Da un anno a questa parte, poco più, ho abbandonato quasi del tutto la forma “articolo”, sempre che l’abbia mai sposata, per adottare questa del diario. Quindi questo di oggi non è un articolo. Come non lo era quello di ieri, che trovate qui.
Quella che state per leggere, prima di iniziare a affrontare il tema del giorno, è una sorta di rettifica. Ieri ho infatti parlato di diritto d’autore, o meglio, di autori e di diritto d’autore, e ho chiuso tirando in ballo Ermal Meta, a partire da un discorso fatto prima di Sanremo, in conferenza stampa. Uscito il mio capitolo, ieri, Ermal mi ha mandato un vocale specificando che in realtà parlando di Invisibili non intendeva attaccare i cantanti per cui aveva scritto, per non averlo citato, o le radio che nel presentare i loro brani non lo hanno citato, è autore e sa bene che spesso il lavoro dell’autore avviene nell’ombra. Anzi, mi ha spiegato, il motivo per cui si sentiva invisibile è proprio perché lui voleva fare il cantante, come già gli era capitato in passato, non l’autore, quindi ce l’aveva più col destino che ancora lo teneva in panchina, non con i cantanti per i quali aveva lavorato e stava lavorando. Quindi il suo era discorso assai diverso di come io l’ho raccontato, Ermal avrebbe voluto essere un cantante, riconoscibile come tale, nessuna rivendicazione, voleva stare sul palco a fare quello che lui riteneva dovesse essere il suo lavoro, e che ora è in effetti tale.
Questo andava detto, per onestà intellettuale, e per la stima che nutro nei confronti di Ermal, uno che se l’è sudato tutto il successo che ha finalmente raggiunto, anche lavorando come autore, mestiere che tanto gli ha insegnato.
Bene. Ora riprendo a parlare di pop, ma da altra angolazione,
C’è una foto che mi capita a volte sottomano. Non perché io sia di quelli che si rifugiano nelle immagini del passato, cercando conforto nella gioventù, ma perché è foto più volte condivisa sui social, da me, anche, ma da quanti in quella foto compaiono, con tanto di tag, e Facebook, si sa, ti rammenta quotidianamente quel che è successo in passato, anche quando non vorresti affatto ricordartene.
Questa foto mostra un me stesso giovanissimo, diciotto anni e mezzo, a fianco di quelli che per qualche tempo hanno condiviso con me la passione della musica. C’è Simone, ancora oggi uno dei miei più cari amici, destino che condivide praticamente da una vita, e poi ci sono Alessandro, Jacopo e Barbara, all’epoca fidanzati, oggi marito e moglie. Insieme, noi cinque, abbiamo suonato in tante e tante occasioni, mettendo insieme un repertorio il quanto più vario possibile, dal liscio di Romagna mia o Ciao mare, passando per i grandi classici della canzone italiana, arrivando a quelli che erano i successi di quegli anni, tirati giù e riarrangiati spesso nel giro di pochi giorni, il tempo di sentirli e noi già li riproponevamo durante le nostre serate, che fossero al ristorante o in una delle tante feste parrocchiali.
La nostra sala prove era una stanza tappezzata di quei cartoni coi quali si imballavano e tuttora si imballano le uova al supermercato, appiccicate alle pareti con lo scopo di insonorizzarle, una stanza che si trovava negli scantinati della parrocchia della Misericordia, il quartiere nel quale abitavamo tutti all’epoca e della quale il padre di Jacopo, il mitico Anto’, era il custode. Da lì si accedeva al campo di calcio della parrocchia, in cemento armato, campetto che ci ha visto chissà quante volte giocare, prima che la musica cominciasse a assorbire quasi tutte le nostre energie. Quando suonavamo dopocena, ci si poteva scommettere, nove volte su dieci arrivavano i carabinieri, chiamati da qualche solerte vicino, ma in genere era una sorta di stanco proforma, un rimprovero bonario a dei ragazzini che suonavano in una sala prove di una parrocchia, nulla di delinquenziale.
