La storia che sto per raccontare ha due incipit.
L’incipit, lo dico per quelli poco avvezzi alle varie forme di narrazione e alle componenti che contribuiscono a darle forma, è l’inizio, il momento in cui, cioè, il narratore introduce la storia. Può farlo in diverse maniere, ovviamente, a partire dalla voce narrante che il narratore decide di utilizzare. Può essere la sua stessa voce, può essere la voce di uno dei protagonisti, può essere una voce narrante, cioè una voce che racconta ma non è la voce dell’autore, so che potrebbe suonare difficile da capire, ma fidatevi, è meno complicato di quanto non sembri. Ci possono essere più voci narranti, poi, e questo sì che diventa complicato, perché significa creare una coralità che richiede ulteriori competenze, nella gestione.
Tornando all’incipit, sottolineare come un incipit sia fondamentale credo sia pleonastico, sarebbe come dire che la porta di ingresso di un ristorante non è rilevante per invogliare o meno un possibile cliente a entrare, non credo serva Alessandro Borghese a specificarcelo.
Qui ce ne sono due, che potrebbe a sua volta sembrare qualcosa di bizzarro, ma nei fatti è una tecnica narrativa talmente utilizzata da suonare quasi abusta. Pensate a un film come Pulp Fiction, per dire, dove per altro c’è in ballo anche la faccenda della cronologia del racconto, altro nodo fondamentale nella narrazione, spero avrete apprezzato che io non rientri tra quanti continuano a logorare il termine story telling. Pulp Fiction è un film che porta avanti in parallelo più trame, alternando le vicende, partendo per altro a pochi istanti da quella che si rivelerà la fine del film stesso, con tutti i nodi ormai sciolti, e ripercorrendo poi le vicende fino a arrivare a quel punto.
Qui non ci sarà questo tipo di escamotage, ci sono due incipit, già mi sembra tanto.
Nei fatti gli incipit sono tre, non avrei neanche dovuto dirvelo, vi stimo, so che ci sareste arrivati da soli. I due che tra poco arriveranno, quelli preannunciati da me, che di questo scritto sono sia l’autore che la voce narrante, magari non serviva specificarlo, trattandosi di un diario, ma nell’incertezza meglio andare sul sicuro, quindi tre input, dicevo, quelli preannunciati e questo che avete già letto per qualcosa come trecentosettantacinque parole, incipit massimalista, con l’autore e la voce narrante che parlano direttamente al lettore e parlano al lettore dichiarando, vai poi a capire se è vero o non è vero, quello che sta facendo e quindi quello che il lettore andrà a leggere.
Quello che avete letto fin qui, quindi, è un incipit in qualche modo occultato, seppur lo avete letto perché nel suo essere occultato è in realtà sotto i vostri occhi. È un incipit, diciamo, che non sembra un incipit, come uno di quei collegamenti con certi programmi che vengono fatti in fascia preserale, quando ancora il programma vero e proprio non è cominciato. Solo che in quel caso, penso ai vari Aspettando eccetera eccetera, il tutto si spiega con due semplici fattarelli, si vuole tenere gli spettatori lì, davanti agli schermi, che nessuno cambi canale che stiamo per arrivare, e si vuole al tempo stesso andare a allungare il brodo, così da potersi poi giocare lo share su più fasce, preserale, prima serata, seconda serata, in alcuni casi anche terza serata. Questioni di investimenti pubblicitari, zero poesia, solo numeri.
È un incipit mascherato, diciamo così, come i cantanti del programma di Milly Carlucci, Il cantante mascherato, solo che qui nessuno si sarà messo a fare congetture su se in effetti sia Morgan o meno a fare il Pappagallo.
I veri input, quelli che arrivano dopo lo spot che sancisce la crasi tra il nostro Aspettando il Capitolo del Diario del Lock Down, o forse Aspettando l’Incipit, e Il Capitolo del Diario del Lock Down, sono questi, quelli che seguono: pubblicità.
