Questa faccenda di considerare le macchine, un tempo le tastiere, oggi proprio le macchine intese come i device e i software che girano dentro i device, come qualcosa di inumano e robotizzato, mentre le chitarre elettriche come qualcosa di fisico, corporeo, diciamolo onestamente, è una sorta di leggenda metropolitana cui abbiamo deciso di credere e che abbiamo, quantomeno ho, contribuito a divulgare, ben sapendo che non avesse nessun tipo di senso logico. Una leggenda metropolitana che per altro poggia tutta sul fatto che dietro alla chitarra ci siano mani che si muovono, certo, senza però tenere conto di quanto la tecnologia sia fondamentale per riprodurre quei suoni, e di quanto le mani si muovano anche sulle macchine, oggi, sui synth, ieri.
Certo, a aiutare in tal senso, c’è stata tutta la poetica che intorno a certa musica elettronica ha girato, quel senso di alienazione che la ripetitività meccanica di certi suoni ha sicuramente veicolato, volendo anche l’immaginario che certi contesti hanno esibito, dall’uomo robot incarnato ai Kraftwerk in qua, passando proprio da come quelli che suonano le macchine, non fatemi ripetere sempre la trafila, hanno scelto per loro, le montagne di tastiere che si affastellavano le une sulle altre, quasi a voler rivendicare una autonomia che era appunto da contrapporre alla solida line-up della rock band.
Sto ovviamente semplificando, se volete capire meglio di cosa vado parlando ci sono saggi assai più illuminanti delle mie parole, come Futuromani di Simon Reynolds, per dire. Ma è piuttosto evidente di come l’ipotetica dicotomia tra musica elettronica e rock tradizionale, quello suonato dal quartetto tipo chitarra, basso, batteria e voce, sia poco più che un cliché usurato, poco credibile e al limite buono come punto di partenza per provare a costruire qualcosa di più solido che porta decisamente altrove.
Trasmettere emozioni che siano identificabili come emozioni più “calde”, la passione, l’attrazione fisica, la rabbia, la felicità, non significa essere più umani che affrontare di petto l’alienazione, la cupezza, il gelido senso di ansia del vivere nelle metropoli, nessun contatto con la natura, vuol più che altro dire avere la possibilità di affrontare una serie di tematiche invece che altre.
Anche questa balzana idea che la ripetitività della musica elettronica sia qualcosa che non preveda l’apporto umano fa piuttosto ridere, va detto, e se procedere per progressioni meccaniche sempre uguali a se stesse fosse davvero qualcosa di robotico e poco emozionante, beh, con buona pace di molti il funky di una Sex Machine di James Brown andrebbe annoverata tout-court nella categoria in questione, e dire che parla decisamente d’altro.
Dato per assodato questo, e so che il discorso fatto da me potrebbe sorprendere qualcuno, la faccenda andrebbe spostata anche dentro il micromondo del rap, lasciando debitamente da parte l’hip-hop e tutto quello che questo concerne, per quanto sia possibile parlare di rap senza tirare in ballo questa filosofia di vita e le discipline che storicamente di questa filosofia sono state espressione.
Oggi impera la trap. Un genere che dal rap deriva, e che in qualche modo ne è parte, estensione, tanto quanto il punk è parte del rock, per intendersi. Non voglio soffermarmi troppo su come la trap non sia, a mio avviso, evoluzione del genere, quanto piuttosto cristallizzazione dell’essiccarsi di una falda acquifera che in passato è stata vivida e vitale, essenziale non tanto in quanto ridotta all’osso ma in quanto fondamentale per l’esistenza della musica tutta, detto in una parola sola, l’involuzione di un genere, quella che, non fosse il rap ormai in circolo da qualcosa come una quarantacinquina d’anni, potrebbe sancirne la morte cerebrale, voglio piuttosto provare a specificare come la trap sia l’involuzione del rap ma non per il suo fare massiccio uso di macchine, perché sarebbe come dire che il calcio moderno è decisamente meno interessante e poetico di quello del passato perché ora i calciatori sono tatuati e hanno le basette a punta invece che per l’ipercineticità degli schemi, quella forma di costante esibizione di potenza fisica che ha aumentato i dismisura i ritmi, uccidendo in qualche modo la fantasia e anche la possibilità che l’imperfezione entrasse in scena attraverso chi ha fatto dell’arte una scelta di vita, meravigliando avversari, compagni di squadra e spettatori.
