Dopo i The Osbournes è arrivata l’ora dei The Moninas

i Moninas, una docuserie, in epoca SanPa, un luogo non-luogo nel quale ogni singolo membro della mia famiglia trova il suo spazio


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Dopo quasi un anno di questa cosa qui, del Covid, dell’emergenza sanitaria, delle chiusure, di questa cosa qui, appunto, mi capita abbastanza spesso di pensare che forse dovrei iniziare a cullare l’idea di iniziare a occuparmi di altro che non sia la musica.

L’ho sempre fatto, del resto, di occuparmi anche d’altro. In alcuni periodi prevalentemente d’altro, in altri solo d’altro. Cioè, la musica è sempre stata lì, è una mia passione oltre che il mio lavoro, parte del mio lavoro e della mia vita, ma per alcuni periodi della mia vita mi sono occupato professionalmente d’altro.

È successo per scelta, perché dopo l’esperienza di Tutto Musica ho deciso per qualche anno di scrivere solo libri allontanandomi da un settore che ritenevo a ragione tossico, è successo per necessità, perché per altri i lavori che mi venivano offerti e che erano più redditizi e anche più sicuri ruotavano intorno a altri argomenti, i viaggi, spesso, la televisione, le consulenze editoriali, o magari anche solo per caso, quando si decide di percorrere la strada della libera professione, del freelancing, tocca sempre prendere le occasioni per come capitato, quando capitano.

Chiaro, con il tempo, con gli anni, le occasioni si vanno a progettare, creare, curare, non si sta lì aspettando che capitino come magari invece succede nei primi tempi, quando si fa la gavetta. Altrettanto chiaramente si va di alti e bassi, non ci fosse Marina al mio fianco difficilmente in certi periodi avrei messo il pranzo con la cena, il libero professionista va di picchi, in basso e fortunatamente anche in alto, il lavoro dipendente però rimane sicuramente più stabile.

Una pandemia, un intero anno di stallo, la chiusura semi-permanente del comparto musicale, niente concerti, pochissimi progetti, dischi il minimo sindacale, il prossimo Sanremo che sembra più una pagliacciata che una cosa seria, tutto questo fa sì che mi capiti abbastanza spesso di pensare che forse dovrei iniziare a cullare l’idea di iniziare a occuparmi di altro che non sia la musica.

Non una dichiarazione di resa, intendiamoci, più un provare a rimanere in piedi o anche solo di rimanere in vista di periodi migliori.

Ho cinquantuno anni, anche questo so bene. Sono un uomo di mezza età, seppur oggi parlare di mezza età può sembrare voler ricorrere a un gergo antico, desueto. Scrivo online, in un ambito prevalentemente abitato da “colleghi” assai più giovani di me, magari nativi digitali, millennials, non devo mettere la giacca per andare al lavoro, anche perché il mio ufficio è a circa due metri dalla mia camera da letto, e così era anche prima dell’invasione più o meno pacifica dello smart working, posso scrivere parolacce e indossare imbarazzanti occhialoni rosa finendo per capitalizzare anche questi vezzi che generalmente verrebbero indicati come chiari segni di immaturità, ma sono un uomo di mezza età, un padre di famiglia, di una famiglia numerosa, questo non me lo scordo mai, viva Dio.

Questo implica che certe occasioni, lo so, non mi capiteranno più davanti, anche se sarò in grado di costruirne tutti i presupposti, in fin dei conti non è che in questi mesi io sia scomparso, anche in virtù del mio non essere solo un critico musicale, anche per queste pagine di diario che in qualche modo vi hanno tenuto compagnia lungo tutto questo anomalo lock down, qualcosa di decisamente poco canonico.

Non capiteranno perché giustamente i treni non sono destinati a passare in continuazione, come nei loop o nei dejavu.

Non capiteranno perché al momento non ci sono proprio le basi per progettare qualcosa di ambizioso, le ristrettezze, la crisi, i tagli.

