Ho cinquantuno anni. Non so come potrei definirmi, immagino che oggi genericamente io sia annoverato tra gli uomini di mezza età, fatto che tradisce clamorosamente il senso letterale della definizione, dubito che camperò intorno ai cento anni. Un tempo sarei stato un uomo anziano, fossi stato un dipendente pubblico probabilmente sarei anche andato già in pensione, ma siamo nel 2020, ho i capelli lunghi, ancora per poco, per altro, non porto camice e mi occupo di canzonette, sono un uomo di mezza età, e già tanto che non mi definisca direttamente come un giovane.
Ho cinquantuno anni e questo sarà il primo Natale che non passo nella mia città natale, Ancona, lontano dalla mia famiglia di origine. Il primo dopo cinquantuno anni, quindi. Non perché io, a cinquantuno anni, non abbia più la mia famiglia di origine, ho ancora entrambi i genitori e anche un fratello e una sorella con le rispettive famiglie. Non passerò il Natale in Ancona e non potrò quindi passarlo con la mia famiglia di origine perché siamo nel 2020, l’anno del Covid, della pandemia.
In casa siamo in sette, credo che ormai lo sappiano anche i muri, io, mia moglie Marina, i nostri quattro figli, Lucia, Tommaso, Francesco e Chiara, e mia suocera Franca, quindi non soffriremo di solitudine, questa non è una lamentazione, ma non sarà un Natale trascorso nel solco della tradizione, o almeno non della nostra personale tradizione, è un dato di fatto.
Come tutte le famiglie, credo, o immagino, noi avevamo costruito nel tempo una consuetudine, fatta di gesti che sapevamo essere lì, pronti all’uso durante le vacanze natalizie, sempre i medesimi, seppur nel tempo siano intervenute piccole variazioni sul tema, alcun di passaggio, altre destinate a diventare a loro volta consuetudini.
Per dire, nel corso degli ultimi non saprei più dire quanti anni abbiamo preso l’abitudine di passare le feste natalizie non solo con la nostra famiglia, ma con quella di mia cognata, Michela, la sorella di mia moglie, con suo marito Diego, i loro figli Emma e Jacopo, e con i suoi suoceri, Pino e Bruna. Il marito di mia cognata, a sua volta mio cognato, sono uno strano tipo di maschio che sa i nomi delle parentele acquisite, ebbene, è figlio unico, ovvio che i suoi genitori venissero da Milano in Ancona per trascorrere almeno i giorni stretti delle feste con noi e soprattutto con lui.
In genere, Ancona è nel centro Italia, da noi si festeggia già a partire dalla vigilia. Cena a base di pesce, che un tempo era il pane quotidiano di chi è nato in una città di mare, dico una ovvietà ma che col tempo è diventato qualcosa di prezioso, destinato più ai giorni di festa che al resto dell’anno. Mia suocera è molto brava a cucinare, e per l’occasione iniziava a preparare settimane prima, da che ha preso l’abitudine a svernare con noi, per darci una mano coi gemelli e per non soffrire di una solitudine che l’inverno acuisce, lei è vedova, ha iniziato a scendere in Ancona già ai primi di dicembre, così da preparare tutto il necessario per tempo, senza fretta. Non solo quello che si mangia alla vigilia, per intendersi, ma anche nelle altre feste, compresa tutta una serie di dolcetti che finiranno a albergare le nostre colazioni, i nostri pomeriggi passati a giocare in casa, i lunghi dopocena. Durante le feste, infatti, la televisione diventa quasi bandita, si passa il tempo a tavola, a mangiare, molto, ma anche a fare conversazione, a far giocare i più piccoli. A me giocare non piace. Mi annoia parecchio. Lo faccio, perché ho quattro figli, ma fosse per me non lo farei. Non sono neanche un tipo da luna park, per dire, e lì faccio meno, perché quando capita che ci si vada mi limito più che altro a essere quello che guida la macchina e poi aspetta sotto, facendo inutili foto alle giostre, foto che poi finiranno in folder dentro un hard disc e che nessuno guarderà mai. A Natale, invece, gioco, sempre tranne che il pomeriggio del 25, dove in genere vado a dormicchiare in camera, tanto il pranzo va per le lunghe e se si gioca lo si fa più che altro dopocena.
