Un’altra vittima dei social: la blackout challenge uccide una bambina di Palermo

Una dimensione ludica senza limiti e regole dove tutto è possibile fino all'annientamento di sé


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Come sempre nel mondo dalle ottimistiche sorti e progressive si chiude la stalla a buoi scappati. Come sempre deve scapparci il morto, per un assurdo gioco su un social e il morto ha dieci anni, è una bambina di Palermo che si è ammazzata senza neanche saperlo obbedendo a un impulso pavloviano, la sfida, la “challenge” per vedere quanto resisteva strangolandosi con una cintura. Dopodiché, indignazione, sconcerto, fioritura di allarmi dagli esperti. Ma esperti di che, se da vent’anni, molto prima delle app, i ragazzini si fanno fuori così come gli viene detto di fare? Le esche, le trappole sono tante, hanno i tratti orrofici di qualche strega immaginaria o quelli mitologici di una balena ma il senso non cambia, sta sempre nella pulsione arcana delle favole, squartarsi, bollirsi, soffocarsi. Con la sostanziale differenza che la favola è reale e le vittime sono reali, sono adolescenti e ragazzini. Sì che dopo un altro cadavere tutti dicono: basta, non si può continuare così, è ora di correre ai ripari, di mettere dei paletti. Quali paletti?
Tik Tok, se uno ci passa dieci minuti, è come minimo una rassegna di pornografia domestica, giovani e giovanissime in mostra come su un catalogo; lo stesso succede sulla Instagram di Zuckerberg, il chirurgo della censura che blocca i contenuti contro il neopresidente Biden, del quale ha sovvenzionato la campagna elettorale, o contro Greta, i vaccini o gli altri totem del politicamente corretto ma le ragazzette seminude e allusive non le vede così come non vede la pletora di escort che usano i suoi social come un tempo si usavano gli annunci delle massaggiatrici sui giornali.
La verità, che nessuno vuole ammettere, è che arginare la pornografia minorile e i suicidi minorili indotti è praticamente impossibile e peraltro nessuno se ne cura davvero, nessuno ha interesse a provarci. Quando Trump si scagliò contro Tik Tok, app cinese, subito montò uno tsunami di commenti scandalizzati che lo accusavano di smanie censorie, di imperialismo censorio. Ciò che non capita con i Facebook e i Twitter che chiudono in modo arbitrario profili e cancellano amici e sostenitori. Il mercato esige libertà totale e una giusta quota di ipocrisia e oggi il mercato è quello delle ambizioni, dei sogni infantili, delle favole crudeli che diventano realtà a qualsiasi prezzo. Dice lo psichiatra evolutivo Pellai che “dobbiamo avere il coraggio di dire ai bambini che quello non è un posto per loro”. Quello, per dire la linea di confine tra il virtuale e il reale. Ma se è stato concepito anzitutto per loro, per i ragazzini! Chi lo ferma più il mercato miliardario in dollari, chi li mette i paletti ad una Rete che è come il mare di Lucio Dalla, non lo puoi fermare non lo puoi recintare, chi ha la forza di ricondurre a ragione sistemi che a questo punto si autoregolamentano cioè non rispondono a nessuno, non osservano leggi da quelle etiche a quelle finanziarie e fiscali?
Pellai, come altri, predica bene: “I bambini vanno tenuti fuori dai social”. Vaneggia? È ingenuo? Senza i bambini, che si offrono e si uccidono, il big business dei social crolla. Siamo pieni di osservatori, di monitoraggi, di agenzie, di istituzioni che da due decenni secernono codici, norme, atti, la immane burocrazia dell’impotenza ogni volta superata da una nuova trovata che aggira il tutto, che arriva prima, sì che occorre aggiornare il corpus inutilis normativo, subito scavalcato da ulteriori invenzioni perverse, in una continua corsa tra guardie e ladri dove questi ultimi vincono sempre. Non è neppure vero che “con la pandemia i giovani hanno subito una accelerazione nel tempo passato in Rete”: succedeva anche prima, succede, in progressione esponenziale, da vent’anni e da vent’anni se ne parla, ci si affligge, ci si allarma. Senza trovare lo straccio di una soluzione. E poi chi dovrebbe prendere atto della situazione? Genitori, adulti che utilizzano gli stessi giocattoli, che regrediscono al medesimo livello di narcisismo infantile dei loro figli? Pellai, con la lucidità dello psichiatra, si domanda: “TikTok è una fiera dell’ esibizione, della sessualizzazione precoce, della seduzione, della competizione: per quale motivo devo far entrare mio figlio dentro a quella dimensione?”. Ma è la domanda retorica dell’homo mentalis che non fa i conti della realtà; la questione vera è opposta, è ribaltata: per quale motivo un ragazzino non dovrebbe entrare in un antro senza confini, posto che il genere umano senza eccezioni è ormai obbligato a starci se vuole vivere tra i vivi?
Certo, poi si potrà dire che il mondo non è un paese dei balocchi. Ma a farci attenzione, si vede che invece è proprio questo che tutti insinuano, la dimensione ludica senza limiti e senza regole dove tutto è possibile fino all’annientamento di sé. E a farlo capire sono i media controllati o direttamente posseduti dagli stessi che organizzano il mondo in tal guisa. Gente in grado di orientare perfino le elezioni presidenziali americane.
Ci sono neurobiologici come Manfred Spitzer che non si stancano di additare le conseguenze, micidiali, della furibonda progressione tecno-ludica sulle menti in formazione; ci sono ex guru della Rete, come Jaron Lanier, apertamente pentiti e oggi acerrimi nemici dei social; ci sono psicologi, studiosi, sociologi che ribadiscono la perniciosità acquisita del sistema: rubricati tutti come dei vecchi pazzi, nemici del futuro, ostinatamente abbarbicati a sensibilità novecentesche. E c’è l’autoassoluzione generale che mente sapendo di mentire: “Il fuori deve diventare un posto più accogliente, stimolante, inclusivo”. Ma già definire il mondo reale “il fuori” la dice lunga, come definirlo qualcosa di avulso, di estraneo. Come ammettere che la battaglia è già persa. Poi le cose non stanno proprio così, il mondo, volendo, non è mai stato così aperto, così pieno di opportunità. Ma se queste possibilità vengono convogliate nei peggiori dei modi possibili, non resta molto da fare. La verità è che non c’è più confine tra dentro e fuori, tra reale e immaginario, tra amore e morte e neppure nel tempo, che non è più quello delle mele ma quello delle app puttanesche. Deità tremende, che ogni giorno reclamano il loro sacrificio umano.