La formazione della band, una band che neanche aveva un nome, per altro, a ripensarci oggi sembra una assurdità, vedeva me alla voce, come Barbara, Simone al basso, Alessandro alla chitarra e Jacopo alla batteria. La suddivisione delle voci era sempre impresa ostica, perché ovviamente io e Barbara eravamo i classici due galli nel pollaio, il fatto di essere uomo e donna, ovviamente, a venirci in soccorso nei casi dei duetti uomo donna, tipo Ti lascerò della coppia Oxa-Leali o Non amarmi, di Baldi-Alotta, ma la faccenda si faceva più complessa nel caso di un Vita di Dalla-Morandi o Gente di mare di Raf e Tozzi, figuriamoci quando le voci erano tre, come per il trio Tozzi-Morandi-Ruggeri. A memoria, io ero ovviamente Leali e Baldi nei suddetti duetti, anzi, ero Leali anche nel fare brani come Io amo, che per inciso mi ha sempre fatto parecchio cagare, poi ero Morandi in Vita, Raf in Gente di mare, per poi diventare Tozzi in Si può dare di più, anzi, Tozzi e Ruggeri. Un vero delirio.
Il fatto è che avevo una voce, immagino di averla ancora, giocata più su registri alti, ma mi sono spesso trovato a cantare, in quegli anni, gli anni in cui per diletto cantavo, a breve ci torno su, brani di cantanti che avevano spesso voci sporche, Leali, appunto, Ruggeri, ho anche fatto un intero concerto, con altra band, in cui facevo il repertorio di Zucchero, lo Zucchero dell’epoca, un impresentabile look a base di canotta e fascia a tenere i capelli, e ho lavorato un intero anno in sala prove per rifare passo passo il concerto di Vasco a San Siro, Fronte del Palco, sforzando la voce come nessun foniatra potrebbe permettere. Dico questo consapevole che ora ho dato a molti modi di dirmi che sono un critico perché “chi sa fare fa, chi non sa fare insegna e chi non sa neanche insegnare critica”, ma io so fare, scrivo, so insegnare, insegno scrittura da tempi immemori, e so anche cantare, come so anche suonare, decentemente, almeno un paio di strumenti, oltre che sapere mettere le mani, in maniera più maldestra, su un numero imprecisato di altri strumenti, ma non sono un cantante professionista e non sono un musicista professionista, per cui quando si è trattato di decidere cosa fare nella vita non ho esitato un secondo, e ho iniziato a scrivere, direi cavandomela abbastanza.
Lo dico consapevole di ciò, ma credo anche per spiegare, ce ne fosse ancora bisogno, di come la musica sia per me passione che parte da molto lontano, da quando cioè ero quel diciottenne sbarbato, sì, all’epoca non avevo la barba neanche incolta, da adolescente, con una improbabile giacca spinata su una t-shirt bianca, le camicie mi hanno sempre fatto cagare, che si stava per apprestare a cantare per quattro, cinque ore a beneficio degli avventori del ristorante degli Angeli, località Camerano, provincia di Ancona, se non ricordo male in una serata di un martedì grasso, il ragazzo della fotografia da cui sono partito.
Quella è stata una delle prime band in cui ho militato, a fianco di altre, sempre col medesimo giro di amici, Simone quasi sempre presente, la GS Band, sempre con Simone e Alessandro, stavolta alla batteria, e con Gianmarco a suonare la chitarra, quella la band con la quale ho suonato al diciottesimo compleanno di colei che pochi mesi dopo sarebbe diventata la mia ragazza, e che ora è di là coi nostri quattro figli, i Nuanda, con Simone, ma anche con Gigi e Claudio alle tastiere, Luca alla chitarra, Picciola alla batteria, confesso di essermi dimenticato il nome del sassofonista, e coi quali abbiamo provato a preparare il concerto di Vasco a San Siro, la band di cui non ricordo il nome con cui abbiamo preparato il concerto di Zucchero, Jacopo alla batteria, Giampiero al basso, Paola alla chitarra, Gigi alle tastiere, Fiorenza e Elena ai cori, la band spartana con cui suonavamo southern rock nel garage di Massi, il mio amico batterista, con me alla voce e Ayala alla chitarra, niente più, gli Epicentro, con Roberto, Emanuele e Michele, a fianco di un tentativo, goffo, di iniziare a scrivere canzoni mie, la vaga presa di coscienza che la scrittura sarebbe stato il mio mestiere, ma talmente vaga da non essere abbastanza a fuoco da capire che sarebbe stata scrittura sulla musica, intesa con la musica come argomento, anche, e non con la musica come accompagnamento.
