Quando qualcuno mi chiede, a volte capita, quali sono gli artisti italiani che ho in maggiore stima, sottintendendo la domanda il provare a fare qualche nome che esuli tra i grandi classici, perché star lì a dire che ho molto amato e molto amo Battisti, tutto Battisti, anche quello panelliano, o Lucio Dalla, come De André o Fossati, suppongo, non sia un grande esercizio intellettuale e non fornisce a chi mi interroga nessun elemento per conoscere un po’ di più il mio pensiero riguardo la musica, io che più e più volte ho ostentato un atteggiamento di apertura rispetto al pop, seppur poi mi muova mio agio in tutti altri ambiti, dall’hardcore al rap della golden age, ecco quando qualcuno mi chiede, a volte capita, quali sono gli artisti che ho maggiormente in stima, non manco mai di citare Gianni Togni. Il cantautore romano, sì, cantautore, checché ne pensino quanti credono che il cantautorato è altra cosa, fatta prevalentemente di giri di chitarra tutti simili a loro stessi, testi impegnati politicamente, o almeno, testi dichiaratamente impegnati politicamente, perché lo si può essere anche affrontando certi temi in maniera poetica, non è certo una sorpresa, arrangiamenti sciatti atti più a evidenziare le parole che la musica, melodie esili appoggiate su armonie basilari, è stato uno dei massimi esponenti di una new wave del pop che ci regalerà una perfetta colonna sonora nel momento in cui gli anni Settanta, quelli identificati non a caso come gli anni di Piombo, il rapimento moro, le BR, gli scontri di piazza, la strategia della tensione (gli anni di piombo inizieranno a pochi giorni dall’inizio degli anni Settanta, con la strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969), scivolavano nei ben più appaganti anni Ottanta, senza star a citare il Roberto D’Agostino pre-Dagospia, quelli dell’edonismo reaganiano, per intendersi.
Proprio il 1980 lo vedrà pubblicare l’album con uno dei titoli più incredibili della nostra discografia, “…e in quel momento, entrando in un teatro vuoto, un pomeriggio vestito di bianco, mi tolgo la giacca, accendo le luci e sul palco m’invento” (per altro uno dei miei altri artisti del cuore, fatemi usare un’espressione zuccherosa che altrimenti non saprei proprio come usare, Luca Carboni, ha esordito con un album dal titolo altrettanto singolare, sempre introdotto da puntini seguita da una e, “…e intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film”, pochi anni dopo), album che vedrà come traccia due quella Luna che più di ogni altra, ancora oggi, è identificata col suo nome, uno dei più grandi successi di sempre della nostra discografia, album che per altro vedeva il nostro accompagnato da una band di professionisti impressionanti, da Maurizio Fabrizio a Roberto Puleo, passando per Gigi Cappellotto e Andy Surdi, probabilmente la più grande sezione ritmica di sempre, in Italia. A tal proposito, poi torno a parlare di Gianni Togni, per circa dodici anni Andy Surdi è stato mio vicino di casa. Non l’ho sempre saputo, perché a parte empatizzare con lui, entrambi capelloni in un quartiere altrimenti di gente pettinata, lui una ventina di anni più di me, non lo conoscevo. Cioè lo conoscevo, sapevo bene che fosse Andy Surdi, per aver suonato in buona parte dei miei dischi del cuore nel periodo che intercorre tra gli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, ma non sapevo che quel tizio coi capelli lunghi che abitava a fianco a casa mia col quale ci salutavamo con un cenno della testa ogni qualvolta capitava di incrociarci in strada, fosse in realtà Andy Surdi. Me lo ha detto lui, un giorno, fermandomi, perché gli era capitato di vedermi in non so quale programma e aveva quindi saputo che il tizio coi capelli lunghi che salutava col cenno della testa ogni volta che incrociava in strada, io, era in realtà un critico musicale che scriveva anche libri. Mi aveva fermato e si era presentato, da quel momento è nata una bella amicizia, e per altro, lo dico invocando l’intervento di un qualche discografico ben sapendo che non avverrà, perché produttori come Angelo Carrara non ne fanno più, ma un album come Andrea Surdi, un album di world music di una potenza e poesia unica, andrebbe non solo ristampato o messo sulle piattaforme di streaming per quei beoti che si ostinano a ascoltare la musica in quella maniera, ma andrebbe fatto studiare nelle scuole di musica tutte, carico di sonorità del sud del mondo come è.
