Solo perché fa pop, non significa che Taylor Swift sia un’artista di scarso valore. Anzi

Taylor è un chiaro caso di come oggi tutto si basi su approcci superficiali, dettati da apparenza più che approfondimento


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A casa dei miei genitori, casa che non è mai stata la mia casa, visto che si sono trasferiti in questo appartamento quando io già da anni vivevo a Milano, mi sono giusto limitato a dormirci qualche volta quando è capitato che io tornassi in città da solo, in genere quando ci torno con mia moglie e i figli andiamo in quella che è la casa di mia suocera, la casa nella quale è cresciuta appunto Marina, mia moglie, dicevo, a casa dei miei genitori, c’è una piccola stanza che funge da stanza per le preghiere. I miei sono molto religiosi, ve ne ho già parlato, mio padre è un diacono e insieme i miei genitori sono stati responsabili di un gruppo di famiglie che era parte del gruppo dei paolini, quelli di Famiglia Cristiana per intendersi. In questa stanza, lo spazio per un divanetto, una credenza che ospita un leggio in legno intarsiato che ospita un vangelo, e poco altro, c’è una parete che è dedicata alla storia della mia famiglia, e di conseguenza anche alle rispettive storie delle famiglie dei miei genitori. Foto d’epoca, quindi, che arrivano fino a noi figli, io, mio fratello Marco e mia sorella Caterina, alle nostre rispettive famiglie e ai nostri figli, che tecnicamente sono i nipoti dei miei genitori, i loro nonni. Ultima arrivata la figlia di mia nipote Martina, figlia a sua volta di mia sorella, di nome Aurora.

Ho fatto questo veloce excursus, lo ammetto, più per esibire la capacità solitamente non riconosciuta in esseri umani di sesso maschile di indicare correttamente i gradi di parentele, specie quelli acquisiti, ruoli che qui non ho esibito, ma fidatevi, so distinguere nuora da suocera, genero da cognato e via discorrendo.

Nella parete dove si trovano le foto della mia famiglia, e di conseguenza le foto delle famiglie dei miei genitori, ce n’è una che mi ha molto colpito, da sempre. Per non incorrere in errori dovuti alla memoria, che come sapete nel mio caso è pari a zero, ho chiesto a mio padre, ottantacinque anni, di mandarmela via whatsapp, lo ha fatto nel giro di neanche cinque minuti. Nella foto c’è mio nonno Mario, il padre di mio padre, uno che era nato nel finire dell’Ottocento, nel 1897, e che diciassettenne è partito con gli Arditi, nella frangia repubblicana, la famiglia di mio padre era di ferventi repubblicani, per combattere durante la prima guerra mondiale, c’è mio nonno Mario, quindi, un cappello a larghe falde sulla testa, un trench alla Humphrey Bogart lasciato aperto, la foto è in bianco e nero, ovviamente, ma così sembra essere il soprabito che indossa sopra un completo molto elegante, giacca e pantaloni abbinati, panciotto sotto e una sciarpa bianca arrotolata esattamente nella stessa maniera con cui la porta mio figlio, quindi anni, a coprire camicia e, immagino, cravatta. Mio nonno tiene per mano mio padre, di massimo due anni, un cappotto abbottonato, una coppola alla francese, i calzoni corti tipici dei bambini a quei tempi. Sì, perché a quei tempi portare i calzoni lunghi significava diventare adulti, l’adolescenza se la sono inventata in seguito. Mio nonno guarda mio padre, mio padre guarda a lato, verso immagino delle vetrine. La foto è stata scattata per il corso principale della mia città, corso Garibaldi, la città è quindi Ancona, parecchio diversa da come io ho imparato a conoscerla poi.