Avrei quindi potuto usare altre foto, altre situazioni, ma quell’esperienza lì, il suonare davanti a un pubblico di totali sconosciuti, in un ristorante, un repertorio anche di canzoni che non avrei ascoltato neanche se mi pagassero, ma che mi ritrovavo a cantare perché coerenti con quel tipo di serate, i classici, i liscio, le hit del momento, ha decisamente fatto sì che io approfondissi la conoscenza di un repertorio di musica pop assai più ampio di quanto non fosse stato fin lì, arrivando anche a capire alcune sfumature che, in seguito, mi sarebbero venute assai utili per i miei futuri lavori.
Certo, ora potrei bullarmi dicendo che buona parte dei nomi su citati, da Vasco a Zucchero, passando per Ruggeri e Morandi, li ho conosciuti, alcuni sono diventati miei amici, con altri ci ho anche lavorato insieme, in buona parte, potrei provare a far dimenticare la faccenda dell’averci provato, ripeto non è vero, non ci ho provato, era un passatempo fatto in attesa di capire chi fossi, cosa sarei diventato, o cosa magari ero senza ancora saperlo, ma guardando quella foto a me non viene nessun senso di rivalsa per quel che nella vita ho costruito, sempre che abbia costruito qualcosa che valga un moto di rivalsa, viene semmai una lieve malinconia per la spensieratezza con la quale mi mettevo di fronte a un repertorio così ampio, che andava da Mazurka di periferia a Uomini soli dei Pooh, anche loro li ho conosciuti, e Red è il mio fratellone in arte, ora, una spensieratezza che era priva di sovrastrutture, quindi elementare e, nella sua elementarità, lineare, per andare da A a B si tirava una retta e via.
Dico questo perché già allora mi succedeva di non riuscire a ascoltare una canzone per il semplice gusto di ascoltarla, è evidente, suonavo in giro per locali e feste, se mi passava sottomano un singolo lo analizzavo dal punto di vista compositivo e degli arrangiamenti, provavo a capire al volo gli accordi e la tonalità, sezionavo la parte musicale, concentrandomi sulle singoli parti strumentali, così da poter poi riproporre il tutto in saletta prove, arrivare in qualche modo preparato, ma il tutto non partiva da una sorta di pregiudizio di fondo, ero costretto a ascoltare con la medesima attenzione anche quelle canzoni che non rientravano nel mio spettro ottico, le hit erano hit a prescindere dai miei gusti personali, e avevano in me lo stesso tipo di trattamento degli altri brani. Arrivava Io amo di Leali, l’ho già citata, o Mi manchi, sempre del negro bianco (fatemi giocare con queste arcaiche definizioni, dai), la prima a firma dello stesso Leali con Toto Cutugno, per la parte lirica, e da Cutugno, Franco Fasano e Italo Ianni per la composizione, mentre la seconda è firmata da Fasano con Fabrizio Berlincioni, canzoni che oggettivamente non mi piacevano, ma ero lì che le ascoltavo, ne capivo i meccanismi, provavo anche a cogliere quelle sfumature che a un ascoltatore disattento non possono che sfuggire.
Poi, incuriosito da quelle firme, spesso andavo a sfogliare gli spartiti da Bucchi, un negozio di dischi della mia città che aveva anche una ottima sezione di spartiti musicali, dalla classica alla musica leggera, tanto per controllare di non aver sbagliato qualcosa in fase di decifrazione degli accordi, andavo a studiarmi che altri brani avevano scritto e mi trovavo a perdermi in brani quali Ti lascerò, portato alla vittoria al Festival del 1989 dal duo Anna Oxa e Fausto Leali, o Quel giorno non mi perderai più, in gara nella stessa edizione nella sezione Nuovi per voce del suo stesso compositore, Franco Fasano, giungendo alla conclusione che il ruolo degli autori è davvero singolare, a scrivere canzoni diverse a seconda di chi poi le deve interpretare, usando parole diverse, melodie diverse, a seconda del registro e della cifra di chi dovrà interpretarla. Certo, a capire i trucchetti del mestiere messi in campo ci si metteva poco di più, certi giri armonici atti a tirare gli acuti, i cambi di tonalità che arrivano puntuali dopo il terzo ritornello, lo special che aiuta in tal senso, cliché che si ripetono anche stancamente, Vieni a stare qui, presentato dallo stesso Fasano e con le medesime firme al Sanremo del 1990, con l’aggiunta di Ianne alla musica e Adelio Cogliati al testo, ne è fotografia plastica, il mestiere che a volte scippa il posto all’ispirazione, ma sono sfumature, dettagli.