Torno a parlare di Gianni Togni. Nel corso degli anni Ottanta, quello è stato senza ombra di dubbio il decennio nel quale ha lasciato un segno più profondo, Togni ha inciso con costanza, praticamente un album all’anno, tirando fuori alcune delle canzoni che più di ogni altra sono destinate a identificarci con quell’epoca, dalla già citata Luna a Semplice, uscita l’anno successiva, passando per Io e te, Giulia, singolo uscito come 45 giri nel 1984, poi ritornata in auge nel 2003 per una versione remix di Gabry Ponte, versione che spero abbia portato fieno nella cascina di Togni ma che da ascoltatore mi ha più volte indotto a uscire di casa munito di roncole per andare a cercare il DJ che fu parte degli Eiffel 65, Vivi, Attimi, Per noi innamorati, divenuta poi un classico anche in Sud America, di pochi giorni fa la notizia di una ennesima versione, stavolta da parte dei CNCO, boyband tra le più amate nell’America Latina, versione che per altro arriva dopo che già la versione cantata da Togni, all’epoca, vendette oltre due milioni di copie nel continente latinoamericano, per non dire della versione incisa dal cantante argentino Ricardo Montaner, Tan enamorados il titolo della sua versione.
Nei fatti Gianni Togni verrà baciato non solo da un successo incredibile in patria, riuscirà nell’impresa riuscita a pochi di far circolare la propria musica in giro per tutto il mondo, dal Sud America, appunto, al Giappone, epica una sua tourneé che lo vedrà chiudere i concerti nipponici al prestigiosissimo Budokan. Un successo dovuto a una capacità rara, probabilmente unica in Italia, di coniugare il pop, quello che poi finisce in vetta alle classifiche, che generi assai poco popolari, il jazz, inizialmente, un tipo caldo di fusion, in seguito, sempre un rock americano alla Toto, per intendersi, all’orizzonte. Su tutto, non un dettaglio da poco, una voce calda, dotata di quel modo unico che hanno i romani di appoggiare le parole sulla melodia, come fossero sempre attimi di struggimento, stornelli cantati a pieni polmoni, caratteristica che messa al servizio di melodie potenti e al tempo stesso delicate come quelle che solo lui sa comporre danno vita a un mix di quelli esplosivi, Umberto Tozzi fatti da parte.
Prova ne è l’album che da molti verrà visto come quello della svolta, quel Bersaglio mobile che, nel 1988, introdurrà in Italia certe sonorità da altri mondi che poi finiranno nei dischi di tanti suoi colleghi, compreso il da me recentemente citato Oltre di Claudio Baglioni, un album nel quale Togni proverà con successo a far dialogare la melodia con arrangiamenti decisamente complessi, una serie di turnisti di primissimo livello mondiale, dal basso di Pino Palladino alle percussioni di Manu Katché, passando per il sax di Mel Collins fino a quel Paolo Gianolio che da decenni è diventato il braccio destro proprio di Baglioni. Un album, Bersaglio mobile, che per altro grazie ai testi del solito Guido Morra, affronta temi anche quelli in anticipo sui tempi, con una attenzione al green che oggi sembra quasi profetica, e sempre e comunque con un talento unico nel riuscire a scrivere musiche capaci di superare l’incedere del tempo, a breve vi spiegherò meglio come questa teoria abbia un’oggettiva riprova proprio nella contemporaneità.