Mio nonno, il cappello in testa, il trench lasciato aperto, il vestito buono, elegante, sembra avere la mia età di oggi. Toh, qualcuno di più, una sessantina d’anni. Chiaramente veste da uomo adulto, cosa che non sempre, per non dire mai, si può dire di me. Non ha codini alla Frank Zappa, lui, non ha occhialoni rosa grandi come gli occhi di una gigantesca mosca, non indossa magliette con le copertine o i logo di dischi e band, non indossa jeans e strane scarpe da tennis. Tutto questo non esisteva all’epoca della foto, già è tanto che avessero già inventato le macchine fotografiche o che le macchine fotografiche fossero appetibili anche a uomini come mio nonno, un impiegato delle Ferrovie di Stato che aveva perso momentaneamente il lavoro nel momento in cui aveva deciso di non aderire al partito fascista andando a ripiegare al meno nobile lavoro di macellaio presso il macello cittadino, lavoro presso il quale si presenterà il gerarca anconetano per arruolarlo nell’esercito, un ex ardito encomiato per quanto fatto nella prima guerra mondiale avrebbe sicuramente fatto comodo all’esercito italiano nel secondo conflitto mondiale, peccato che mio nonno non fosse della stessa opinione e che tanto aveva deciso di non aderire al partito, pena perdere il lavoro, tanto decise di non andare in guerra per Mussolini, pena perdere il pollice, che si recise di netto con un colpo di mannaia. Mio nonno che in fondo era rimasto un ferroviere, anche se spostato a fare altro, la mannaia in mano.

Ma non è questa storia che voglio raccontarvi, già l’ho fatto, più volte. No, voglio parlarvi di quella foto.

C’è mio nonno, di mezza età, che tiene per mano mio padre, di circa due, massimo tre anni. Mio padre era secondogenito. Suo fratello Enzo aveva sedici anni precisi più di lui, mio padre del 1936, mio zio del 1920. Grande tifoso di ciclismo, zio Enzo, e nello specifico di Learco Guerra, aveva deciso che mio padre si sarebbe chiamato come il campione. Due anni mio padre, diciotto anni mio zio Enzo, zio che io non ho mai conosciuto, morto prima che io venissi al mondo. I conti non tornano. Mio nonno non può avere più degli anni che io ho ora. Non ci si può neanche avvicinare vagamente. Ha poco più di quarant’anni, facendo un po’ di conti, diventato padre giovanissimo, da poco tornato dalla prima guerra mondiale.

Un uomo di mezza età, in effetti, alla fine degli anni trenta, quella foto dovrebbe essere del 1938, aveva quarant’anni, non sessanta come oggi.

Tutto è relativo, direbbe Einstein, di neanche venti anni più vecchio di mio nonno Mario, del resto, e con una capigliatura non esattamente da adulto, mi verrebbe da aggiungere.

Passo a parlare di calcio.

Tifo Genoa, per scelta, l’ho già raccontato più volte, non è rilevante ai fini della storia che sto per raccontare che io ripeta perché. Il Genoa, da che io sono nato, non ha mai vinto niente. Non ci è arrivato neanche vicino, a meno che non si voglia pensare che aver espugnato l’Anfield Road, Pato Aguilera santo subito, avesse realmente spianato la strada al Vecchio Grifone per la vittoria della Coppa Uefa, vittoria che infatti non è arrivata. Sono quindi abituato a una vita di scarse soddisfazioni, o meglio, di atroci sofferenze calcistiche.

In questo contesto cupo, fatto più di mugugni che di sorrisi, c’è ovviamente del positivo, non sono poi così autolesionista. Tifare una squadra con blasone da tempo caduta in disgrazia, nove scudetti in vetrina, è vero, ma anche tanta B, pure la C, disgrazia arrivata spesso anche in virtù della gestione discutibilissima del presidente Preziosi, ci ha infatti nel tempo regalato almeno degli eroi.

È vero, i miei eroi risalgono quasi tutti a prima che arrivasse Preziosi, quando il calcio era per altro un altro calcio, più tattico e meno atletico, più di uomini e meno di macchine, non fatemi fare il boomer anche quando parlo di pallone, vi prego.

