci per asciugarne il sentimentalismo o in alcuni rispettosi campi lunghi che dedica al dolore del vedovo Pozzetto. E se è tutto già visto tematicamente rispetto al suo cinema, in questo film giustamente brevissimo il regista indovina una singolare sensazione di felicità, che non ha nulla di lugubre o troppo sorridente, avvolta in una malinconia che è il corrispettivo della luce opaca di un mondo quasi atemporale.
Contribuiscono certamente alla misteriosa sintonia che si crea le interpretazioni di un gruppo di attori molti dei quali sono nuovi al cinema di Avati. A partire, naturalmente, da un inedito Pozzetto drammatico, ammirevole per il minimalismo dei mezzi espressivi, con battute servite con la stessa aria stralunata e svagata delle sue battute comiche d’un tempo, cui s’aggiunge una trattenuta fragilità che sa di verità. E poi c’è Gifuni, capace di dare consistenza a un personaggio sulla carta il più improbabile del lotto, e che invece grazie a lui diviene il funzionale controcampo dell’oggi in un racconto che cerca di abbracciare in uno stesso sentimento il passato ideale e un presente da redimere.