Fenomenologia di un outsider, come Caparezza

Ascolto Caparezza, rifugiandomi nel bello e intelligente, oltre che originale


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“Voglio essere superato, come una Bianchina dalla superauto, come la cantina dal tuo superattico, come la mia rima quando fugge l’attimo. Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo. Superare il concetto stesso di superamento mi fa stare bene.”

Stop.

Così, prima di iniziare.

Ieri mi sono messo a sentire l’ultimo album di Caparezza.

No, non è uscito purtroppo un nuovo album di Caparezza, l’ultimo è Prisoner 709, del 2017. Mi sono messo a riascoltare l’ultimo album di Caparezza perché sono fermamente convinto che in questi tempi cupi infliggerci pene ulteriori sia folle, ma di quella follia malata che non porta nulla di buono, tipo che uno finisce per diventare un invasato di una qualche religione, o, peggio, a leggere Coelho. Per questo ascolto la musica che, per citare proprio la canzone un cui verso si trova come incipit di questo capitolo del mio lock down, per la cronaca il cinquantottesimo, mi fa stare bene.

Visto che ho citato il numero dei capitoli del mio diario del lock down, da tanto sta andando avanti questo delirio del lock down che ho pure smesso di vantarmi dei traguardi raggiunti, vi basti sapere che anche per questo secondo diario ho superato, ormai giorni fa, il milione di battute, arrivando a un complessivo, sommando cioè i centotré capitoli del primo diario con questi secondi cinquantotto, a qualcosa come, battuta più battuta meno, tre milioni e trecentocinquantamila battute, qualcosa come, sempre per restare ai numeri, cinquecentosessantamila parole. Più di Infinite Jest di David Foster Wallace, per intendersi, un libro di quasi millecinquecento pagine. 

Ma i numeri non mi fanno stare bene.

Non li ho citati al momento giusto anche per questo. E farlo ora non ha nessun senso di epicità. Chi se ne frega dei numeri quando è evidente che se continua così avrò modo di battere record che non vorrei affatto battere, baratterei la fine di tutto questo per un black out di scrittura, anche subito?

Al momento mi interesserebbe solo stare bene, ripeto, e per inseguire questa chimera non ho altra soluzione che ascoltare musica che mi piace, leggere autori che mi piacciono, guardare film di registi che mi piacciono.

Cerco la bellezza, e seppur amerei non poco essere sorpreso da bellezze a me sconosciute, tendo a fidarmi più di quelle già conosciute, finendo per tornare sul luogo di crimini già commessi, frequentando opere d’arte che già conosco.

Solo che ascoltando questa canzone, quella da cui questo mio diario ha mosso i primi passi, arrivato esattamente a quelle rime da cui questo capitolo ha mosso i primi passi, mi sono commosso. Sì, ero lì, in studio, a ascoltare Prisoner 709 quando, arrivata la traccia Ti fa stare bene, arrivato il momento in cui, dopo aver sciorinato una rima dopo l’altra alla velocità che tutti sappiamo essere propria di Caparezza, ecco che lui rallenta, andando volutamente fuori tempo, di quello parla quella rima, della volontà, a volte, di fermarsi mentre tutti corrono, in gara, ecco, arrivati a quel punto mi è salito un magone che non sono riuscito a arginare.

Non capita spesso che io mi commuova ascoltando canzoni, quasi mai è successo con Caparezza, artista che amo, col quale ho anche lavorato, insieme abbiamo firmato il libro Saghe Mentali, amico di vecchissima data, più forte quando gioca sull’ironia che quando prova a ridurci il cuore a pezzi. Succede sempre, l’ho citata già più volte, con Per sempre di Ligabue, altro artista che non è esattamente il mio ideale quando voglio lasciarmi andare alle emozioni. C’è un passaggio di quella canzone, nella quale Luciano si guarda alle spalle, in un esercizio di memoria che, lo dicevo proprio ieri, a me risulterebbe difficile, nel quale si sofferma su una scena di vita familiare, lui ancora bambino, una scena che non so se ho vissuto anche io, almeno non in quella precisa successione di gesti, ma nella quale ho riconosciuto una matrice comune, la mia famiglia, la sua famiglia, “Mia madre prepara la cena cantando Sanremo, carezza la testa a mio padre e gli dice: vedrai che ce la faremo”, un passaggio capace di farmi singhiozzare come un vitellino, assai più che l’ascolto di brani che invece mi riconducono a quel periodo perché era in quel periodo che li ascoltavo, penso a Amico di ieri de Le orme, per dire. Forse solo Le case di inverno di Luca Carboni hanno la stessa capacità di trasportarmi indietro nel tempo, riproduce esattamente quella malinconia da cucina illuminata dal neon, ma Carboni in questo è un vero killer, il re della malinconia, artista che amo quasi fisicamente per quella sua capacità di emozionare, con la sua voce trascinata, la zeta arrotata da bolognese, quei testi fatti di piccole immagini pronte a andare in pezzi.  Tutti quei vezzeggiativi buttati lì, mine antiuomo di cui ha cosparso i testi delle sue canzoni più famose, le sorellina, le farfallina, le piccolina. Il ritornello di quella canzone, Le case di inverno, del resto, tira fuori una sequenza di contrapposizioni sulla falsa riga di Silvia lo sai che non lascia scampo: “E sempre troppe, troppe domande, poca attenzione/ e sempre troppe, troppe pretese, e poca fantasia/ E sempre troppi, troppi consigli e poco amore”.