Dato per inciso che il primo calciatore per cui ho letteralmente perso la testa, in maniera altrettanto teorica di quanto non faccio in genere con la musica, ne parlavo giorni fa a proposito del jazz e di Soul, nel 1982, e messo agli atti che sarà proprio con Bagnoli e con la coppia d’oro Pato Aguilera e Tomas Skuhravy, Branco lì dietro non è che fosse da meno, scoprire gioielli che poi, immancabilmente, finiranno per tradire i colori societari passando altrove, ma che comunque regaleranno qualche sprazzo di poesia a un gioco ormai svilito abbondantemente dalla tv e da una playstationizzazione di schemi e preparazione atletica è sempre stata fonte se non di soddisfazione quantomeno di conforto. Inutile, immagino, citare Oscar Damiani, O’ Rey di Crocefieschi, Roberto Pruzzo, e Massimo Briaschi, ero troppo piccolo, e anche un po’ meno disincantanto, ma nei fatti la storia di calciatori quali Diego Milito, come non partire da lui?, a Palacio, da Piontek, da Nappi a Ciro Immobile, da Pavoletti a Montella, da Giovanni Simeone a  El Shaarawy, nei fatti solo intravisto, poi mettiamoci pure Borriello e Sculli, dai, fatemi essere generoso, come le meteore di Matri, Luca Toni, Gilardino, o i recenti arrivi di Scamacca, di Sanabria, Panved ovviamente fa storia a sé, come quei pochi giocatori stempiati e generosi che ancora mi fanno battere il cuore, nei fatti la storia di questi calciatori, esplosi all’ombra della lanterna e poi andati altrove, in alcuni casi fortunatamente rimasti, è di quelle che giustifica ai miei stessi occhi il continuare a tifare per una squadra che ha visto passare dalla panchina giganti come Bagnoli e il Professor Scoglio, io ci metterei anche Gasperini, perché no?, e che ormai da anni sta lì che si salva all’ultima giornata per una gestione che dire scellerata è farle un complimento.

Ovviamente nelle fila del Genoa sono passati anche calciatori un po’ meno esaltanti di questi, e mi sono limitato solo ai bomber, perché non citare Signorini o Ruotolo è per me fonte di rammarico, sia chiaro. Pensate al me stesso ragazzino, poco più che bambino, che mentre i cugini ciclisti della Samp esibiscono i gioielli Trevor Francis e Liam Brady vediamo affiancare il permanentemente infortunato Ian Peters da Elio, per altro in serie B. E dire che quando avevo letto il suo nome sulla Gazzetta mi ero esaltato. Francisco Chagas Eloia detto Eloi. Il nome era fighissimo. I nomi di quasi tutti i calciatori brasiliani erano fighissimi. Zico, per dire, si chiamava Arthur Antunes Coimbra detto Zico, Pelè, invece, Edson Arantes do Nascimiento, Junior all’anagrafe era Leovegildo Lins da Gama. Davvero tanta roba.

Io, che ero una buona ala sinistra, più fantasioso che fisico, seppur piuttosto veloce, avevo per un po’ vagheggiato di diventare calciatore, e in caso, optato per scegliere il nome Michele Monina Filho Do Learco, dove ovviamente quel filho andava letto alla portoghese, figlio, e dove Learco, appunto, era mio padre. Tornando comunque a Eloi, il suo passaggio a Genova sarà tra i più insignificanti della storia, neanche un goal, neanche una partita degna di nota, la tanto sperata promozione neanche vagamente sfiorata. Unico aspetto degno di nota, il fatto che Eloi indossasse la maglia rossoblù con lo sponsor Elah, Eloi Elah, come una filastrocca, cosa che mi mandava letteralmente in estasi, evidentemente ero postmoderno ancor prima di sapere cosa il postmodernismo fosse.

Di pippe, comunque, da quelle parti ne ho viste tante, lo stesso Pato Aguliera, lo sanno tutti, era arrivato più come omaggio per l’acquisto di Perdomo che come vero investimento, inutile dire chi dei due è entrato negli annali del calcio e chi ci è solo transitato, più che altro per la nota battuta sul cane di Boskov. Un altro arrivo che ricordo con sorpresa e grandi aspettative, aspettative dettate non saprei dire esattamente da cosa, è stato quello di Kazuyoshi Miura, o Miura Kazuyoshi, visto che i giapponesi antepongono cognome a nome, come i carabinieri. Il fatto che nel Genoa, si scoprirà presto per mere questioni di sponsor, giocasse un giocatore nipponico, quando ancora il calcio era roba per noi europei, i sudamericani e giusto qualche africano, aveva davvero dell’esotico.