Col che, sia chiaro, non voglio certo difendere d’ufficio basette a punta e tatuaggi, come direbbe Frank Sinatra, “non esco con ragazzi che indossano gli orecchini”, traslando le basi fatte con macchine di buona parte della musica trap, quanto piuttosto sottolineare come tra manipolare vinili usando due piatti, usare loop e lavorare le basi direttamente coi software del momento non vedo questa fondamentale differenza di fondo, sempre di uomini che mettono idee e mani su macchinari si tratta, così come sempre di uomini che attraverso un microfono, con o senza autotune, anche lì, poco cambia, l’autotune va comunque usato, non è che il primo che passa potrebbe spararci dentro parole ottenendo qualcosa che sia neanche blandamente musicale, infilano parole dietro parole, costruendo barre, parole che esprimono concetti, e forse qui sta il punto dolente, togliete pure il forse, finendo per creare canzoni che sono un giusto mix di musica, testo, produzione, arrangiamento.
Ripeto, non sono le maniche di loro a rendere poco appassionante la trap, e uso la parola passione lasciando a voi il compito di fornirla della massima gamma espressiva possibile, tanto quanto non sono gli effetti speciali a rendere più o meno emotivo un film. La forma dell’acqua o Il labirinto del fauno di Guillermo Del Toro sono film molto poetici, e fanno abbondante sfoggio di effetti speciali, per contro credo che tutta la filmografia di Brignano non ne faccia ricorso, ma sia decisamente meno poetica, per non citare il magico mondo della Pixar, certo non fatto da falegnami e fabbri, e non per questo incapace di metterci tra le mani le nostre emozioni come fossero legno e ferro battuto. Ditemi che non avete pianto nella scena nella quale Bing Bong si sacrifica per salvare la sua giovane amica in Inside Out e vi posso comunicare senza ombra di dubbio che siete morti, fatto che farebbe di me una sorta di versione ultracinquantenne del bambino de Il Sesto Senso.
A proposito di film, l’altra sera per abbruttirmi un po’, cioè per staccare decisamente la testa da quel che gira intorno, lasciare che per un paio d’ore il mondo scomparisse, letteralmente, dall’orizzonte ottico, ho guardato un film scemo su Netflix. Un film molto scemo, di quelli che, se mai fosse capitato di andarlo a vedere al Cinema, cosa che confesso non è mai successa, lo dico più con vergogna, a questo punto, che con malcelato orgoglio intellettuale, avrei dovuto andare a vedere camuffandomi d’aspetto, come se stessi per compiere un qualche crimine contro l’umanità. Il film in questione, Underground 6, un film d’azione vagamente superomistico, una via di mezzo tra XXX e Fast and Furious, più il primo che il secondo anche se i primi venti minuti sono una lunga scena di inseguimento automobilistico a Firenze, interni degli Uffizi compresi, un film brutto con una sola peculiarità degna di essere chiamata originale, l’assenza inspiegabile di Vin Diesel nel cast, gioca su cliché un tempo eversivi, oggi assai consueti, di personaggi “cattivi” eletti al ruolo di eroi. Un mero esercizio di stile formale che vede un utilizzo manieristico del politicamente scorretto, niente di neanche vagamente avvicinabile alla profondità di certi antieroi usciti dalla penna di un Alan Moore o di un Frank Miller d’annata, Christopher Nolan ha probabilmente detto a riguardo tutto quel che c’era da dire, ma nel caso specifico era esattamente quel che stavo cercando: abbruttimento asettico, azione appena mascherata da altro, sempre e solo in superficie, senza anima.