Invece mi sono commosso con Caparezza, io.

Questo potrebbe indurmi e indurvi a rivedere un qualsiasi ragionamento riguardo il mio stato di salute mentale, lasciando intravedere delle crepe cui nessuno ha pensato di passare una mano di vernice dorata, alla giapponese.

Ma nei fatti sono lucidissimo.

Malinconico, certo, ma lucidissimo, e se Caparezza mi ha commosso non è perché inizio a perdere i colpi, ma perché quelle parole le capisco, le conosco, le sento mie e mai come in questo momento.

Non ho mai rincorso il flusso, troppo spocchioso, all’inizio, inspiegabilmente, probabilmente, e forse anche un po’ consapevole di quelle che potevano essere le mie peculiarità, talenti ancora inespressi, troppo vecchio per uniformarmi a qualcosa che evidentemente non coincideva neanche vagamente alla mia visione del mondo, poi.

Mi ci sono trovato a volte in mezzo, e non nego che nel momento in cui mi ci sono trovato, brevemente, ho anche provato l’ebbrezza di una celebrità, quella dell’essere riconosciuto per strada, i sorrisi di chi non conosci, quelli più disinvolti che ti fermano per chiedersi un selfie, come ho provato il conforto, per una volta tanto, di sentirmi parte di un tutto, di una massa, ma c’è voluto davvero poco per capire che non era appunto quello che volevo per me, non ero e non sono interessato a stare lì, nel flusso.

Mi interessa, semmai, essere libero di esprimere quello che penso, consapevole che quello che penso potrebbe anche non coincidere, non coincide quasi mai, con un pensiero comune, mainstream, ma anche lucidamente conscio di avere cose da dire che possono incontrare l’interesse di molti, per cui magari nel flusso ci finisco lo stesso.

Ho già affrontato altre volte il tema di una mia presunta paraculaggine, quel voler essere a tutti i costi, parlo per nome dei miei detrattori, un bastian contrario, quel voler cercare la polemica con personaggi molto seguiti per mettermi in evidenza, l’utilizzo di un linguaggio non convenzionale, sboccato, volgare, politicamente scorretto. Ma seppur tutto questo potrebbe anche essere verosimile, è evidente che se fosse davvero così comodo fare tutto ciò per mettersi in evidenza, slegandolo da quel che poi in effetti dico e scrivo, intendendo con questo i concetti che veicolo e lo stile che utilizzo per veicolarli, converrete con me, non dovrei affatto essere il solo a percorre questo cammino. Dovrei, in sostanza, essere uno dei tanti che mentre tutti alzano le palette in tv, sta altrove a dire che chi alza le palette in tv è un amico a quattro zampe, giocando con una certa comodità sul nome del programma nel quale alzano le palette, Amici, e sul simpatico nome che in genere viene dato ai cani, gli amici a quattro zampe, appunto, nel caso specifico i giornalisti musicali che pur di andare a Amici, sotto le luci della ribalta, non faticano a mettersi a quattro zampe, come si fa di fronte a un padrone.

Così non è.

Tutti corrono, per dirla con Caparezza, io rallento.

Tutti cercano il like o il cuoricino dell’artista a cui hanno neanche troppo dignitosamente umettato le parti intime manco fossero un bidet, io evito anche di andare alle conferenze stampe di questi artisti, perché credo che nella vita tocchi sapere da che parte stare.

Ciò detto, chiarito cioè che non è vero che essere “contro” è più facile che essere nel flusso, ripeto, o sono io il solo a averlo capito, unico genio circondato da colleghi idioti, o è più comodo stare seduti in poltrona come fanno loro, ciò detto, quindi, mi sembra anche evidente che ho scelto uno stile e una forma, quello del politicamente scorretto è solo la superficie, dettaglio anche piuttosto banale su cui soffermare lo sguardo, che davvero poco mi può far indicare come uno che fa l’occhiolino al pubblico, come uno che cerca facili consensi.