Per altro, curioso che proprio mentre sto vergando queste parole mi arrivi la notifica che a lasciare un commento sul mio capitolo di ieri sia arrivato proprio Franco Fasano.
Comunque, tornando alla scrittura di canzoni pop e al mio guardarvi, tecnicismi, apparentemente, ma in realtà base di fondo per qualsiasi ragionamento che voglia affrontare seriamente anche un discorso apparentemente poco serio come il pop.
Questo non certo per giustificare il mio aver scelto, ormai una ventina e passa di anni fa, di applicare le mie competenze, i miei anni di studio classico, prima, e quelli di approfondimento applicati alla musica leggera, poi, a un genere solitamente sottostimato e considerato volatile e futile come il pop, non vado rubando a casa degli altri, non ho nulla da giustificare, quanto piuttosto per sottolineare come il pop sia materia degna di attenzione senza se e senza ma, fatto che nei decenni che ci hanno preceduto era in qualche modo stato dato per assodato, il postmodernismo era basato appunto su una forma di mescolamento tra alto e basso, con conseguente abbattimento tra categorie e generi, tutto utile a riscrivere una realtà cui il fallimento del capitalismo aveva tolto la terra sotto i piedi, necessario proprio per superare questo improvviso essersi trovati sprovvisti di riferimenti concreti, ma che oggi sembra in qualche modo rimesso in discussione da un eccesso di realismo e seriosità, come se di colpo il pop fosse tornato a essere vacuo e basta, inutilmente leggero, come evidentemente non è.
Faccio una piccola digressione, a beneficio di chi magari non ci ha mai pensato. Provate a pensare a una qualsiasi canzone di Vasco, o di Ligabue, o di Zucchero. Bene, provate a canticchiarvela, ma non mentalmente, a voce alta. Ci sono novantanove probabilità su cento che voi tendiate, anche inconsapevolmente, a imitare il cantato dell’artista in questione, copiandone i birignao, la grana della voce, le caratteristiche salienti. Una cosa naturale, perché abbiamo mentalmente registrato quelle canzoni in quel modo lì. Per questo, faccio un esempio, Almeno tu nell’universo cantata da Elisa sembra così diversa da quella interpretata a suo tempo da Mia Martini, perché in effetti è così diversa, nelle intenzioni, non solo nell’arrangiamento. Doveste trovarvi, come capitava a noi, a mettere una di fila all’altra un centinaio di canzoni a serata, molte delle quali anche canzoni in voga in quel momento, vi sareste trovati di fronte a un dubbio amletico, lasciarvi andare a una sorta di tour de force degno del migliore degli imitatori, a cambiare ogni volta voce, o provare a trovare una vostra strada legittima e coerente, facendo vostre tutte le interpretazioni? Certo, non avere una strumentazione di livello professionale complicava le cose, perché già di loro i suoni degli strumenti, per altro assai meno che nel caso degli originali, niente tastiere, per dire, e una chitarra con giusto un paio di effetti a pedale, si poteva finire in una sorta di monocorde lunghissima canzone che finiva per sembrare infinita, giusto qualche cambio di ritmo e, Dio volendo, di melodia.
Non basta, ci potrebbe essere la scorciatoia di imitare una voce nota, il modo di usare la voce di un cantante o una cantante nota, pensate ai danni che hanno involontariamente fatto artiste quali Whitney Houston, Giorgia o Alicia Keys, per dire, col rischio quindi di omogeneizzare tutte le canzoni su quella modalità lì, esattamente il contrario di quanto da tempo fanno l’orchestra di Paolo Belli a Ballando con le stelle o l’ensbemble del Postmodern Juboxe, a cambiare i generi dei brani che vanno a eseguire, trasformandone radicalmente gli arrangiamenti, qui sarebbe una lunga sequela di brani alla Alicia Keys, qualsiasi tipo di canzone scelta in partenza si trattasse.