La cena della vigilia, quindi, apre le danze, e in genere finisce sempre intorno a mezzanotte, quando, per tradizione, si mette Gesù bambino della mangiatoia del presepe, si dice una preghiera e si torna a tavola, iniziando a giocare.
Ma il vero inizio, quello formale tipo la torcia che irrompe nello stadio alle Olimpiadi, almeno fino a quest’anno, e da che abbiamo i bambini, è l’arrivo di Babbo Natale. Mia suocera, quando mia figlia e sua cugina, tre anni meno di lei, erano piccole, ha comprato un abito da Babbo Natale, e da allora ogni anno qualcuno di noi si maschera per portare i doni, mai scoperto dai più piccoli. Un segreto che, va detto, nonostante le liti furibonde che spesso avvengono tra fratelli, non è mai stato tradito da nessuno, addirittura nessuno dei figli grandi, che ovviamente non ci credono più da anni a Babbo Natale, ha mai chiesto chi fosse a vestire quei panni, ignoro che non fosse sempre la medesima persona. Nel tempo ha vestito l’abito rosso con il cappello e la barba bianca mia suocera, mio padre, io, mio cognato e una serie di vicini. Unico anno in cui la cosa ha vacillato, rischiando di interrompere non solo bruscamente una tradizione, ma infrangere un sogno, quello di chi crede o finge di credere o vuole fortemente credere nella magia di Babbo Natale, è stato quando mia suocera ha ben pensato di chiedere di travestirsi al cingalese che abita al primo piano, il quale, piuttosto perplesso, ha accettato. Non solo quell’anno abbiamo rischiato che i nostri regali, consegnati come sempre nel pomeriggio adottando tutta una serie di sotterfugi, venissero consegnati a tutti i condomini, perché il cingalese in questione ha iniziato a suonare a partire dal primo piano, noi siamo al terzo, ma il top è stato quando, di fronte alla perplessità dei nostri piccoli nel trovarsi di fronte un Babbo Natale di colore, a lui è caduta la barba, appiccicata male. Abbiamo ovviamente dovuto raccontare tutta una serie di menzogne sul fatto che fosse uno dei suoi aiutanti, inventando notizie di rallentamenti sull’autostrada e altre idiozie del genere, e alla fine la cena e la felicità per i regali ricevuti ha fatto sì che la perplessità venisse metabolizzata, ma è stata davvero dura. Per il resto tutto è sempre andato bene. I figli piccoli, di volta in volta, hanno sempre scritto bigliettini e preparato regali che Babbo Natale ha preso, seppur con il tempo la visita sia durata meno, per paura di essere riconosciuti.
Quest’anno non ci sarà Babbo Natale. Non abbiamo parenti o amici nel palazzo, non abbiamo neanche la confidenza per provarci, sebbene Marina abbia per qualche tempo ipotizzato di andare dai nostri vicini del piano di sotto. Del resto i compagni di classe dei gemelli non hanno mai visto Babbo Natale, finendo per trovare i doni sotto l’albero la mattina del 25, così da sempre abbiamo raccontato loro che essendo Milano una città più grande Babbo Natale passa di notte, per non doversi fermare con tutti. Quest’anno andrà così anche da noi, i gemelli già se lo stanno raccontando, non saprei neanche dire se perché ci credono ancora o fingono di crederci per proseguire a loro volta una tradizione, o non ferire noi grandi.
La cosa mi turba, ben sapendo che ci sono ben altre faccende che meriterebbero di turbarmi assai più del venire meno di una tradizione familiare. Mi turba perché, come non saprei dire quanti altri natali passerò coi miei genitori anziani, non saprei dire per quanti altri natali ci sarà questa faccenda di Babbo Natale che porta i regali, immagino in questo secondo caso pochissimi. Vedere i figli che crescono, specie se crescono bene e in salute, è una gioia, ma è anche un turbamento, perché li vedi staccarsi da te, e il mondo là fuori non è che sia esattamente un posto ospitale. Una cosa strana, che credo abbia anche a che fare con l’invecchiamento, una cosa strana che non ho voglia di approfondire ora. La cosa, comunque, mi turba. Ho pensato di chiedere a qualche amico milanese che non avesse da fare la sera della vigilia, qui a Milano non è che siano esattamente i più grandi appassionati di festività, direi, da quel che mio cognato, milanese, mi ha raccontato. Rispetto alle nostre tradizioni sono ai minimi sindacali, mica è un caso che i suoi genitori siano sempre venuti con grande piacere in Ancona. Ci ho pensato, ma i miei amici milanesi sono tutti milanesi di adozione, o di seconda generazione, festeggiano esattamente come noi. Forse il solo milanese milanese che io frequenti è Enrico Ruggeri, a avere un Babbo Natale interpretato da lui sarebbe anche stato figo, ma mi sono guardato bene dal dirglielo, ha una figlia dell’età dei miei gemelli, suppongo anche lei crederà a Babbo Natale e comunque vorrà festeggiare la vigilia con lui.