Da quel momento la vita professionale di Gianni Togni prende strade diverse. Per qualche anno dirada le sue uscite discografiche, seppur i successivi Singoli e la raccolta Cari amori miei saranno ancora premiati da dischi d’oro (io personalmente credo di aver consumato il lato B del vinile del primo, passando a ripetizione in radio il brano Io per vivere vivo, tutt’ora una delle mie preferite del suo repertorio, dopo Io e te, in assoluto una delle mie dieci canzoni di sempre, di quelle che porterei su un’isola deserta), cominciando a lavorare per il teatro. Scrive musical, prevalentemente, lavorando a fianco di Massimo Ranieri e andando a Stoccolma a comporre un’opera dedicata a Greta Garbo. Le uscite discografiche si diradano, sempre con l’ausilio di musicisti di rilievo internazionale. Gli album si diradano, anche perché la cura e l’attenzione che mette nelle registrazioni, sempre fuori dalle mode e dagli standard via via più sciatti che la digitalizzazione della discografia sta in qualche modo imponendo, lo costringono a procedere con un passo diverso, più lento, e volendo anche più orgogliosamente lento.
Anche prima di un ritorno di fiamma del vinile, oggi sembra il vinile sia destinato a superare il cd riguardo al fisico, Gianni Togni ha sempre proseguito a pubblicarli, arrivando a costruire per la sua ultima fatica un vero e proprio studio analogico, perché registrare in digitale e poi pubblicare su vinile, diciamolo apertamente, è una pagliacciata buona come un palliativo per i veri amanti del suono caldo e vivo. O stai da una parte o dall’altra.
Ma arriviamo a oggi, non volevo fare un excursus sulla carriera di uno dei nostri massimi esponenti musicali, e per nostri intendo della nostra musica leggera, la sua carriera la dovreste già ben conoscere se state qui a leggermi, perché è la base per chiunque voglia avere a che fare con l’argomento in questione. Volevo invece raccontarvi perché sostengo che Gianni Togni non solo sia uno degli artisti che maggiormente stimo del passato, ma anche del presente. E non solo per questo suo curare il suono, non è un ingegnere del suono e io non sono uno di quei fissati che ascolta musica solo perché presenta caratteristiche particolari. Mi piace la musica, partiamo da qui, e mi piace ascoltare la musica che non subisca nell’atto della riproduzione, e prima ancora della registrazioni, quella sorta di tortura che in genere lo streaming impone, frequenze schiacciate, suoni compressi, zero dinamica. Ma mi piace essenzialmente la musica. Non basta che sia incisa bene, per intendersi. Deve anche essere in grado di trasmettere emozioni, e nello specifico, non tutta la musica è votata a questo, ma quella di Gianni Togni sì, a esprimere il bello. È noto che non sono uno che presta troppa attenzione alle emozioni, per altro, quando si tratta di giudicare la musica, o almeno non è su questo aspetto che tendo a soffermarmi troppo, preferendo in genere uscire da quel campo, che invero è quello che maggiormente viene preso in considerazione dalla critica a partire dall’ultima parte del Novecento, io resto fedele a Adorno, però va detto che se ascoltate un brano come Non devi dire mai più, estratto dall’album Di questi tempi, del 1987, non mettere sul piatto le emozioni diventerebbe non solo impresa ostica, ma addirittura controproducente, perché la voce di Gianni in questo brano si sposa talmente tanto col testo scritto per l’occasione da Guido Morra da sembrare essere stata creata appositamente per questo, come una sorta di predestinazione, e forse in fondo è proprio così.
Ecco.
Dopo trentaquattro anni Gianni Togni decide di ridare alle stampe, è il caso di dirlo, un brano che prende le mosse dall’imminente arrivo del Natale, per raccontare di un senso di solitudine che, al momento, sembra davvero lo zeitgeist. Un brano spogliato del suo originario arrangiamento synth-pop, classicheggiante come solo certo synth-pop sapeva essere, del resto è dalla classica che quel genere prendeva le mosse, stavolta le sonorità calde di una band che suona davvero strumenti reali, ripeto, Togni è uno strenuo difensore dell’analogico in un momento nel quale sembra che il digitale sia la sola via percorribile, il suo recente Futuro improvviso, uscito nel 2019, è un gioiello che andrebbe preservato dall’usura del tempo con la stessa cura con cui si mettono in salvo i tesori di famiglia, una cura per i suoni che solo chi capisce che l’analogico è il solo modo col quale poter rendere in sala di incisione, usiamo questa vecchia terminologia non a caso, la magia del suono dal vivo, il rumore di fondo a dare prospettiva ai suoni, altrimenti appiattiti come in un quadro in cui il pittore non sia stato messo a conoscenza di ciò che è la prospettiva, bidimensionalità laddove dovrebbe essere tridimensionalità, imperfezioni che contribuiscono a rendere vividi quei colori che la musica per sua natura dovrebbe sempre poter esprimere.