Certo, eravamo stati eliminati dai mondiali del 1966 dalla Corea del Nord, e presto saremmo tornati a percorre mestamente la via del ritorno a casa anche dai mondiali del 2002, per mano della Corea del Sud e soprattutto dell’arbitro Byron Moreno, ma in generale associare il calcio all’oriente mi è sempre risultato difficile, specie in quegli anni. Miura era quindi una bella sorpresa. Una bella sorpresa che si sarebbe ovviamente rivelata come l’ennesimo calciatore scarso arrivato a pestare l’erba del Ferraris, strano che il Professor Scoglio non lo abbia mandato a falciare l’erba durante la settimana invece che a calcarla in formazione, vedi che anche i giganti anarchici a volte devono fare compromessi? Miura quindi è a tutti gli effetti uno di quei calciatori che, dovendo parlare del nostro campionato, ci fa ridere portando una mano davanti alla bocca, gesto che in epoca di mascherina è più metaforico che reale, come a dire che non lo facciamo sguaiatamente più per questione di bon ton che di coerenza.

In questi giorni si è però tornato a parlare di Miura, e si è tornato a parlare di Miura con un entusiasmo e un calore che, francamente, da tifoso del Genoa e più in generale da appassionato di calcio, fatico a capire.

Il motivo è semplice, Kazuyoshi Miura è entrato nel Guinness dei primati, credo più metaforicamente che tecnicamente, per essere il calciatore più vecchio mai tesserato da una squadra professionista. Ha cinquantatré anni, ne farà cinquantaquattro a febbraio, e da anni milita nello Yokohama, che gli ha appena rinnovato il contratto per un altro anno. Nel caso dovesse segnare, è un attaccante, la cosa non dovrebbe essere poi così improbabile, sarebbe anche il calciatore professionista che ha segnato a più tarda età. Grazie, è il più vecchio che abbia mai giocato, si potrebbe far notare.

Nei fatti i giornali, e anche sui social, hanno dato abbastanza spazio a questa faccenda, spostando quindi il giudizio sul Miura calciatore da pippa che ha segnato un solo goal, per altro perdendo poi il posto da titolare, nel Genoa, ventuno presenze un goal, e tanto tanto che il goal è stato fatto nel derby con la Samp, a sorta di eroe immortale che a cinquantatré, probabilmente cinquantaquattro anni, ancora calca il campo di calcio. Ovviamente ci saranno stati calciatori africani, nota è la storia di Roger Milla, bomber del Camerun che incontrò l’Italia nel Mundial del 1982, che aveva clamorosamente manomesso la sua carta di identità, risultando palesemente più vecchio di quanto non riportasse il documento, ma in assenza di prove è Miura il più longevo tra i professionisti.

Ora, messo da parte Miura in quanto Miura, se tanto mi da tanto quel record verrà battuto con ben altri risultati da Ibrahimovic, trentanove anni, o da Cristiano Ronaldo, trentacinque, mi interessava anche in questo caso notare come nella vita tutto sia relativo, chi prima era oggetto di scherno poi diventa encomiabile, anche in assenza di una motivazione realmente valida, essere vecchi, temo, non è un valore in sé.

La nostra è un’epoca che tende a approcci veloci e quindi superficiali, spesso dettati da apparenza più che approfondimento. L’ho appena fatto anche io, come a volervi testimoniare che nessuno ne è immune. Mi sono affidato all’apparenza, definendo mio nonno uomo di mezza età sulla sessantina, quando in realtà ne aveva una ventina di meno, e parlando di Miura in quel mondo, senza per altro considerare, appunto, come col tempo le condizioni che portano a un giudizio, anche sommario, possono cambiare, un calciatore degli anni Novanta oggi si trova a giocare un calcio totalmente diverso, più fisico, e che quindi almeno in questo Miura, cinquantatré anni, quasi cinquantaquattro, potrebbe sì essere degno di nota, di applausi. Chiaramente non era di una vecchia foto appesa nella stanza delle preghiere di casa dei miei che volevo parlare, né tanto meno di Kazuyoshi Miura e del suo ostinarsi a giocare fino alla fine dei giorni nonostante giocare a calcio non sia una cosa che gli riesca poi così bene.

Mi premeva parlare di percezioni, di preconcetti, di apparenze e di apparenze ingannevoli, le apparenze non lo sono in fondo sempre, ma soprattutto di quel preciso momento in cui ci rendiamo conto di tutto ciò e vediamo finalmente il quadro nella sua interezza, senza continuare a concentrare lo sguardo solo su un dettaglio, o peggio sulla cornice.