Qui non sto parlando di cifra, colore o grana della voce, ma di modo in cui una voce si decide di usare, pensate a come cambia il modo di interpretare le canzoni di un Bocelli, tanto per ricorrere a una vocalità notissima, quando prova a seguire i dettami della lirica e quando invece segue più liberamente i canoni del pop, sembra quasi che si tratti di due persone diverse.
Quindi il pop, il tanto vituperato pop, mette in campo almeno due fattori non irrilevanti, la composizione, inizialmente, e l’uso della voce, esattamente come accade per tutti i generi considerati o autoproclamatisi più nobili, può sembrar strano a dirsi, ma anche il punk, genere non-genere nato come reazione al perfezionismo stilistico della musica prog è in realtà un sottogenere del rock, un sottogenere che prevede una rozzezza e immediatezza nell’esecuzione, a volte frutto dell’incapacità ostentata di usare gli strumenti da parte degli artisti, ecco, anche il punk è considerato, almeno dagli appassionati di rock, e ovviamente dai punk stessi, genere più nobile del pop.
Poi, è evidente, c’è pop e pop, e spesso del pop si tende a prendere solo gli aspetti estetici esteriori, più facilmente replicabili, essendo basati su suoni ripetibili e facilmente copiabili, su ritmi e melodie molto simili tra loro, ma sta di fatto che applicare la critica musicale anche a una musica genericamente ritenuta passeggera ha senso, tanto quanto lo ha provare a analizzare qualsiasi tipo d’arte rivolta alla massa, senza pretendere che tutto ambisca all’infinito e l’eterno. Comunque Vieni a stare qui di Fasano, con testo di Berlincioni, resta anche oggi una canzone pop perfetta, con un ritornello che ti si pianta in testa e non esce manco se ti spari tre volte di fila il Pulcino Pio e con un lessico nelle liriche che io personalmente farei studiare a scuola alla voce “letteratura”. A voler capire il passaggio tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, credo, sia utile tanto Franco Fasano quanto gli U2 che si apprestavano a passare da Ruttle and Hum a Achtung Baby, i R.E.M. che preparavano Out of Time o il nascente grunge, e tutta la musica molto cool che in quegli anni ci arrivava quotidianamente, chi lo nega pensa che la vita e il mondo sia fatta solo di quel che riesce a vedere guardando fuori dalla finestra, senza neanche accorgersi che è affacciata su un cavedio.
QUATTORDICI APRILE! Grazie!!! In questa data, la più “pop” per i sentimenti umani, mi vedo qui sopra citato più volte e senza peli sulla lingua da chi, e si capisce, ne capisce; da chi sa scrivere pensando. Come quando più di trent’anni fa spesso sceglievano le mie canzoni per “lavorarci su” e poi andare al Festival di Sanremo. Anche io come Ermal, avrei voluto cantarle, anzi anche quelle più famose le proponevo per me. Ecco, “SCRIVERE ISTINTIVAMENTE. Poi, una volta scelte, venivano PRODOTTE per chi le avrebbe poi cantate. Vivendo al fianco di GRANDI” produttori poi uno impara il MESTIERE, in tutti i campi. Certo uno magari a seconda del proprio senso di autocritica parte in quinta, da autodidatta ma il risultato lo si ottiene solo e soltanto nel tempo quando, a distanza di anni, del lavoro svolto non ce ne si vergogna, al di là del successo ottenuto da certe canzoni più fortunate. Trasformare una passione in un mestiere non è da tutti perché significa che “lavorando” uno si diverte. Anche divertirsi è un modo “serio” di vivere. C’è chi lo fa addirittura per “mestiere” Concludo scrivendo che, appunto, non poteva capitare data migliore come il 14 (il giorno che a febbraio vuole festeggire gli innamorati, San Valentino, lo scrivo per le persone misogine) e Aprile, il cui primo giorno è noto per festeggiare scherzosamente, a differenza di Halloween che almeno un’alternativa te la da, il famoso pescetto, per leggere che una penna di “mestiere” come la tua ha saputo cogliere il minimo comun denominatore tra la anche mia “Vieni a stare qui” e la, purtroppo non mia “Il pulcino Pio”! Con stima. Fagit (co-autore de “Il katalicammello”).