Non capiteranno perché quando provi a costruire un percorso, uso una parola che grazie ai talent ha preso un significato assai diverso da quello che aveva in precedenza, quando, cioè, provi a mettere uno dopo l’altro dei progetti che contribuiscano a una crescita professionale, nel mio caso incrementando di pari passo il curriculum e la reputazione del nome, questo è un termine che invece ha assunto un nuovo significato da che esistono i social, disegnando anche gli ultimi dettagli del personaggio cui quel nome è legato, perché mica penserete che io sia davvero quello con le due codine alla Frank Zappa, appunto, e gli occhialoni rosa?, assestando per altro anche qualche colpo assai ben riuscito, non è che il tutto lo si possa replicare alla stessa maniera, le congiunture astrali sono congiunture astrali, l’acqua del fiume non è mai la stessa.

Insomma, ci siamo capiti.

Negli ultimi tempi, quindi, mi capita abbastanza spesso di pensare che forse dovrei iniziare a cullare l’idea di iniziare a occuparmi di altro che non sia la musica. Non si leggano queste mie parole con tono auto commiserevole, i codini alla Frank Zappa e gli occhialoni rosa son sempre lì, poco conta che sotto l’inquadratura ora abbia i pantaloni della tuta e le ciabatte, né con un retrogusto di amara disillusione in bocca, per essere disillusi tocca prima essere illusi, o quantomeno convinti che le cose vadano necessariamente in un certo modo, ma la vita mi ha insegnato assai prima di poterla indirizzare a grandi linee dove volevo io che farsi illusioni è da sciocchi, meglio guardare al cielo, certo, tenendo sempre i piedi ben saldi in terra.

Negli ultimi tempi, quindi, mi capita abbastanza spesso di pensare che forse dovrei iniziare a cullare l’idea di iniziare a occuparmi di altro che non sia la musica, e devo dire che, parlando con chi si occupa da sempre solo e soltanto di musica, mi capita abbastanza spesso di sentirmi dire che la mia è una condizione comune, e per la cronaca non ho mai ritenuto che il mal comune possa essere anche un mezzo gaudio. Questo, il sapere che chi lavora in studio di registrazione, chi produce, chi suona, chi in qualche modo lavora poi la musica nel momento in cui diventa prodotto, attori di quella filiera musicale che, non me ne vogliano Franceschini, Fedez, i Bauli in piazza e chiunque in qualche modo ci sta raccontando di una qualche montante forma di solidarietà, ecco, il sapere che chi lavora nel mondo della musica stia come me ipotizzando di cambiare mestiere in realtà mi frena.

Sono fatto male, lo so, ma in cinquantuno anni ho già smussato sin troppi angoli, non è che posso proprio cambiarmi del tutto, altrimenti diventerei letteralmente un altro.

Mi frena per quello spirito da Robin Hood che in qualche modo aveva inciso neanche poco nel mio assestare quei colpi micidiali di cui parlavo prima, le inchieste, l’essere l’outsider che combatte le sue battaglie solitarie, la solitudine dei numeri primi, L’Anticonformista a RTL 102,5, Monina Sì vs Monina No, i gran rifiuti ai talent, Dagospia, Striscia la Notizia, se mai decidessi di cambiare in parte aria dovrebbe essere una mia scelta, non certo una imposizione dall’alto, fosse addirittura l’Altissimo l’alto di cui parlo, e mai in compagnia di mezzo mondo, non sia mai che proprio a cinquantun’anni io cominci a stare nel flusso invece che andare controcorrente, questo sì che sarebbe una resa incondizionata, un alzare vilmente bandiera bianca, un farmi violenza da solo.

Credo funzioni un po’ come la faccenda della parola nigger per gli afroamericani, applicabile per altro a tutta una serie di termini impigliati più o meno giustamente nelle strette maglie del politicamente corretto, non fatemi neanche ipotizzare di star qui a citare la ridicola faccenda dell’oratore americano che chiude la sua preghiera aggiungendo al tradizionale “Amen” un antipatriarcale “Awomen”, confondendo una chiosa latina con una ingerenza di genere. Se un afroamericano si rivolge a un altro afroamericano chiamandolo nigger, questo abbiamo appreso guardando praticamente tutti i film di Spike Lee, John Singleton, pace all’anima sua, e più in generale imparando a memoria buona parte dei brani rap di quando il rap non era solo una lunga sequela di versi sconclusionati inneggianti a marche e tagli di mazzette di dollari, se un afroamericano si rivolge a un altro afroamericano chiamandolo nigger il tutto rientra nel normale utilizzo di un codice riconosciuto da entrambi, come certi cretini che da noi si salutano chiamando Frà o Bro, o ancora peggio Zio, ma se a farlo è un caucasico, modo molto politicamente corretto per dire bianco, beh, si finisce dritti dritti nell’insulto di chiara matrice razzista. Idem se un omosessuale chiama un altro omosessuale “frocio”o “frocia”, anche se qui il rischio se a farlo è un eterosessuale è di essere accusato di omofobia.