Che Rancore sia, a mio insindacabile parere, il più talentuoso rapper che il nostro patrio suolo abbia mai visto nascere è cosa risaputa, immagino. Ne ho scritto più volte, e una di queste volte, quando ho specificato come S.U.N.S.H.I.N.E., brano pubblicato in compagnia dell’ex fido DJ Myke, brano della durata di 7:54, fosse a mio insindacabile avviso la più bella canzone rap che un artista italiano abbia mai inciso, ha anche fatto un certo clamore, con le dichiarazioni iperboliche può capitare, a me capita molto spesso, al punto che a lungo un estratto di quel mio pezzo, uscito per le pagine online del Fatto Quotidiano, quando ancora ci collaboravo e quando le pagine online del Fatto Quotidiano non erano ancora diventato poco più di una velina di stato, intendendo per stato il Governo, da una parte, e il sistema musicale, dall’altra, che brutta fine signora mia, al punto che a lungo un estratto di quel mio pezzo, dicevo, pezzo nel quale sostenevo perentoriamente che S.U.N.S.H.I.N.E., brano pubblicato in compagnia dell’ex fido DJ Myke, brano della durata di 7:54, fosse a mio insindacabile avviso la più bella canzone rap che un artista italiano abbia mai inciso, un estratto di quel mio pezzo è finito nelle sue note biografiche, quelle che cioè il suo ufficio stampa allegava in coda a ogni notizia, a ogni pubblicazione che lo riguardasse, come un fatto certo, S.U.N.S.H.I.N.E., brano pubblicato in compagnia dell’ex fido DJ Myke, brano della durata di 7:54, è la più bella canzone rap che un artista italiano abbia mai inciso, lo ha detto Monina.
Confermo ancora oggi quel mio pensiero, seppur Rancore, rapper romano che calca le scene ormai da una quindicina d’anni, e che negli ultimi due anni si è affacciato spavaldamente al mainstream, prima come co-autore e co-interprete del brano Argento vivo, portato al Festival di Sanremo da Daniele Silvestri, poi con Eden, brano sempre presentato al Festival, ma in proprio, confermo ancora oggi, dicevo, seppur Rancore abbia nel tempo pubblicato tante canzoni di una bellezza, formale e concettuale, di una complessità affascinante, con una lingua incredibilmente colta, una poetica precisa e chiaramente riconoscibile, un flow, il modo in cui le parole poi vengono appoggiate sulla musica unico, penso a brani quali Tufello, dall’esordio Segui Me, Giunti al dunque, da Elettrico, Il mio quartiere, da Acustico, D.AR.K.N.E.S.S, da Silenzio, e Depressissimo e Giocattoli, da Musica per bambini, il suo ultimo album, e se nel caso di questo ultimo lavoro mi sono permesso di scegliere due brani, rovinando la perfetta simmetria adottata fino a quel momento che voleva una sola canzone scelta a lavoro, non perché solo una ce ne fosse, ma per una mera faccenda estetica, di matematica, se mi sono permesso di mandare tutto a puttane all’ultimo è solo perché trovo Depressissimo una della sue canzoni più belle ma anche una delle canzoni più belle partorita da artista italiano negli ultimi dieci anni, ma a Giocattoli sono legato affettivamente, avendo io preso parte a una minigiuria, con Rancore stesso, per scegliere il video che avrebbe accompagnato il brano uscito come singolo, video fatto da suoi fan. Rancore resta comunque un vero genio, uso questa parola con moderazione e quando lo faccio è perché non se ne può fare a meno, un artista dotato di una lingua forbitissima e vivida, e una capacità rarissima di utilizzarla per creare immagini, trame, scenari, visioni. Il suo nome, ahinoi Baglioni, prima, e Amadeus poi non hanno mancato di scherzarci su, è ovviamente spiegato da un suo modo di intendere la vita, anche se i suoi testi, altro mio insindacabile pensiero, vanno ben oltre il concetto, legittimo e condivisibile, di rancore.
Cantare d’amore è una cosa assai più difficile di quanto non possa apparire a un occhio distratto e superficiale.
