Un Gioco da Ragazzi di Enrico Ruggeri, Dada di Ivan Graziani e le mie teorie sull’amore

Oggi fidatevi di me e seguitemi senza fare troppe domande


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Oggi vi chiedo di fidarvi di me e seguirmi, senza fare troppe domande.

Non una grande partenza, quella nella quale si chiede al lettore di seguirti ciecamente, me ne rendo conto, ma mi rendo ancor di più conto che non fare questa premessa, oggi più che mai, avrebbe comportato il muovermi su un crinale troppo a strapiombo sul vuoto.

Provo a fare un ragionamento a voce alta, sull’amore. Anche sull’amore. Sull’idea di coppia, più che altro, qui trattata genericamente come coppia eterosessuale, solo per quella forma di praticità che mi viene dal prendere me come esempio, del resto questo è un diario, di me si parla sempre e comunque.

La coppia, dicevo.

Tocca capire se parlando di coppia si deve applicare una somma o una moltiplicazione, credo che la faccenda ruoti tutta intorno a questo principio di base. Parlo dell’essere parte di una coppia, nello specifico una coppia che poi genera una famiglia, parlo del mio caso specifico, questo è il mio diario, ripeto. Ci hanno insegnato sin dalla prima elementare che uno più uno fa due. Lo si dice anche per dimostrare l’ovvio, uno più uno fa sempre due.

Ora, partendo dal presupposto che se le due unità procedessero su vettori perpendicolari il risultato sarebbe altro, io proverei a azzardare che nel caso della coppia la somma non è l’operazione giusta da fare, toccherebbe ricorrere alla moltiplicazione. Nel qual caso, questo credo arriva solo in seconda elementare, uno per uno non fa più due, ma fa ancora uno.

Sembra più una distinzione poetica che qualcosa che abbia attinenza col pratico, ma credo che dopo quasi trentatré anni di vita di coppia, ventiquattro dei quali passati convivendo, ventuno come marito, venti come padre, quindi uscendo dalla questione su cui sto dissertando, su questa faccenda mi sento abbastanza sicuro della mia teoria, al punto da esporla.

So che dire che in una coppia le singole unità danno vita non alla somma delle medesime quanto piuttosto a una unità altra presta il fianco a tutta una serie di critiche e fraintendimenti, ma sarà mio agio specificare cosa intendo, provando a fugare ogni qual si voglia crepa nel mio ragionamento.

Sono dotato di una mia personalità piuttosto complessa e sfaccettata. Senza che sia io a esprimere giudizi a mio riguardo, posso dire che convivere con me non sia una passeggiata, proprio in virtù di ciò. Negli anni che ho passato e sto passando a fianco di mia moglie, Marina, sin da quando lei, Marina, era una ragazza che frequentava l’ultimo anno delle superiori, sono cambiato, molto. Sono cambiato molto anche in virtù del mio esserle a fianco, e del suo essere al fianco mio. Non solo, ovviamente, sono cambiato per quella combinazione irripetibile di motivi che fanno sì che chiunque di noi è ciò che è. Non credo serva fare esempi esplicatori, gli incontri, gli sbagli, gli eventi imprescindibili, il destino, il libero arbitrio, le occasioni colte, quelle mancate, le fortune, le sfortune, le amicizie, i libri letti, i film visti, le scelte fatte, quelle evitate, troppi sono gli elementi che determinano la nostra vita per poterli elencare, figuriamoci se è possibile riordinarli anche a grandi linee.

Per dire, in una di quelle lunghe passeggiate che io e Marina abbiamo fatto poco prima di metterci insieme, nel gennaio 1988, quando era chiaro a tutti e due che di lì a breve ci saremmo fidanzati, ma la paura che il destino non coincidesse appieno con le nostre percezioni ci faceva temporeggiare, in quello che a ben vedere si sarebbe rivelato come un lungo corteggiamento, mi ero innamorato perso di lei sin da quando ci eravamo visti per la prima volta, tre anni prima, in una di quelle lunghe passeggiate che io e Marina abbiamo fatto poco prima di metterci insieme, dicevo, ho pronunciato una frase che potrebbe suonare suppergiù così, parola più parola meno: “Io da grande vorrei fare l’impiegato in un qualche ufficio, non importa quale, un lavoro che mi consenta di guadagnare onestamente abbastanza da poter mettere su famiglia”.