Questo per non parlare del sistema nel quale mi trovo, mio malgrado a operare, quello discografico, quello dei live, quello che ruota intorno agli artisti e al loro lavoro, fare dischi, fare concerti.

Essere considerato ostile da discografici che hai criticato, anche ricorrendo a quel politicamente scorretto cui facevo riferimento prima, non è esattamente il modo migliore per essere poi trattato con benevolenza.

Per intendersi, normale che Gino con le Mutande, in casa Universal, abbia messo un veto sulla mia testa, e che di conseguenza io abbia subito un embargo sugli artisti della major francese, almeno quelli che non mi conoscono di persona o che non ritengano che avermi come interlocutore sia per loro utile o anche solo interessante. Volessi una vita comoda eviterei di chiamare Gino con le Mutande così, ma lui è Gino con le Mutande, quello che sfottevamo nelle docce degli spogliatoi dopo le partite di calcio perché si vergognava a togliersi le mutande, lì sotto il getto dell’acqua calda, causa un pisello evidentemente sotto misura, come mai dovrei chiamarlo? Del resto, tra l’essere il giullare di corte che dice che il Re è nudo e la cortigiana che dal Re si fa fare di tutto non ho dubbi su che ruolo interpretare, e il Re è più che mai nudo.

Idem con i concerti, essere quello che ha bastonato come un fabbro, prima per la faccenda dei finti sold out, da Emma ai TheGiornalisti, poi per la faccenda del conflitto di interessi di Salzano con Baglioni a Sanremo, ecco, diciamo che non mi ha fatto ricevere questa marea di accrediti per i tour, e non parlo certo di ora che di concerti non ce ne sono.

Poi c’è la faccenda degli uffici stampa, alcuni dei quali ragionano per scuderie, stronchi Jovanotti e non puoi intervistare Antonacci, mi scuseranno i due artisti citati, perché so che leggeranno queste mie parole per quel che sono, uno sfottò. Ripeto, a voler essere popolari e comodi la via giusta da seguire è quella di stare con gli amici a quattro zampe, ma io non sono in gara con loro, non potrei mai esserlo.

Viviamo poi in un’epoca che tutti descrivono come distratta, frammentaria, priva di attenzione. Il tempo medio che un lettore tipo passa su un articolo online si aggira tra i diciotto e i ventotto secondi, con una percentuale altissima di gente che legge il titolo e se ne esce dalla pagina, a volte neanche ci entra, per questo da un po’ di tempo a questa parte si suggerisce a chi scrive in rete di scrivere pezzi molto corti, massimo duemila battute, con titoli chiari e poche parole chiave ripetute nelle prime due frasi, quelle che poi verranno inserite come tag per i motori di ricerca. Credo non sia necessario ora, alla millecinquecentoquarantatreesima parola di questo pezzo, oltre novemila battute, specificare che sono poco incline a seguire queste indicazioni, con buona pace di chi, tutti i santi giorni, deve passare i miei pezzi.

Sarei ostico anche fossi su carta stampata, con questo mio scrivere frasi molto molto lunghe, piene di relative, spezzate, frammentate, sì, ma di una frammentazione che pretende attenzione, il dover tornare indietro e rileggere, per capire quale era la principale, di cosa si sta parlando.

Ecco, di cosa si sta parlando, raramente affronto l’argomento centrale del pezzo all’inizio, quasi mai prima delle ultime righe del pezzo, arrivandoci sempre con giri tortuosi, complicati. Fossimo di persona io sarei uno che parla a bassa voce, la mano davanti la bocca, per costringervi a avvicinarvi, a stare zitti, aguzzare le orecchie, provare a capire cosa sto dicendo, prendere o lasciare. Alla faccia del fare il fenomeno, quello che vuole a tutti i costi mettersi in evidenza. Provateci voi a mettervi in evidenza tirando scemi chi vi legge, invece che usando un linguaggio piano, di facile fruizione.

Ma non è certo di questo che voglio discutere, non mi interessa specificare quello che per me è ovvio.

Non scrivo come scrivo perché sono dannatamente bravo, lo sono, ma è altra faccenda, scrivo come scrivo perché è il modo che ritengo migliore per veicolare i messaggi che mi preme arrivino, la forma è sostanza, e la sostanza è forma.