Non si può, non è consentito, si sconfina in un territorio minato. Chiunque abbia bazzicato la strada, anche in questo cinema e letteratura potrebbero essere d’aiuto, sa che definirsi “figlio di puttana” è un vezzo che con l’onorabilità della propria madre nulla ha a che vedere, essere chiamati da altri “figlio di puttana” è una offesa che va lavata col sangue, perché proprio quella onorabilità lede irreparabilmente.

Traduco, brutti figli di puttana, io posso decidere di abbandonare la musica, non può certo essere qualcun altro a stabilirlo per me, specie in un momento di abbacchiamento globale.

Ora, messo da parte che credo la visione del bellissimo film Beats su Neflix abbia in qualche modo finito per influenzare almeno quest’ultima parte del sessantasettesimo capitolo del mio diario del secondo lock down, direi che provare a sviscerare qui, in pubblica piazza, in che modo potrei io iniziare a occuparmi d’altro che non sia la musica potrebbe essere al tempo stesso qualcosa di interessante, come un dietro le quinte che in realtà è uno stare sul palco insieme a me nel momento in cui si va in scena, come un clamoroso autogoal, perché mostrarsi deboli può forse contribuire a creare empatia tra lettore e scrittore, anche se star qui a scriverlo, ho già fatto centinaia di volte questo giochino, disinnesca la potenza dell’esplosivo, ma al tempo stesso indica una crisi che non faciliterà certo me a trovare ipotetici partner per eventuali progetti futuri, chi mai vorrebbe mettersi in una impresa con chi ha detto a tutti che si sente incerto e insicuro?

Nei fatti son qui, coi pantaloni della tuta e le ciabatte, diciamo pure in mutande e ciabatte, il momento è particolarmente intimo, ma pur sempre con la t-shirt del West Ham, i codini alla Frank Zappa e gli occhialoni rosa, gagliardo come un ghepardo.

Potrei ora giocarmi la carta del “non ho idea di dove andare a parare”, cercando di far leva sulla vostra benevolenza, e grazie a Dio che non ho detto “pietà”, magari anche nella speranza che tra chi legge ci sia qualcuno che ha in mente qualcosa che potrebbe andar bene per me, o più semplicemente qualcuno che mi stimi a prescindere, e che quindi voglia in qualche modo sostenere questo mio momento di passaggio, andando a svolgere l’antico ruolo del Mecenate.

Per altro, prima o poi affronterò questa faccende del Mecenate, perché penso che è proprio verso quello che stiamo andando, anche per quel che riguarda la musica. Penso, cioè, che come è accaduto per secoli, servano persone o istituzioni illuminate che sostengano l’arte e la cultura, anche magari per i motivi sbagliati quali il proprio narcisismo e la propria smodata ambizione. Credo che sia la sola via percorribile, visto che il mercato sembra diventato incapace di sostenere l’arte. Mi metto nel novero degli artisti, sì, lo sto già facendo, del resto sono uno scrittore e come una buona porzione di scrittori oggi ho mollato da tempo la forma romanzo per spostare questa commistione tra biografismo e narrazione che state leggendo anche ora, perché non dovrei infilarmi nel sottogruppo degli artisti? Sono un artista e come tale ambirei a avere un Mecenate che mi mantiene per il solo fatto di esistere, questo dovrebbero fare i Mecenati e questo dovrebbero fare gli artisti. Mi vedo spesso, sognando a occhi aperti, lì nella Torre di Portonovo, una vestaglia di raso rossa, a guardare il mare. Poi mi sveglio da quel torpore della mente.

Potrei quindi ora giocarmi la carta del “non ho idea di dove andare a parare”, ma mentirei, e quel mio dire prima che la pandemia ha in qualche modo bloccato un progetto in divenire costruito nel tempo avrebbe già dovuto farvi capire che tante erano le idee sul tavolo, almeno qualcuna è sopravvissuta a questo lungo stallo e a quel che ne sta seguendo.