Lo dicevo convintamente, non per posa, anche perché ditemi voi che posa potrebbe essere quella di chi si dichiara del tutto intenzionato a diventare un impiegato quando si ha diciotto anni.

Poi la vita mi ha portato a percorrere altre strade, e la vita che mi ha portato a percorrere altre strade è la vita che ha visto la mia unità, l’uno dell’operazione da cui il mio ragionamento è partito, unita all’unità di Marina, a sua volta divenuta altra rispetto a quel che si immaginava. Non voglio star qui a raccontare i quasi trentaquattro anni di vita insieme, non è il luogo né il momento per farlo, ma nel tempo anche i nostri caratteri sono cambiati, insieme e complementarmente, uno per uno fa uno, credo sia normale che se qualcuno perde un pezzo ci sia l’altro a supportarlo, se uno comincia a prendere una forma l’altro lo segua o lo riprenda, magari ci si perda insieme, avete capito cosa voglio dire.

Quando vi capita di sentir dire la famosa massima “dietro ogni grande uomo c’è una grande donna”, oltre a storcere legittimamente il naso per il grande sessismo che questa massima sottintende, difficilmente nella massima è un grande uomo a stare alle spalle di una grande donna, vi dovrebbe capitare di pensare che la faccenda è spesso talmente ovvia da suonare scontata, perché se l’uomo o la donna in questione è parte di una coppia la presenza e il supporto dell’altra o altro è conseguenza naturale della coppia stessa.

Con questo, non sono affatto interessato a aprire nessun tipo di dibattito a riguardo, sia messo agli atti, non intendo dire che è l’essere parte di una coppia a determinare la singola unità, la coppia è data dal moltiplicarsi delle due parti, non viceversa, ma essere parte di una coppia è una caratteristica che, per chi ne fa parte, è fondante quanto l’essere l’unità che a quella coppia dà vita, non se ne esce. Io sono chi sono e sono chi sono anche nella coppia con Marina. Impossibile e impensabile che io stia qui a distinguere in cosa io sia me stesso in quanto me stesso e in cosa io sia me stesso in quanto l’essere me stesso è parte di questa determinata coppia.

Sia chiaro che non ho fatto l’impiegato, come avevo programmaticamente dichiarato passeggiando per il Viale di Ancona in una non troppo fredda giornata di gennaio nel 1988, e che se vivo a Milano, città nella quale ho avuto modo di capire appieno cosa avrei voluto fare nella vita, non necessariamente sempre riuscendoci, a volte invece riuscendo a fare cose che neanche mi sarei immaginato a bocce ferme, è perché un giorno ho deciso di seguire Marina, che a Milano aveva trovato un lavoro mentre io ero intento a accordare la mia chitarra elettrica, seguire Marina per amore.

Suppongo che Marina, a sua volta, potrebbe spiegare come la sua vita abbia assecondato alcune aspettative e ne abbia proposte di inedite anche per il suo essere parte di una coppia con me.

La presenza dei figli ha poi reso il tutto un’esplosione di ulteriori combinazioni, l’idea di routine e di noia spazzate via già alla prima ecografia, ma questa è altra faccenda.

Ok, dirà qualcuno, Michele ha dato sfogo al suo pensarsi una specie di filosofo, passiamo oltre. Anzi, si dirà sempre quel qualcuno, sono proprio curioso di capire come tutto questo verrà incanalato in un qualsiasi discorso che concerne la musica, perché questa è un po’ la sola regola non scritta di questo diario, che pur partendo da lontano, lontanissimo, e pur tenendo fede al seguire gli accadimenti di questo interminabile periodo pandemico, a un certo punto il discorso confluisca su un argomento musicale, più o meno forzatamente. Questa cosa del forzare la logica, comportarsi come una divinità antica e irascibile che a un certo punto fa un po’ come gli pare è in effetti una possibilità che lascio sempre aperta, come un paracadute d’emergenza per i pericoli imprevisti e imminenti, ma seppur io non sia nuovo a forzare la mano ai miei stessi ragionamenti, riconoscetemi almeno lo sforzo costante di non essere proprio strampalato, alla musica ci arrivo sempre seguendo una logica, fosse anche una logica situazionista e dadaista.