No, non sto dicendo che io non sono distratto e superficiale e gli altri sì, anche voi, sto solo sottolineando come un tema come quello amoroso, che più o meno coinvolge tutti, così dovrebbe essere, nel suo apparire familiare e comune, quasi abusato e usurato, presenta nei fatti un sacco di tranelli e buche coperte da frasche, quelle dentro le quali si trovano impietose trappole.
Succede spesso, quando si affrontano argomenti così mainstream, succede spesso quando si finisce in un campo che già di suo è florido di parole come “cuore”, rima baciata, che farebbero venire un attacco di glicemia anche a Fran Lebowitz.
Buona prassi sarebbe, quindi, tenersene alla larga, da tale argomento, non fosse che è uno dei più ricercati, specie in campi artistici quali la musica, destinate certe canzoni a far da colonna sonora a ricordi che ci accompagneranno per tutta la vita, si tratti di ricordi bellissimi e ancora vivi o di quelli struggenti, gli occhi arrossati e il groppo in gola. A questo andrebbe anche aggiunto che parlarne in certi contesti, chiamiamoli così “colti”, come in quelli cosiddetti “alternativi”, comporta l’ulteriore rischio dell’incomprensione, “Ma che fa questo, canta d’amore?”, così come della derisione, “Dammi tre parole, sole, cuore, amore, ridicoli…”.
Meglio occuparsi d’altro, di sociale, di politica, di tormenti dell’anima, sì, ma in campo esistenzialista, di ambiente.
Niente amore, neanche sotto tortura.
Del resto, a fronte di tutti questi “contro”, e in totale assenza di “pro”, cantare l’amore è faccenda davvero complicata, complessa, operazione quasi suicida. Ripeto, meglio astenersi.
Faccio una breve deviazione.
Nel mentre, nel caso non lo aveste capito i due incipit, tre se ci aggiungiamo Aspettando l’Incipit, li avete appena letti, uno, quello su Rancore, l’altro, quello sul cantare l’amore o sul non dover cantare l’amore o sulla poca sensatezza di provare a cantare l’amore.
Sono amico da una vita di Francesco Renga. L’ho scritto più volte, non è un segreto, né fatto ascrivibile a una qualche forma di autocelebrazione, sono amico di Francesco Renga, mica di Charlize Theron. Ci siamo conosciuti quando stava terminando la sua avventura coi Timoria, una vita fa, ci siamo legati quando ha iniziato a muovere i primi passi da solista, suppergiù ci siamo sempre stati, seppur col tempo ci si sia visti e sentiti di meno, resta che ci si vuole parecchio bene, anche se lui pubblica canzoni come Nuova Luce senza palesare nessuna vergogna. Quando, anni e anni fa, stava iniziando a districarsi nel mondo della musica in veste di solista, prima cioè della svolta di Rispondimi, della messa a fuoco di Tracce di te, del successo conclamato di Angelo, ricordo ai distratti che nel video del brano che vinse il Festival del 2005 sono io a interpretare uno degli angeli cantati dal nostro, mi si vede in tutta la mia bellezza, un paio di ali sulle spalle, dopo la corsa della ragazza bionda, lì in quello strano limoneto di Torre di Benaco, Francesco, sapendo che scrivevo, mi ha spronato a provare a scrivere qualche testo per lui o con lui. Mi ha anche regalato una chitarra acustica, per accompagnarmi mentre provavo a buttare giù quale strofa, la mia di allora la aveva appena distrutto Lucia, mia figlia, oggi diciannovenne, allora ancora piccolissima, a bordo di un girello. Mi aveva anche passato qualche musica che aveva scritto, mi sembra di ricordare con Luca Chiaravalli, suo stretto collaboratore dell’epoca e a sua volta mio caro amico. Ci ho provato. Ci ho provato con tutto me stesso. Ci ho provato stimolato da una nuova sfida, io che scrivevo libri e articoli, io che avevo scritto un fottio di canzoni rock e punk, a provare a scrivere canzoni pop, questo era il dictat, canzoni pop. Ci ho provato anche spinto, confesso, dall’allettante prospettiva di firmare canzoni per uno che non solo pubblicava con una major e aveva una voce incredibile come quella che anche oggi Renga ha, ma di scrivere canzoni che, ci scommetteva già allora, sarebbero potute diventare un successo nel momento in cui il pubblico si sarebbe convinto che tra lui e i Timoria era lui quello da continuare a seguire, all’epoca ero assai meno possibilista di oggi.
