Il film da vedere per il Giorno della Memoria è “Il Figlio di Saul”

L’opera prima di László Nemes, vincitrice dell’Oscar, è un'avventura dello sguardo, che obbliga lo spettatore a uno sforzo di comprensione, per avvicinarsi al senso di quell’assurdo che è la Shoah

Il Figlio Di Saul

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Quando arriva il 27 gennaio, in cui si celebra il Giorno della Memoria, il palinsesto delle tv generaliste e delle piattaforme streaming si infittisce di film, serie, documentari che raccontano la Shoah (per la programmazione vedi qui). Quello sull’Olocausto è divenuto quasi un genere cinematografico a sé, con all’interno titoli d’ispirazione diversissima. Dai grandi affreschi d’impressionante resa scenografica Schindler’s List di Spielberg e Il Pianista di Polański al rigoroso, antispettacolare Shoah di Claude Lanzmann, fluviale resoconto della macchina concentrazionaria condotto attraverso testimonianze di sopravvissuti e tecnici dei campi di sterminio. Sino a opere come La Vita È Bella e Train De Vie, che sondano il delicato terreno in cui tragedia estrema e ispirazione comica si sfiorano, in un arrischiato e problematico sovrapporsi di toni.

L’enorme quantità di film sulla Shoah è lo specchio della centralità della parola “memoria” nella realtà contemporanea. Centralità che oggi appare ovvia, e che invece è il frutto di un profondo cambio di paradigma culturale. Ancora negli anni Settanta, una rilevante opera collettiva come Fare Storia, curata da Jacques Le Goff e Pierre Nora, non aveva una voce dedicata alla memoria, a testimoniare come, persino nelle scienze sociali, l’importanza del tema fosse tutt’altro che acquisito. Lo stesso, di conseguenza, valeva nel dibattito pubblico e per i mass media. Infatti, prima dello spartiacque Olocausto, la miniserie tv di Marvin J. Chomsky trasmessa con enorme clamore dalla Nbc nel 1978 (in Italia arrivò l’anno dopo sulla Rai), i film dedicati alla Shoah erano tutt’altro che numerosi.

Tra essi il documentario Notte E Nebbia di Alain Resnais, che nel 1955 mostrava per la prima volta le scioccanti immagini di Auschwitz; Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, legato a interminabili polemiche cinefile (nate da un celebre articolo di Jacques Rivette sui Cahiers du Cinéma) per la presunta “spettacolarizzazione” della morte; Vincitori E Vinti (1961) di Stanley Kramer, courtroom drama sul processo di Norimberga anch’esso con filmati dei campi; La Passeggera (1963) di Andrej Munk, capolavoro di tribolatissima lavorazione (per la morte del regista) sull’ambigua dinamica vittima-carnefice; L’Uomo Del Banco dei Pegni (1964) di Sidney Lumet, primo film mainstream raccontato dal punto di vista di un sopravvissuto, un ex professore ebreo diventato un usuraio a New York, esacerbato dalla sua terribile esperienza; Il Negozio Del Corso (1965) di Ján Kadár, embrionale tentativo di innestare sul tema toni da commedia surreale.

Notte E Nebbia di Alain Resnais

Oggi, invece, è un fiume in piena di opere sulla Shoah, riflesso di un’attenzione alla memoria talmente insistente da, come è stato da più parti rilevato, condurre a una sua pericolosa monumentalizzazione retorica, il cui effetto è l’esatto opposto di quanto desiderato, con il valore del ricordo che si trasforma in un rituale vuoto che si ripete (e si mette in scena) a ogni commemorazione comandata, senza che alla celebrazione corrisponda un’autentica riflessione e partecipazione.

Restando a un recente esempio cinematografico, è quello che viene registrato da Austerlitz (2016), il documentario di Sergei Loznitsa che mostra con occhio raggelato quell’ambiguo fenomeno che è il “turismo della memoria”, con frotte di visitatori che si aggirano distrattamente nei campi di sterminio, “consumando” tra selfie e foto ricordo davanti alle camere a gas quella che dovrebbe costituire un’esperienza morale di fronte all’estremo. È un lucido monito che sottolinea come non basti immergersi nel luogo stesso in cui avvenuto lo sterminio per comprenderlo. Perché tra la Storia e le ricostruzioni storiche che intorno a essa operiamo esiste una distanza profonda, che non può essere colmata solo dall’uso retorico del dispositivo della memoria e che ha invece bisogno di un più alto grado di consapevolezza e della giusta prospettiva attraverso cui inquadrare il tema.