Ecco, per dire, al momento ho davanti un bivio, come in quel vecchio programma presentato dal mio amico Rouge, Enrico Ruggeri, Il Bivio, appunto, e aver tirato in ballo lui, con l’escamotage di citare Il Bivio, mi consente addirittura una terza via.

Posso quindi riprendere il concetto di coppia, nel quale uno più uno non è la via da seguire, convergendo sull’uno per uno, spostando il discorso sull’idea di band nel rock, dove la somma delle singole unità dà vita a qualcosa di altro, prima ipotesi, posso fare un vero guizzo dadaista attaccandomi proprio alla parola dada, iniziando a parlare dell’omonima canzone di Ivan Graziani, Dada, appunto, seconda ipotesi, o posso mettermi a spiegarvi perché col suo nuovo romanzo Un gioco da Ragazzi, uscito a fine anni per i tipi de La Nava di Teseo, Enrico Ruggeri si sia definitivamente dimostrato un grande scrittore, oltre che uno dei più grandi cantautori italiani (e non), terza ipotesi.

Potrei addirittura azzardare un quarto scenario, dando vita a un discorso che metta insieme almeno un paio di quelli ipotizzati, Dada di Ivan Graziani e Un gioco da Ragazzi di Enrico Ruggeri, il detto non-detto dell’essere stati (e tuttora essere) additati come artisti di destra a fare da sfondo, in realtà sfondo che si fa perentoriamente centrale in entrambe le opere, ambientate non saprei dire se casualmente in un periodo temporale identico, i nostri difficili anni Settanta.

Chiaramente, non credo la cosa vi sorprenda, o almeno non più di quanto non vi sorprenda il fatto che per parlare di come due grandi cantautori abbiano affrontato due storie molto politicizzate ambientate negli anni Settanta nonostante (anzi, proprio per) il loro essere considerati di destra io sia partite da una mia singolare teoria riguardo cosa voglia dire essere coppia, la faccenda della band è uscita di scena con la stessa velocità con la quale era fugacemente apparsa tra le righe, lasciando spazio al quarto scenario, quello che sin da principio avevo in mente (il titolo del capitolo, del resto, non è che si trovasse lì per caso).

Partiamo da Dada di Ivan Graziani, allora.

Ora, che Ivan Graziani sia forse il cantautore italiano più sottovalutato è un discorso che non posso permettermi di affrontare così, en passant, ma che vorrei fosse messo agli atti. Che su questo discorso rientri una certa nomea di essere di destra, invece, penso sia assodato e facilmente provabile, altrimenti non si spiega il perché il suo nome non sia mai, dico mai, incluso nel momento in cui si delinea una panoramica su coloro che hanno contribuito a fare grande la canzone d’autore in Italia, con particolare attenzione a chi nel fare ciò ha dato un particolare impeto di originalità, in bilico tra rock e cantautorato, forte di uno stile chitarristico incredibile e di una capacità di raccontare storie unica.

Dada si iscrive alla perfezione nella carrellata di figure femminile cui il cantautore teramano, urbinate d’adozione, ci ha regalato nel corso di una carriera durata troppo poco, la morte ce lo ha portato via troppo presto, nel 1997, dalla Marta di Lugano Addio a Paolina, passando per Agnese, Susy, Isabella e Angelina.