Ci ho provato e ho fallito. Ripetutamente.
Credo di avergliene forse sottoposti un paio, ma facevano obiettivamente cagare. Forse neanche glieli ho proposti, ho pur sempre un mio buongusto e una autostima che coltivo come la rosa del Piccolo Principe. Sarei stato un critico musicale estremamente figo, lo so, a scrivere canzoni per uno di cui magari scrivevo, in seguito lo avrei fatto per Alice Paba, per dire, ma in quell’occasione ho fallito miseramente. E ho fallito perché scrivere pop è davvero difficile, quasi impossibile. Non essere intellettuali, mettiamola così, quando di fondo lo si è, provare a non mostrarsi colti, alti, è operazione che richiede un mestiere che io, sul fronte dell’autore di canzoni, non posseggo. Scrivevo cose pretenziose, inutili in ambito pop.
Certo, poi c’erano gli esempi di Franco Battiato e Pasquale Panella, per fare due esempi distanti tra loro, ma Renga non era quella cosa lì, non la è neanche ora, aveva bisogno di canzoni sì d’autore, ma fondamentalmente pop, e io non sapevo scrivere pop.
Non ero pop e si vedeva in quel che scrivevo.
Ora, potrei provare a asserire che questa deviazione, che in realtà tutto è fuorché una deviazione, sia un terzo incipit, quarto se ci mettiamo, e non possiamo non mettercelo, l’incipit nascosto, l’Aspettando l’Incipit ormai anche troppe volte citato.
Nei fatti un incipit che arrivi così dopo l’inizio dubito si possa chiamare incipit, anche se apre una nuova linea narrativa e anche se, questo mi porta a chiamare incipit sia quello su Rancore che quello sul cantare etc etc l’amore, avessi mai deciso di invertire l’ordine delle linee narrative sarebbe tranquillamente potuto trovarsi all’inizio, ambendo a pieno titolo a quel ruolo. Certo, avrei dato più peso a me che a Rancore, e è di Rancore che in realtà si parla, anche di Rancore ma specialmente di Rancore, e certo avrei spostato sul pop l’accento, mentre qui oltre che sul pop mi premeva parlare d’amore e della impossibilità e forse insensatezza del parlare d’amore, in canzoni pop.
In realtà io il pop, finché non ho iniziato parlare di me e della mia amicizia con Francesco Renga e del mio tentativo, miseramente fallito, di provare a scrivere canzoni, canzoni pop, per lui, non avevo fatto cenno.
Rancore non fa canzoni pop, scrive canzoni rap, e le scrive in maniera molto sua, alta e colta.
Certo, il rap è pop, specie in Italia, fatto che potrebbe fornirmi il destro per colpire Sfera Ebbasta, che giorni fa si è lasciato andare a qualche stupida sparata, è Sfera Ebbasta che potremmo mai pretendere, prima contro Young Thug, e poi, quando gli hanno legittimamente fatto il culo rispetto al suo dire che Young Thug, reo di aver detto che i rapper europei sono delle pippe troppo spesso intente a emulare gli americani e sprovvisti di contenuti e quindi considerato da Sfera Ebbasta un razzista al contrario, dichiarazione che gli ha scatenato contro buona parte dei fan del vero rap, ecco, poi contro i tanti che, a suo dire, a dire di Sfera Ebbasta, ce l’hanno stupidamente con gli italiani e per questo si meriterebbero di avere solo il pop in classifica, come se lui, Sfera Ebbasta, quello di Bottiglie e privè come di Baby, non fosse esattamente e solo questo, un artista, Dio mi perdoni, pop.