Giorni fa ho avuto una lunga, estenuante diatriba sui social con un sedicente ingegnere del suono che per dimostrare come la musica oggi sia tutta figlia di manipolazioni e trucchetti di bassa leva non ha trovato di meglio che tirare fuori il nome di Taylor Swift. Facendolo, tirando cioè in ballo il nome di Taylor Swift, ai suoi occhi, intendeva dire “una cantante pop di scarso valore, una che senza autotune non andrebbe da nessuna parte”. Non ha detto esattamente queste precise parole, ma siccome ha lasciato sui miei social oltre cento commenti credo che ricorrere per una volta alla sintesi sia gesto caritatevole ma anche strettamente necessario.

Ecco, Taylor Swift, il millantatore appena entrato in scena ne esce immediatamente senza lasciare altra traccia, è un chiaro caso di chi, a volte, può finire impigliata dentro apparenze che ingannano. In negativo. Una che fa pop, quindi una di scarso valore.

Una foto d’epoca che ci fa scambiare per quasi anziano una persona che oggi, volendo, potremmo quasi far rientrare di diritto tra gli adolescenti, un calciatore certo non noto per essere un fuoriclasse che si ostina a giocare finendo per diventare a suo modo un mito, o viceversa.

Taylor Swift è una grande artista, non ci sarebbe bisogno che sia io qui a affermarlo perentoriamente. Lo ha dimostrato nella sua carriera già sufficientemente lunga, nonostante la giovane età, ha da poco compiuto trentuno anni, ma ha esordito ormai quindici anni fa, con l’album eponimo, andando a spaziare tra il country pop, il pop vero e proprio, e recentemente in una sorta di folk decisamente alto che in qualche modo ce l’ha fatta conoscere come artista non solo eclettica, ma anche dotata di una capacità di cambiare pelle propria solo dei top player. Suoi lavori quali Red, 1989, Reputation e Lover già ci avevano dimostrato le qualità compositive e interpretative di una artista che ha saputo mettersi in gioco, passando dal country al pop con Red, andando a giocare col passato (addirittura in 1989 un passato non suo, visto che le sonorità scelte sono quelle del decennio nel cui finale lei è nata), andando a sfidare le mode del momento, Reputation non venne reso disponibile inizialmente su Spotify e Apple Music, salvo poi andare a sbancare con quasi due miliardi di stream, andando anche a provare a creare un punto di unione ipotetico tra il passato countreggiante degli esordi e quello synth-pop di 1989 con Lover, dopo i suoni decisamente più urban di Reputation, ma l’anno scorso ci hanno regalato due gemme preziose, Folklore e Evermore, prodotti entrambi dalla stessa Taylor in ottima compagnia di Jack Antonoff dei Bleachers e Aaron Dessner dei The National, album che si fanno rarefatti, l’averli scritti e registrati durante la pandemia, in quindi in semilock down, in qualche modo ha condizionato non solo l’approccio alla scrittura, ma anche al canto, al suono, con perle assolute quali Exile e Evermore, la prima in Folklore la seconda nel brano omonimo, eseguite in compagnia addirittura di Bon Iver, nonché Coney Island, portata a casa con tutti i The National, oltre che tanti altri brani tutti di alta qualità, a un certo punto arrivano anche le Haim.

Qualcosa di sorprendente, non solo da un mero punto di vista artistico, la qualità della scrittura è tra le più lucide al momento in circolazione, in perenne bilico tra contemporaneità e classicità, esercizio di stile assai difficile, se ci si pensa bene, ma anche da un punto di vista discografico, perché essere credibile in così tanti ambiti artistici, l’ultramainstream, la nicchia dell’alt-country, seppur nicchia con numeri importanti, certo rock d’autore che da noi verrebbe interpretato da chi segue certi Festival alternativi, quali il mai abbastanza rimpianto Siren Festival di Vasto, è qualcosa di prodigioso, roba impensabile dalle nostre parti, dove al massimo ci possiamo permettere duetti tra Mengoni e Frah Quintale e Calcutta e la Michielin, cioè tra gli stessi lati delle stesse medaglie, anche di latta.

Ben vengano quindi le apparenze ingannate, i pregiudizi soffocati nel sonno e tutto il resto, almeno di fronte a artiste con la A maiuscola.