Dada è un brano mid-tempo che racconta le gesta di una ragazza col “viso scuro come un temporale, viso tondo da cherubino in un giudizio universale, bionda come una svedese e fianchi teneri per giocare, un metro e sessanta di dolcezza, ma nata anche per comandare”. Una descrizione così vivida da farcela immaginare, proprio davanti agli occhi. Dada, ci racconta Graziani, aveva il dono di saper parlare e confortare gli altri, è buona, Dada, ripete ossessivamente nel ritornello. Innamoratasi di Yvette, sua cugina senza tette, rima forse scontata, ma non così tanto, considerato che siamo nel 1980, quindicenne, finirà in una brutta storia di droga, in quella da molti indicata come la maniera che lo stato aveva deciso di utilizzare, per mezzo della mafia, per anestetizzare proprio quella generazione in potenza così rivoluzionaria. Per salvare la cugina amante, la loro era un torbida storia tra cugine strette, ci ha detto, andrà dagli spacciatori al posto suo, per salvarla. I due balordi la prendono e la rapiscono, sottoponendola a botte e droga, finendo a sua volta per diventare una tossica. Uno spaccato di vissuto direttamente da quello che è stato il decennio più duro della nostra storia recente, un pò come lo poteva essere Lilli di Antonello Venditti, solo che Dada ne è versione briosa e sincopata, un assolo di chitarra acustica capace di farsi perfetto contraltare della voce caratteristicamente in falsetto del cantautore abruzzese.

Il fatto che io abbia parlato, in senso lato, di tossicodipendenza senza citare SanPa, la serie su San Patrignano e Muccioli disponibile su Netflix, non l’ho citata perché, unico essere umano nella mia bolla social, non l’ho ancora vista, credo renda questo mio parlare alieno, ma tant’è, ne parlerò in seguito.

Come questo brano non venga indicato dai più come una delle più precise fotografie di quell’epoca resta per me un vero mistero, non fosse appunto per quella ridicola voce che lo voleva di destra.

Uno che canta Lugano Addio come potrebbe mai esserlo, mi chiedo da ex residente in Piazza Errico Malatesta?

Essere non allineati, e questo indubbiamente Ivan Graziani era, rispetto a un pensiero unico dominante che intorno al PCI e alle Feste dell’Unità era proliferato, poteva ben valere una accusa di essere fascista, a questo punto quasi una medaglia al merito, retrospettivamente.

Chi ha provato di recente, recentissimo a raccontarci lo stesso periodo, dando una versione altra della meglio gioventù di giordaniana memoria è Enrico Ruggeri, altro cantautore nel tempo indicato a più riprese come destrorso e a sua volta escluso da quei circoli e salottini il cui accesso era concesso solo a chi ha sposato il medesimo pensiero unico di cui sopra, per altro maggioranza tutt’altro che silenziosa.

Essere anarchici, è un fatto, è spesso equivalso a essere visti come altri, quindi come fasci, e essere punk, ha spesso contribuito a rendere anche più ambigua la faccenda, con tutta quella simbologia nazista esibita al solo scopo di scandalizzare e disturbare. Ambire a non essere parte del flusso, torniamo al dadaismo di cui sopra, chiude il cerchio.

Un gioco da ragazzi, dicevo, nuovo romanzo appena dato alle stampe da Ruggeri, racconta le vicende dei fratelli Scarrone, Mario, Vincenzo e Aurora, tre fratelli le cui storie personali e familiari ci accompagneranno dal dopoguerra fino agli anni Settanta, camminando strade divergenti, lontanissime.

Non voglio spoilerare la trama, che è avvincente e che procede con una lingua da narratore di mestiere, oltre che di talento, attraversando la Storia, quella con la esse maiuscola, e andando a cogliere molti nodi del nostro recente passato. Vi basti sapere che Mario e Vincenzo, sono loro i due protagonisti del romanzo, Aurora è una comprimaria utile per portare quel tocco musicale e autoreferenziale che in qualche modo rende ulteriormente tridimensionale il tutto, finiranno per diventare a loro modo protagonisti delle due derive estremiste che quegli anni caratterizzeranno, quindi le Brigate Rosse e l’ultradestra, terreno ancora oggi pieno di insidie e mine, specie se si viene visti come “di parte”.