Ma non è di Sfera Ebbasta che voglio occuparmi, figuriamoci, bensì provare a spiegare che, oltre a Rancore e il cantare o meno l’amore, entra in scena in questo discorso anche il pop, quindi a pieno titolo anche quello su Renga è uno degli incipit di questo capitolo del lock down, il quarto, per la precisione, dopo Aspettando l’Incipit, quello su Rancore e quello sull’amore e la possibilità e sensatezza di cantarlo, l’amore.
Perché, lasciamo gli incipit e arriviamo al cuore della trama di questa mia narrazione, è uscita una nuova canzone di Rancore. Una canzone, come tutte quelle di Rancore, che aspettavo con desiderio e anche estrema curiosità, è uno di quegli artisti che non mancano mai di stupirti, sempre in positivo, e una canzone che lo vede collaborare con una artista verso la quale nutro una stima infinita, Margherita Vicario, ve ne ho parlato già su queste pagine, qui (https://www.optimagazine.com/2020/07/23/margherita-vicario-come-i-buena-vista-social-club-pina-colada-e-una-salsa-cubana-a-tutti-gli-effetti/1882485). Non prendete questo mio linkare il mio precedente pezzo sulla Vicario per gesto sessista, figuriamoci, nel pezzo in questione proprio di approccio al femminismo che parlo, né, tantomeno, come sciatteria, potrei riprendere qui il discorso, ampliarlo, o magari anche solo riproporne le parti salienti. Solo che credo fermamente in quel che sosteneva William S. Burroughs, che cioè quando qualcuno, anche se stesso, ha detto qualcosa in maniera precisa, difficilmente perfettibile, o comunque sufficientemente efficace, provare a fare di meglio è tanto inutile quanto rischioso.
Come dire, perché provare a fare di meglio quando si è fatto abbastanza?
Risottolineando la mia stima infinita per la cantautrice romana, per questa sua capacità unica di trovare sempre un modo interessante e originale per affrontare temi spinosi, andatevi a sentire Giubbottino e poi ditemi se qualcun’altra, oggi, in Italia è altrettanto in grado di affrontare e portare a casa un argomento attuale come il patriarcato, rovesciandolo e alleggerendolo, ma comunque dimostrandone l’inopportunità, così come specificando che a fronte di testi molto intelligenti e ficcanti ci sia una costante ricerca musicale che ne attestano uno spessore da autrice di razza, mai banale, anche qui, sempre curiosa e attenta, vorrei passare davvero a parlare del tema di questo mio capitolo, Equatore, la canzone appunto che Rancore e Margherita Vicario, il primo titolare del brano, la seconda ospite, hanno da poco pubblicato.
Una canzone, non avevate che da unire i puntini senza manco stare a cercare i numeretti come nella Settimana Enigmistica, non ditemi che non c’eravate arrivati, che è al tempo stesso una originalissima canzone d’amore, una perfetta canzone pop, e anche una canzone nella quale Rancore dimostra per l’ennesima volta di essere il migliore rapper in circolazione, stavolta anche in compagnia di una delle cantautrici più incredibili sulla nostra scena.
Una perfetta canzone pop, lungo elenco di luoghi più o meno esotici dipanati in giro per il pianeta, l’Equatore citato nel titolo è solo il punto di incontro, ipotizzato, futuro, luoghi più o meno esotici che si mischiano a azioni e ammennicoli a impreziosire questo viaggio intorno al mondo, una vena di malinconia sempre presente, imperante, a sostituire la claustrofobia apneica che solitamente accompagna le sue parole, l’amore evocato, inseguito, sicuramente non spiegato e neanche raccontato. Una bellissima canzone d’amore, una bellissima canzone pop, una delle migliori ascoltate da tempo, ma con Rancore e Margherita Vicario in scena, per di più in scena insieme, non ci si poteva davvero aspettare altro.