Come in una delle sequenze iniziali di quel film sterzo giocando con freno a mano e frizione, invertendo il senso di marcia e lasciando che i miei inseguitori vadano a schiantarsi contro il David di Michelangelo, tra ralenti alla Matrix e musica assordante in sottofondo.
Ho quattro figli.
Ne parlo sempre, immagino lo sappiate di già. Lucia, diciannove anni, Tommaso, quindici, e i gemelli Francesco e Chiara, nove. Quindi sono esattamente diciannove anni e qualche mese che sono un genitore, un padre nello specifico. Loro, i miei figli, sono spesso entrati nei miei scritti, per questo li conoscete già, i cito spesso e ho fatto della mia vita quotidiana una parte fondante del mio immaginario di scrittore. Come ho avuto anche troppe volte modo di raccontare, l’essere padre di una bambina che stava iniziando a diventare una ragazzina, una decina di anni fa, mi ha spinto a ideare Anatomia Femminile, progetto legato alle cantautrici che ancora oggi coinvolge decine e decine di artiste, in forme e contesti vari.
Sono un padre, ma sono anche uno scrittore e un critico musicale, non poteva che andare così.
Ho quattro figli, quindi, e sono uno scrittore che nel corso di ventitré anni ha pubblicato ottanta libri, ma nessuno di questi ottanta libri era scritto per loro.
Ovviamente non è vero, almeno non del tutto. Ho scritto tutti i libri per loro, almeno tutti quelli che ho scritto da che sono nati, a rileggere le dediche che su quei libri si trovano si capisce di volta in volta chi era già parte della mia famiglia, lo dico quasi con un senso di tenera malinconia per la mera constatazione dell’incedere del tempo, implacabile, li ho scritti per loro nel senso che tutto quello che ho scritto è senza ombra di dubbio quel che voglio lasciare in questo mondo, in termini di parole, e chi più di loro potrebbe mai essere vicino alla mia idea di lettore?, e li ho scritti per loro perché scrivere è il mio lavoro, è con la scrittura che ho contribuito alla nostra sussistenza, al pari di quanto mia moglie fa col suo lavoro, a tratti di più a tratti di meno, il lavoro che faccio è assai soggetto a sbalzi e picchi, senza lei con un lavoro fisso mai avrei potuto permettermi di fare il lavoro che faccio, ma non ho tecnicamente mai scritto un libro che fosse indirizzato a loro al momento in cui ho uscito. Detto in parole povere, non ho mai scritto libri per bambini o per Teen, e seppure i miei figli abbiano in alcuni casi letto alcuni miei libri, il tutto è accaduto forzando decisamente delle regole non scritte, bambini e adolescenti hanno cioè letto libri che teoricamente erano rivolti a un pubblico adulto. Fermi tutti, per pubblico adulto non intendo “maggiorenne”, come per certi film vietati ai minori, insomma, ci siamo capiti.
Comunque, quando mia figlia Lucia, ormai qualche anno fa, si è letta Milanabad, il mio unico romanzo ambientato a Milano, per altro proprio a tematica rap, ho costantemente ripensato a quel che mia madre mi ripete ogni volta io faccia un post particolarmente duro o volgare sui social: “ricordati che hai figli piccoli che potrebbero leggerti”.
A dirla tutta non è esattamente vero che non ho mai scritto pensando ai più piccoli.
Ho scritto dei racconti per loro, uno l’anno da sette anni a questa parte, per un libro Equo & Solidale che la scuola dei miei figli, quella che da tredici anni è la scuola dei miei figli, prima scuola primaria dei due più grandi e, dopo un solo anno di pausa, ora scuola primaria dei gemelli, promuove da anni per sostenere di volta in volta delle Onlus in giro per il mondo. Un libro che vede raccolti i contribuiti di alunni e alcuni genitori, sempre con un tema di fondo da sviluppare ognuno per come meglio ritiene, un libro che poi viene venduto alle famiglie degli alunni, un modo concreto per fare qualcosa non solo di simbolico. Sette racconti, in alcuni casi raccontini, questo ho scritto pensando a un ipotetico pubblico di lettori bambini, niente di più. Una volta si parlava di tetti, una volta di biciclette, un’altra di diversità. Sette racconti, in diciannove anni, neanche Salinger è stato così parco.