Anche perché nel mentre qualche proposta mi è in effetti arrivata, tutte categoricamente con la musica nello sfondo, non certo come tema centrale. Sono un critico musicale, è vero, e sono uno scrittore, un autore televisivo e radiofonico, sono anche un personaggio televisivo e uno speaker radiofonico, oltre essere uno che scrive per il teatro e per il cinema, oltre che si muove anche in campo musicale, come autore e produttore. Sono tante cose diverse, per intendersi, ma è indubbio che il mio personaggio, quello con la reputazione social, quello con un buon seguito, diciamolo, un ottimo seguito, quindi quello popolare, magari non proprio mainstream ma sicuramente neanche troppo di nicchia, è il critico musicale, quello tranchant, quello che è sempre un outsider anche se sta dentro la radio più ascoltata in Italia, quello politicamente scorretto che ha le codine alla Frank Zappa e gli occhialoni rosa. Quindi la musica non può non esserci del tutto, ma in questa particolare fase fa da sfondo, da optional, da dettaglio. Questo stando almeno alle proposte che mi sono arrivate.

Tutte proposte che tendono a far leva più sul mio essere scrittore, sul mio essere un personaggio, meno sulla musica, assente ingiustificata.

Ci sta, non faccio certo quello che cade dal pero. Ma come, vi interesso io come personaggio?

Del resto, giochiamo a carte scoperte, provando a essere analitici più che narcisisti, in questi lunghi, lunghissimi mesi di lock down, di clausura, di emergenza sanitaria causa Covid, ho dato vita a questo diario della pandemia, quello di cui oggi state leggendo il sessantasettesimo capitolo della seconda parte, centosettantesimo se vogliamo guardare alla forma diario come a un unicum partito a febbraio scorso, interrotto a giugno e ripreso a ottobre, un diario nel quale ho ulteriormente portato agli estremi il mio stile piuttosto personale, andando a occupare di sana pianta la scena, io in compagnia di coloro che con me stanno vivendo reclusi, mia moglie Marina, i nostri quattro figli Lucia, diciannove anni, Tommaso, quindici, i gemelli Francesco e Chiara, nove, e mia suocera Franca. Fatto, questo di parlare molto più del solito, e il solito era già un parlarne tanto, di me e della mia famiglia ha fatto sì che il diario diventasse altro rispetto ai normali articoli di musica, che poi essendo sempre scritti da me, con uno stile molto personale, di normale poco avevano.

Ho spostato la musica come sfondo, sempre presente, anche molto presente, ma mai centrale, andando a porre al centro della narrazione me e la mia famiglia, ipotizzando che un diario fosse faccenda più interessante in un momento così anomalo e, spero, irripetibile, e pensando che l’immobilismo del settore musicale ben si sposasse con lo spostare la musica nello sfondo, sorta di mimesi letteraria della realtà.

Ho sostanzialmente messo su carta, carta virtuale, perché questo diario l’ho scritto e lo sto scrivendo qui, online, una sorta di diario familiare, come se noi, i Monina, fossimo gli Osbournes. Una famiglia bizzarra, io mi intrattengo con artisti anche piuttosto famosi, ci lavoro, alcuni sono miei amici, e più in generale è di musica che finisco a parlare, tirando in ballo i vostri beniamini o artisti che magari vi stanno sul culo, ma al tempo stesso una famiglia normale, addirittura tradizionale, un padre, una madre, una suocera, quattro figli. Gli Osbourne, ripeto, dove io sarei Ozzy, ovviamente, quello meno normale di tutti, non dico che si mangia un pipistrello su  un palco, perché da che esiste il Covid il pipistrello è diventato animale da cui stare alla larga, ma comunque quello non allineato, anche dentro la casa, codini e occhialoni rosa, ricordate, comunque la figura paterna, quello che parla di buchi di culo di cavalli, ma poi si commuove per i figli che si alienano lontani dagli amici.

Gli Osbourne, The Osbournes, appunto.

Perché nel corso di queste centosettanta puntate, trasliamo dalla forma diario scritta che ho scelto di adottare a quella televisiva scelta da Ozzy e famiglia, uno a uno i membri della mia famiglia hanno a più riprese occupato la scena, diventando loro malgrado protagonisti del racconto. Racconto di cui io sono la voce narrante, certo, oltre che il protagonista principale, ma di cui loro sono tutti comprimari. Il che, a ben vedere, regala al tutto un patrimonio mica da ridere, perché se si è parte di un nucleo familiare come il mio, converrete, ci sono un sacco di aspetti che entrano di volta in volta in campo.