Un paio di anni nei quali sembrava non ci fossero amici in grado di vestire i panni di Babbo Natale, per qualche tempo lo ha fatto il mio amico Massi Di Prenda, batterista di lungo corso di tante band delle mie parti, ma proprio il suo essere batterista in tante band lo vedeva impegnato anche in quella particolare serata, Marina ha pensato di chiederlo a un nostro conoscente di lunga data, frequentato quando eravamo entrambi giovanissimi, Massimo. Il motivo per cui Marina ha pensato a lui, confesso, è buffo, sapeva che era volontario presso la Croce Gialla, che è il servizio di ambulanze della nostra città natale, e da qualche parte doveva aver letto che in alcune città la Croce Rossa, che però non è la Croce Gialla, facesse questo servizio. Il primo anno Massimo, contattato su Facebook, un po’ perplesso le ha detto che no, lui non faceva questo tipo di servizio, le ha detto che nessuno faceva lì questo tipo di servizio, peccato. Il secondo anno ha risposto in maniera un po’ piccata, forse perché è di piuttosto corpulento, e magari ha pensato che dietro quella seconda richiesta in due anni si nascondesse una volontà di prenderlo in giro. Il terzo anno non ha proprio risposto, fatto che ha reso il suo nome, nel nostro vocabolario familiare, il corrispettivo di chi tiri in ballo a sproposito.
Niente Babbo Natale, quindi, i regali si troveranno sotto l’albero la mattina del 25. Regali tutti comprati online, alla faccia del cashback, di mettermi in fila nella ressa di Corso Buenos Aires o dentro un qualche centro commerciale, immagino mi capirete, quest’anno non avevo voglia. Per altro l’online ha risolto quella strana caratteristica tipica dei miei figli, scrivere nelle famose letterine indirizzate in Lapponia sempre cose rarissime, introvabili, in alcuni casi anche inesistenti.
Se comunque la cena della vigilia è sempre stata storicamente di pesce, quando vivevo coi miei era a base di stoccafisso, e lo stoccafisso all’anconetana è stato indicato credo dall’ultima enciclica papale come una delle prove tangibili e commestibili dell’esistenza di Dio, il pranzo di Natale è a base di cappelletti in brodo, badate bene, cappelletti, non tortellini, agnello fritto con contorno di gobbi (ignoro il nome italiano di questa verdura, credo sia cardi) e tutta una serie di antipasti e contorni molto gustosi. Mia suocera ha iniziato a fare i cappelletti ormai settimane fa, da quando, cioè, si è capito che saremmo rimasti quassù, seguendo una ricetta che risale nelle generazioni (lei è abruzzese, e i cappelletti fanno parte della tradizione di Ancona, ma mio suocero era di Ancona, suppongo glielo abbia passato sua madre, cioè la suocera di mia suocera, guarda te che sfoggio di parentele).
In genere, da che abbiamo questa consuetudine di passare le feste con la famiglia di mia cognata, noi andiamo a pranzo dai miei parenti, quasi sempre mia sorella, il 26, perché poi la famiglia di mia suocera resta poco e ritorna su a Milano. Quest’anno non passeremo le feste neanche con lei, che come noi resterà a Milano. Saremmo troppi, e in tutti i casi nessuno di noi ha intenzione di mettere in qualche modo a repentagli gli altri.