Ma ho tante volte pensato di scrivere un romanzo per bambini. Così, senza un preciso intento editoriale, io che non mi sono mai ritrovato a tenere fermo nel cassetto un libro scritto. Un romanzo da mettere in un mercato che in realtà poco conosco, quello dell’editoria per l’infanzia, ma più che altro una storia che attingesse al mondo che mi ritrovo a frequentare assai spesso, quello dei più piccoli, e che avesse nel mondo nel quale mi muovo professionalmente, la musica, il sottofondo.
Anni fa, ma parliamo davvero di un’altra era geologica, credo fosse nata la sola Lucia, ho trattato a lungo per un progetto dal titolo Downtown Rap con un editore che si occupava appunto di libri per bambini. Anzi, a dirla tutta era un editore che provava a aggredire, primo in Italia, quel mercato rivolto ai Teen che di lì a breve avrebbe avuto un’esplosione senza precedenti, complici fenomeni come Harry Potter o Twilight, il mio citare questi must tradisce appunto la mia totale estraneità a questo ambiente, stava quindi cercando storie che fossero rivolte a quella fascia di età che frequenta le scuole medie, al limite gli ultimi anni delle elementari. Storie quindi un minimo più articolate di quelle rivolte ai più piccoli, con un linguaggio più stiloso, tematiche attuali, personaggi empatici ma credibili.
La storia che ho proposto, e il fatto di proporre una storia era e è per me qualcosa di davvero inedita, perché non sono solito presentare progetti troppo sviluppati, niente scalette, niente primi capitoli da dare in lettura, sono un professionista con una bibliografia, chi vuole un mio libro tendenzialmente lo prende per quel che racconto e per il fatto che a scriverlo sia io, non si leggano queste mie parole come atto di arroganza, ma come constatazione di una modalità divenuta consueta, la storia che ho proposto, con tanto di scaletta dei capitoli, era quella di un ragazzino che doveva passare i suoi giorni chiuso in casa da solo, i genitori costretti entrambi a lavorare tutto il giorno. Un ragazzino curioso, in una metropoli nera, una Milano vagamente cyberpunk seppur non troppo diversa da quella reale. Costretto in casa da solo ma munito di connessione internet, all’epoca la cosa non era poi così comune, parliamo di quasi venti anni fa, il ragazzino in questione, confesso di non ricordarne più il nome, comincia a muoversi tra primordiali chat e forum, nella speranza di fare quelle nuove amicizie che la clausura gli negava. Di lì a breve sarebbe entrato in contatto con un sedicente coetaneo, da quel contatto sarebbe nata l’idea di un pomeriggio da passare in giro per la città, di nascosto dai genitori, e tutta una serie di peripezie non troppo diverse dalle avventure che Collodi avrebbe rese immortali in Pinocchio. Intendiamoci, non mi sto paragonando a Collodi, sto dicendo che avevo scritto un plot che proprio da Pinocchio partiva, con tutta una serie di comprimari e disavventure che avrebbero poi riportato il nostro a casa sano e salvo, tra ipotesi di rapimenti, di mercato degli organi, di tratta degli schiavi. Il titolo, Downtown Rap, partiva più dalla lingua che avrei voluto usare, una sorta di slang giovanile molto ritmato che avrebbe dovuto ricreare sulla pagina quel genere, all’epoca già esploso in Italia grazie ai vari Eminem, la parola Downtown era lì a indicare la metropoli, certo omaggiando anche la Downtown train di Tom Waits, ma il fatto di aver sviluppato la trama per punti nella scheda editoriale, l’aver cioè indicato tutti gli snodi e punti salienti della storia, mi ha sostanzialmente inibito dallo scriverla, al punto che dopo un po’ di tempo, mesi, lo stesso editore se ne è fatto una ragione, immagino senza dover spandere troppe lacrime per non aver battezzato me in quel mercato che tuttora mi vede assente.