Ecco, su questo credo di poter tornare a fare lo spocchioso, Ibrahimovic che guarda il calciatore incaricato di marcarlo con alterigia, sono sicuro che se mai un giorno decidessi anche io di mettermi a quattro zampe non faticherei a mettermi in evidenza almeno per lo stile, perché so scrivere e so scrivere meglio della quasi totalità dei miei colleghi, non fosse altro perché non ho limiti nel farlo e perché aver pubblicato quell’ottantina di libri qualcosa vorrà pur dire. Mettiamola così, visto che spesso per giustificare uno stile sperimentale, e credo che il mio lo sia parecchio, si ricorre a Picasso, non per attinenze precise, ma come esempio chiaro a tutti, andando a dire che è vero che Picasso è diventato famoso con le sue figure sghembe, sproporzionate, storte, ma prima ha dovuto imparare a dipingere seguendo le regole e le proporzioni, salvo poi farne carta straccia, un po’ un modo per dire che non è vero che chiunque saprebbe fare il taglio nella tela di Fontana, infatti è stato lui a farlo, mica uno che passava di lì per caso, ecco, prendendo come esempio Picasso, io scrivo come scrivo, mi state leggendo, lo sapete, faccio figure sghembe, che non seguono le proporzioni, ma anche decidessi di scrivere frasi piane, brevi, incisive, mangerei in testa a molti, se non a tutti.

Vi toccherà credermi sulla parola, purtroppo.

Del resto, questo mio prendere le cose della vita, masticarle e sputarvele sul piatto, come fossi un esquimese coi propri piccoli, o come un qualsiasi animale prima dello svezzamento, può essere letto come il tentativo di rendere la realtà più digeribile, già attaccata dai miei succhi gastrici, già codificata e pronta a essere assimilata, o può semplicemente sapere di vomito.

Voglio andare da un’altra parte, o voglio arrivare dove arrivano gli altri seguendo i miei tempi. Non faccio scoop, e quando ne ho fatti alcuni, sì, li ho già accennati, non fingo una modestia che evidentemente non ho, non ho certo seguito l’ABC del bravo cronista, sono anche in quel caso partito per la tangente, ho divagato, mi sono divertito a perdermi e far perdere con me il lettore. Difficilmente esce una mia recensione nel giorno di uscita di un album, mai ho bruciato un embargo, l’anno scorso addirittura tutto il casino con la lista dei nomi di Sanremo di Amadeus sono finito nella polemica solo perché davo per scontato che gli embarghi non andassero appunto bruciati, scemo che sono. Mi prendo il mio tempo e mentre tutti fanno a gara io rallento, come Caparezza, forse anche per questo poi mi capita di avere stima da una porzione abbastanza consistente di artisti, perché c’è la percezione che a me non interessi tanto stare nel flusso, lì seduto in prima fila, quanto approfondire, parlare anche di cose che in genere neanche vengono menzionate, tipo l’arte, signora mia.

Ecco, l’arte.

Questo capitolo era partito da lì, dall’arte, nello specifico dalle canzoni e dalle canzoni che, in alcuni casi loro malgrado, sono in grado di emozionare. L’emozione è spesso indicata come coefficiente necessario per stabilirne la bellezza, specie da chi di musica non si occupa professionalmente, tutti abbiamo sentito e strasenito i “mi sei arrivato” o i “mi hai toccato l’anima” di cui i talent e i social abbondano. Del resto in una lettura contemporanea del concetto di critica la capacità di emozionare è diventato elemento fondamentale, aprendo ovviamente la gamma di emozioni anche alla parte in genere considerata negativa, il disturbare, il conturbare, la sublimazione del brutto e dell’idea stessa di male. Tendo per mia natura a essere più novecentesco, adorniano, e difficilmente mi riesce di analizzare un brano o un album a partire dalle emozioni che mi suscita, sicuro come sono che spesso le emozioni incappino nei brani e negli album a prescindere da essi, predominandoli, ma è un discorso troppo lungo da affrontare ora, così, en passant. 

Torno quindi a ascoltare Caparezza, rifugiandomi nel bello, bello e intelligente, oltre che originale, e bello che a volte, a sua insaputa, commuove, o almeno commuove me, perché che un brano come Una chiave, sulla cui ispirazione mi spingo a dire c’è un po’ il mio zampino, la storia che raccontavo nel libro Capa-chì, a Caparezza dedicato e con lui presentato a Milano ormai parecchi anni fa, un Caparezza uomo che incontra un Caparezza bambino, riconoscendosi e provando un senso incredibile di simpatia e empatia nei confronti di quel che è stato, seppur Caparezza affronta quello stimolo andando in altra direzione, decisamente più malinconica e emotiva, appunto, di quanto non facessi io in quel racconto.

Riparto da qui: “Voglio essere superato, come una Bianchina dalla superauto, come la cantina dal tuo superattico, come la mia rima quando fugge l’attimo. Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo. Superare il concetto stesso di superamento mi fa stare bene.”

Lungi da me fare l’elogio della lentezza, intendiamoci, non sopporto la lentezza, men che meno lo stare fermi, ma voglio poter essere libero di fermarmi, quando penso sia necessario, o di accelerare. Le gare, come Caparezza, al secolo Michele Salvemini da Molfetta, le lascio con piacere agli altri.