Qui sta, credo, la grandezza del narratore Ruggeri, riuscire a essere non solo imparziale nel raccontare la storia e la Storia, e perché mai un narratore non dovrebbe poterlo essere?, quanto essere capace di provare la stessa empatia per tutti e due i protagonisti, fatto che per dire meno riusciva alla narrazione a tema di Marco Tullio Giordana.

Cimentarsi con una narrazione così complessa, l’affrontare decenni così convulsi decisamente lo è, così come è complesso raccontare storie che si svolgono in ambienti così distanti, il sottoproletariato, l’alta borghesia, le differenti latitanze, la comprimarietà di nomi e volti che possono essere facilmente decifrabili come quelli degli attivisti politici che in quella scena erano a loro modo dominanti, è impresa epica, tanto più epica perché non necessaria in sé, a meno che non si voglia identificare nell’ispirazione e quindi nella necessità di assecondarla, la scintilla che innesca il motore. Se ci mettiamo che parlare di politica per un artista che ha da sempre nel suo presunto credo politico, ritenuto sbagliato dal giro giusto, motivo di esclusione e ostracismo, si veda alla storica esclusione dal salotto buono del Club Tenco, per dire, si può parlare quasi di gesto suicida, non fosse che il risultato finale mette tutti d’accordo, il gioco è valso la candela, eccome. A seguire l’ispirazione, se si sa come rendere quell’ispirazione opera d’arte, non si può sbagliare.

Ecco, tanto quanto evidentemente avviene nel momento in cui Ruggeri decide di scrivere una delle sue canzoni, anche nello scrivere il romanzo in questione, complice il primo lock down, lo stop forzato alle attività musicali che hanno concesso al cantautore tempo e modo di affrontare le oltre quattrocento pagine del romanzo, Ruggeri ha inseguito l’ispirazione, l’ha trovata e l’ha assecondata, riuscendo a toccare il vertice di una carriera di scrittore che per altro va avanti ormai da una ventina d’anni con buoni risultati di critica e di vendita.

Sono amico di Enrico Ruggeri, sono anarchico, e se qualcuno mi desse del fascista non esisterei a ricorrere alle mani. Anche se mi si dice di sinistra tendo a offendermi.

Con Enrico scherziamo spesso su queste nostre caratteristiche, lui su quella di essere indicato come uomo di destra, voce che ha contribuito non poco nel tempo a alimentare, giocando su certe ambiguità, io su questo mio essere anarchico, quindi erroneamente ritenuto di sinistra. Entrambi comunque assolutamente non allineati, fuori dal sistema, lo sguardo rivolto altrove. Abbiamo anche una foto che ci ritrae assieme, fatta nello studio di Niccolò Fragile, il giorno in cui Enrico venne a incidere la sua parte del brano Quando si parte si parte, scritto da me con Chiara Vidonis e inserito col suo featuring nell’album delle Bikinirama, io che indosso la maglia del West Ham con la quale ho fatto poi la mia prima comparsa in un contesto mainstream, ospite alla prima puntata del Dopo Festival di Nicola Savino e la Gialappa’s, a suggermi a Savino proprio Enrico, mentre imbraccio una inquietante chitarra elettrica a forma di accetta, lui che alza il pugno nel caratteristico saluto comunista.

Qualcuno potrebbe pensare che nelle mie parole su Un Gioco da Ragazzi pesi la nostra amicizia, ne sono consapevole. Tutto vero. Sono amico di Enrico Ruggeri anche perché è l’artista che è, soprattutto perché è l’artista che è, un uomo ispirato e dotato di talento, certo, ma anche libero, mai piegato di fronte a un pensiero dominante, quello di chi preferisce stare comodi nella massa.

Un Gioco da Ragazzi è un ottimo romanzo storico. Dada una bellissima canzone, ancora oggi a distanza di quarant’anni. Io e Marina l’8 febbraio, Dio volendo, festeggeremo trentaquattro anni insieme. Uno più uno in amore come nell’arte non fa mai due, fa sempre uno, un uno diverso, altrimenti inesistente, mai come oggi necessario.