Questa cosa del non poter stare vicini è un po’ agghiacciante. Anche guardare a chi decide di comportarsi diversamente da noi è agghiacciante. Mi mette tutto a disagio. Io vivo con altre sei persone, non sono in grado di mettermi nei panni, per dire, di chi vive da solo. Non lo riesco a fare, ma neanche voglio farlo. E non vorrei che chi magari viva da solo e decida di passare le feste coi suoi, anche contravvenendo a certe regole, si senta in diritto di giudicare me, che non andrò a vedere i miei cari a quattrocento chilometri da me. Credo che sia tutto complicato, e che il disagio di fondo che stiamo vivendo tutti dovrebbe spingerci a guardarci con compassione, non con ostilità. Lo so, sembro come colto da un impeto di bontà ingiustificabile, dovrei o alzare la voce contro quelli che se ne fregano di tutto e tutti, chiamandoli magari anche a sproposito negazionisti, o invece gridare alla dittatura sanitaria, lamentarmi delle privazioni democratiche, invocando una sorta di rivoluzione contro chi se ne frega di noi che dovremmo poter passare almeno il Natale coi nostri cari. Ma non ce la faccio, sono stanco, e soprattutto già il mondo mi sembra così poco accogliente, in questo momento, perché dovrei metterci anche del mio?
Questo sarà un Natale strano per tutti.
Per me sarà il primo Natale passato a Milano, lontano dai miei genitori, lontano dai miei cari, lontano dai miei amici, anche dalla mia città, città dalla quale sono partito in esilio ormai ventitré anni fa, ma nella quale ho sempre fatto ritorno almeno per feste e vacanze estive, lontano dal mio mare.
Questa del mare d’inverno, torno a citare Enrico Ruggeri, la seconda volta nel giro di poche righe, è una cosa che, immagino, chi non ama il mare non può capire. Ora, partendo dal presupposto che fatico a pensare che esistano persone che non amino il mare, ma del resto ci sono persone che apprezzano il reggaeton, il mondo è davvero un posto strano, credo che per chi come me vive in una metropoli, per di più una metropoli come Milano, sprovvista di prospettive, tutta piatta, senza la possibilità di vedere l’orizzonte se non nei rari squarci tra i palazzi che consentono di buttare lo sguardo in lontananza, dai miei balconi si vedono i monti, per dire, ecco, credo che per chi come me vive in una città come Milano non ci sia niente come il mare in inverno in grado di riconciliare con l’idea di natura. Assai più di una qualsiasi passeggiata per monti o per colline. Il mare d’inverno, Rouge ha detto tutto quel che c’era da dire a riguardo, è davvero qualcosa che ti riconcilia con un’idea di natura, passeggiarci con la famiglia, Portonovo la nostra meta fissa, è una delle altre tradizioni che non potremo onorare, e di questa cosa mi struggo come delle altre. Certo, non andremo neanche a Loreto, una visita alla Santa Casa era tappa fissa, né andremo in uno dei tanti paesini dell’entroterra a vedere presepi storici o presepi viventi. Magari ne troveremo anche da queste parti, sicuramente non di presepi viventi, sia chiaro, sempre che non ci murino definitivamente dentro casa, ma il mare, beh, quello non potremo certo trovarlo in Lombardia.
Ho sempre dichiarato che di questo mio esilio lombardo è il mare, oltre che ovviamente le persone, anzi, subito dopo le persone, a mancarmi in modo particolare. Il mare che è sempre lì, difficile non vederlo anche rimanendo in città, circondata come è Ancona dall’acqua, in estate come in inverno.
Passeremo qui anche l’ultimo dell’anno, a ben vedere, seppur questo sia nel tempo accaduto, a volte. Quando i bambini erano piccoli, nel caso dei gemelli addirittura nel 2011 avevano tre mesi, era normale rimanere in casa, mica si poteva andare da amici o per ristoranti. Certo, l’assenza degli amici, in questo caso, si farà sentire. E dire che da festeggiare per la fine di questo 2020 ce ne sarebbe davvero tanto. Certo, viste le cose come stanno, non è che guardare al 2021 sia esattamente un esercizio di ottimismo, almeno non a breve portata. Arriverà il vaccino, e a questo guardiamo tutti con estrema speranza, ma nel mentre ci saranno altre restrizioni, ne sono certo pur non essendo dotato di quello spirito nichilista che ben incarna il professor Galli, arriveranno altri tempi bui.