La ricerca della giusta prospettiva è una delle questioni intorno alle quali ruota Il Figlio Di Saul (2015) di László Nemes, senza dubbio il più innovativo tra i modelli di racconto tentati in questi ultimi anni sulla Shoah, che consigliamo come il film da vedere in occasione del Giorno della Memoria (è in abbonamento su Prime Video, e in streaming su canali quali TimVision, Chili, Rakuten). L’opera prima dell’ex allievo di Bela Tarr, vincitrice dell’Oscar e del Golden Globe come miglior film straniero, costituisce un’autentica avventura dello sguardo, che obbliga lo spettatore ad assumere il punto di vista del protagonista, l’ebreo ungherese Saul (Géza Röhrig), deportato ad Auschwitz che fa parte del Sonderkommando (ossia le squadre di prigionieri che assistevano i nazisti nelle operazioni di sterminio in cambio della sopravvivenza per pochi mesi in condizioni meno bestiali), che crede di riconoscere in un cadavere il proprio figlio, al quale vorrebbe dare una sepoltura religiosa.

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Il Figlio Di Saul
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La macchina da presa riprende quasi l’intero film in semi-soggettiva, costantemente incollata al protagonista. Il risultato è una messinscena turbolenta, asfissiante, in cui lo spettatore, obbligato a restare nei margini ristrettissimi del campo visivo di Saul, come il personaggio non riesce a capire mai precisamente cosa stia accadendo, perché il mondo gli si offre solo per dettagli e brandelli, senza mai rivelarsi in un’immagine complessiva e coerente. A esasperare la claustrofobia visiva (specchio della claustrofobia cognitiva di un luogo che non rivela mai il suo senso) Nemes impiega un formato quadrato e riprende tutto con un obiettivo a 40 mm e con una scarsissima profondità di campo. Così solo Saul e i suoi immediati pressi sono nitidamente visibili, mentre lo sfondo resta indistinto e opaco.

Il Figlio Di Saul, tramite un espediente solo apparentemente formale, sottolinea invece un aspetto essenziale legato alla Shoah: e cioè la distanza che sussiste tra la tragedia della Storia in quanto accadimento, e le ricostruzioni che cerchiamo di farne. Anche il lavoro attendibilissimo di uno storico mosso dalle intenzioni più veritiere o il documentario più analitico e oggettivizzante soffrono dello scarto tra l’evento e la sua rappresentazione. Persino le memorie dei testimoni oculari, quelle su cui Lanzmann edifica Shoah, pur incontrovertibilmente autentiche e preziose, subiscono le umane lacune della memoria e la parzialità dello sguardo individuale.

Il protagonista de Il Figlio Di Saul non solo non capisce il funzionamento della macchina dello sterminio, che intravede unicamente per scorci, rumori sinistri, voci e lamenti strazianti che non gli è consentito collegare a volti e nomi. Lui non riesce nemmeno a stabilire con assoluta certezza se il corpo che ha visto è quello di suo figlio, il che però non lo frena dal cercare di fare quanto possibile, contravvenendo alle regole del lager, per dargli degna sepoltura. Il film di Nemes è una riflessione che conferma l’imprescindibilità del lavoro compiuto da chi cerca di comprendere e raccontare la Shoah, ma mette in guardia i narratori circa i limiti degli strumenti utilizzati per costruire le storie, sollecitandoli a sforzarsi di riempire le lacune di un sapere mai compiuto una volta per tutte.

La ricerca della verità è una continua, faticosa approssimazione a un obiettivo ideale forse irraggiungibile, come continuo e approssimativo è il tentativo del protagonista di capire il mondo indecifrabile e completamente irrazionale della macchina dello sterminio in cui è stato risucchiato. Il lavorio costante che deve compiere lo spettatore per decrittare il senso di un’opera, Il Figlio Di Saul, oscura come la storia tragica che racconta, è il correlativo di quello sforzo di costruzione del senso cui sempre dobbiamo accingerci quando ci accostiamo alla Shoah. Diffidando quindi della ripetitività tranquillizzante delle commemorazioni rituali della memoria e impegnandoci in uno sforzo di comprensione più intenso e coinvolto, da non dare per acquisito, ma da rinnovare in un inesausto e progressivo avvicinamento a quell’arduo obiettivo che è la verità.