Ciclicamente questa storia mi torna in mente, seppur con la consapevolezza che quel tipo di sviluppo, i temi trattati, i personaggi comprimari, gli escamotage quali la chat e i forum, per dire, col tempo sono diventati decisamente vintage. Mi torna in mente e sempre lì, nella mia mente, provo a pensare come potrei declinarla oggi, che tipo di passaggi dovrei modificare, che soluzioni narrative adottare, anche che lingua scegliere, perché nel mentre il rap è in qualche modo diventato mainstream, è subentrata la trap, appunto, e le tematiche di fondo sono in qualche modo cambiate, diventando a mio modo di vedere inapplicabili a un contesto infantile, seppur mi sia evidente come il pubblico della trap sia in prevalenza fatto di bambini e ragazzini.
Ecco, la poetica. Credo che anche questo, in fondo, mi abbia sempre tenuto lontano dallo scrivere un libro per bambini, la mia poetica. Ho sempre praticato il politicamente scorretto, e questo in sé non sarebbe un male pensando ai più piccoli, i cliché non sono un valore di loro, perché provare a scardinarli dovrebbe essere un problema? I Simpsons, i Griffin, South Park, usano tutti il politicamente scorretto, sono rivolti a un pubblico anche adulto, ma piacciono anche ai bambini, è oggettivo. Il fatto è che ho sempre applicato il politicamente scorretto a uno stile che mette in gioco non solo ironia e a volte sarcasmo, ma anche violenza verbale, eversione, una visione del mondo apocalittica che certo provo a stemperare con abbondanti dosi di amore, neanche fossi il Bruce Willis de Il quinto elemento, ma che comunque non lascia mai troppo spazio alla speranza, come se la parte destruens mi avesse preso troppo la mano, senza lasciare poi troppo spazio a quella construens. Traslare questa visione del mondo, questo immaginario, questa poetica, in un racconto per bambini sarebbe stato troppo, anche per un outsider come me.
Ci pensavo in queste settimane, mentre con mia moglie ci godiamo prima di andare a dormire una serie come When Calls the Heart, una storia che si svolge nel Canada dei primi del Novecento, nel villaggio di frontiera chiamato Hope Valley, una narrazione pacificatrice, rasserenante, sempre col lieto fine, i buoni, quasi tutti sono buoni, chiaramente buoni, i cattivi, pochissimi, chiaramente cattivi. Una specie di favola di buoni sentimenti che, confesso, ci stiamo godendo proprio come antidoto a tutto quel che ci circonda, io che amo alla follia Lynch non riuscirei credo oggi a vedermi una delle sue opere allucinate e disturbanti, ci pensavo in queste settimane, sarebbe bello prima o poi scrivere qualcosa di buono, qualcosa, cioè, che non tiri in ballo più piani di lettura, che non implichi metafore, che non veda dispiegamento di feroce ironia. Una favola, appunto, magari non ambientata nella frontiera canadese, non è parte del mio mondo quello fatto di conestabili e giovani maestrine, come di minatori e falegnami, ma comunque nella quale sia applicata la regola che alla fine il bene vince, che la morale regni sovrana, che i sentimenti siano chiaramente decodificabili per tutti, anche per i più piccoli. Dovrei riprendere quella vecchia storia, mi ripeto in queste ore, magari intitolarla Downtown Trap, i miei figli piccoli hanno nove anni, non sia mai che cominci a scrivere per bambini quando sarò nonno.
Rapping (or rhyming, spitting,emceeing, or MCing is a musical form of vocal delivery that incorporates “rhyme, rhythmic speech, and street vernacular”, which is performed or chanted in a variety of ways, usually over a backing beat or musical accompaniment The components of rap include “content” (what is being said), “flow” (rhythm, rhyme), and “delivery” (cadence, tone). Rap differs from spoken-word poetry in that it is usually performed in time to musical accompaniment. Rap being a primary ingredient of hip hop music, it is commonly associated with that genre in particular; however, the origins of rap precede hip-hop culture.
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