C’è mia moglie, donna che lavora in una multinazionale, seria professionista che però è molto presente anche come madre, oltre che come moglie. Sì, perché ho anche parlato di me e di lei come parte di una coppia, abbandonando il pudore. Come se di colpo vi avessi invitato a entrare in casa nostra, me e lei, come Marina Abramovic e Ulay, l’amore della sua vita, nudi sullo stipite, per entrare vi siete dovuti strusciare contro di noi, strofinarvi con noi, diventare a vostra volta intimi con noi.

C’è mia figlia Lucia, che frequenta l’ultimo anno di superiori, una giovane donna, e Dio solo sa quanto il femminile sia argomento attuale e quanto sia a me caro. Figlia che per altro male vive lo stare reclusa, troppi gli interessi che ha nel mondo là fuori, troppi gli amici lontani.

C’è mio figlio Tommaso, adolescente che fatica a riaffacciarsi al mondo, impaurito dalla pandemia, certo, ma forse anche dall’idea di diventare adulto.

C’è la DAD, la temibile DAD, e nell’anno dei tanti investimenti sul digitale nulla sembra avere più appeal che raccontare l’epopea di chi si trova a vivere in tanti una vita iperconnessa. DAD che è stata vissuta anche dai gemelli, in terza elementare, la digitalizzazione infantile credo sia qualcosa di più appetibile, oggi, che la formula dell’elisir di lunga vita. E più in generale la narrazione del rapporto genitori figli di età diverse, bambini e adolescenti, credo sia qualcosa mai come oggi di vivo interesse, la genitorialità vissuta sempre più con disagio da chi diventa padre e madre sempre più da “vecchio”, il confronto con una generazione perennemente connessa, quindi con una attenzione frammentaria, anche emotivamente, a complicare le cose.

C’è anche la terza età, rappresentata da mia suocera. Coetanea di David Bowie, certo, ma un po’ meno contemporanea di quanto lo sarebbe stato per me David Bowie, per intendersi.

Ovviamente c’è il Covid, anche quello, c’è la paura per un domani incerto, c’è l’insolita condizione di vivere così tanto tempo insieme, anche una certa quale gratitudine per poter vivere così tanto tempo insieme. Fossi uno di quelli che nei fatti amerei prendere a calci nel culo direi che c’è anche tanta resilienza, ma fortunatamente ho un vocabolario differente, io.

Tanti spunti, li avete letti, e se non lo avete fatto mi spiace per voi. Qualcosa che involontariamente, perché giuro che finché qualcuno non ha citato la parola The Osbournes non ci avevo neanche fatto caso, tanto mi è venuto naturale, andava esattamente da quelle parti, un diario quotidiano che poteva sembrare una sit-com, con le ambulanze a tratti al posto delle risate finte, artisti più o meno noti a fare da comparse, e me e la mia famiglia a governare indisturbati la scena.

Ora, dovendo pensare a cosa andare a fare nel futuro prossimo, in uno scenario di emergenza che si protrae ad libitum, il mondo della musica ancora al palo, lo avrete già capito, è proprio lo step successivo di questo progetto che ho in mente, i Moninas. Una docuserie, si direbbe ora, in epoca SanPa, un diario televisivo, per dirla alla vecchia, la trasposizione di quel che fin qui avete letto.

Un luogo non-luogo nel quale ogni singolo membro della mia famiglia trova il suo spazio, andando a impattare su fasce di pubblico diverso, il mio essere un critico musicale sicuramente peculiarità di partenza, volendo anche bella spinta, ma sicuramente non unica caratteristica presente.

Chiaramente nel mentre proseguirà anche questo diario scritto, perché sono e resto un uomo di parole. Del resto, diciamocelo, The Osbournes o non The Osbournes come metro di paragone, dopo aver seguito un po’ tutti su Netflix The Crown, le gesta della casa reale inglese, seguire le imprese di un seguace di Gaetano Bresci e della sua famiglia non potrà che pareggiare almeno parzialmente il conto. The Moninas, quindi, estote parati.