Qualcuno avrà notato, forse, che in questo mio parlare di tradizioni, che si perderanno momentaneamente quest’anno, o che si perpetueranno nonostante le avversità, non ho praticamente mai parlato di musica, che è un po’ il leit motiv di questo mio diario online, al pari della pandemia e del nostro vivere la pandemia. Potrei fare anche un’eccezione, almeno per oggi, è saltarla a piè pari, tanto è ovvio che era del Natale e del Natale in cattività, uso un termine duro solo per sottolinearne l’anomalia, che volevo parlarvi. Ma in un’epoca che vede regole nuove impartiteci o suggeriteci praticamente ogni settimana, direi che almeno quelle che ci siamo create da soli non possiamo che continuare a coltivarle come piante forti che un giorno daranno buoni frutti, per cui in chiusura vorrei parlare di un argomento che natalizio lo è tanto quanto i cappelletti, i doni portati da Babbo Natale e le nostre passeggiate al mare, dopo pranzo: i dischi natalizi.
Da noi, in Italia, questa non è una tradizione. Quasi nessuno dei nostri cantanti ne ha fatti o ne fa, nonostante il nostro sia il paese per tradizione più cattolico al mondo, quello che ospita la città che include il vaticano, Roma, città che ha per vescovo il Papa. Non che non ci piacciano in generale i canti di Natale, non ho riprove a riguardo, evidentemente non piacciono ai nostri artisti, o non piacciono ai nostri discografici. Nei fatti quasi nessuno ne ha fatti, mi vengono in mente, negli anni, Canzoni per Natale di Irene Grandi, nel quale la cantante toscana passava agilmente tra classici e brani della nostra recente discografia pop, sempre a tema natalizio, mettendo nello stesso lavoro Nico Fidenco e gli Smashing Punpkins, mi viene in mente un disco recente di Laura Pausini di qualche tempo fa, presentato a Disneyland Parigi, ma è quasi Natale, della Pausini vorrei non dover parlare, come non mi sembra sia il caso di parlare del lavoro da poco sfornato da Valerio Scanu, non intendo diventare più buono solo perché arrivano le feste, ma neanche mi voglio dover fare il sangue amaro. Poi ci sono opere sulla falsa riga dei lavori americani, da Christian De Sica a Sergio Sylvestre, ma passando per Mina e Bocelli, ma a quel punto tanto vale ascoltarsi i vari Frank Sinatra, Bing Crosby o, perché no, Michael Bublé.
Poi, certo, ci sono state tante canzoni di Natale, giorni fa vi parlavo di quella appena pubblicata da Gianni Togni, anzi, ripubblicata da Gianni Togni, La luce delle stelle, o tutte quelle sfornate da Radio Deejay coinvolgendo artisti di casa nostra, ma un album di Natale è un album di Natale, certo, pensando che all’estero c’è stata Do They Know It’s Christmas Time della Band Aid, o le varie Mariah Carey con All I Want for Christmas is You o Last Christmas degli Wham, per non finire a citare Happy Christmas (War is Over) di John Lennon e Yoko Ono, beh, ci siamo capiti.
Ma siccome a Natale, almeno, voglio essere propositivo, eccomi a citarvi due lavori che, così, per dire, potrebbero essere la vostra colonna sonora durante una tombolata fatta su Zoom o un giro a Mercante in Fiera giocato su Google Meets.
Il primo è A Merry Little Christmas di Paola Iezzi, album che si iscrive a pieno titolo nella tradizione angolosassone degli album a tema natalizio, e che ci regala una Paola Iezzi in grande spolvero, fedele agli originali ma capace con i suoi arrangiamenti lineari e la sua voce così calda di non sfigurare di fianco a tali e tanti epigoni. Un lavoro che ho apprezzato quando è uscito, 2018, e che è diventato un must nella nostra discoteca casalinga nei giorni di festa, al fianco di quello di Michael Bolton e di Aaron Neville (artista mai abbastanza citato quando si parla di canto e di canto che scalda l’anima). Sempre a tema natalizio, ma decisamente meno filologicamente aderente alla tradizione è Il regalo di Natale di Enrico Ruggeri, toh, sempre lui, album datato 2007 e nel quale a fianco di brani tematici inediti scritti per l’occasione e sempre in qualche modo aderenti al tema natalizio, c’è una rilettura in chiave punk e rock di alcuni grandi classici della tradizione, perché nonostante quel che si dice si può scherzare coi fanti ma anche coi santi, almeno con Santa Klaus.