La luce delle stelle, questa la canzone uscita originariamente come singolo natalizio incluso in una compilation a tema della CGD, in questa versione 2020, regalo che Gianni Togni ha voluto fare ai suoi fan in attesa di poter riportare finalmente la sua musica dal vivo, i concerti previsti a Roma e Milano rimandati in primavera, si spera, con quel senso di dolore che accompagna in questi mesi il continuo rinvio di un ritorno alla normalità, è una signora canzone, una signora canzone che anche io, che di Togni sono estimatore sin da quando ha fatto il suo esordio, a metà degli anni Settanta, lui giovanissimo cantautore io bambino curioso, non ricordavo. La sua voce, quei colori caldi che vi raccontavo prima, o meglio che provavo a raccontarvi prima, perché raccontare una voce è sempre impresa fallimentare, non ci sono le parole giuste per mettere su un foglio la magia che una voce usata bene può produrre, che regge perfettamente nel tempo, senza scollature, senza sbavature, arriva al momento giusto per provare a scaldarci i cuori, come in effetti ogni canzone di Natale dovrebbe di suo poter e saper fare. Da noi la tradizione degli artisti pop che incidono canzoni natalizie è praticamente inesistente. Ci sono le canzoni di Radio Deejay, e per altro anche Gianni Togni ha regalato a suo tempo la sua Semplice ai Vitiello, con tanto di cameo finale, in uno spin off del classico brano natalizio che il network di via Massena tira fuori per le festività, ma per il resto poco o niente. Quest’anno ha tirato fuori un album a tema natalizio Valerio Scanu, ma è già stato abbastanza difficile così il 2020, ho preferito evitare di ascoltarlo, almeno questo la pandemia ce lo ha insegnato, dobbiamo volerci bene prenderci cura di noi. Ho invece ascoltato e amato questa nuova versione di La luce delle stelle e almeno per i quattro minuti scarsi del brano questo 2020 mi è sembrato poetico, magico, sempre e comunque meno agghiacciante di quanto non sia fuori dalle finestre di casa mia. Ecco, parafrasando il titolo del suo album d’esordio, “...e poi arriva Gianni Togni nel suo studio analogico che attacca la spina, registra una canzone, e almeno ci salva il Natale.”
Che dire … articolo di un appassionato della musica, ma anche di artisti con la
“A ” .Gianni Togni per me è stato uno dei cantautori che mi ha accompagnato in un periodo, quello del decennio 70-80 , tremendo. Diciamo che le sue canzoni hanno allieviato dolori e sensazioni di vuoto in quel periodo.
Mi è dispiaciuto tantissimo non averlo sentito per anni.
Grazie
finalmente qualcuno che scrive bene, ma soprattutto che rende merito ad un grande artista che ha fatto molto di più di quanto ci si limita a ricordare normalmente nelle rare apparizioni in tv dove gli consentono solo di riproporre i brani di maggiore successo ,bisognerebbe dedicargli intere serate per far conoscere alle nuove ma anche alle vecchie generazioni il talento di un artista che misteriosamente non ha raccolto quanto meritava. Personalmente lo proporrei per la direzione del festival di sanremo
Articolo letto tutto d’un fiato. Ritmo incalzante, profonda conoscenza della materia musica e del Maestro, grande sensibilità e intelligenza. Mi è piaciuto molto. Non ultimo, Togni è, da Luna in poi, il mio Autore del cuore (chi leggerà, ascolti per favore brani come Sognatore, Ti Voglio Dire, Cosa Mi Fai, Messaggi In Codice, L’Unica Cosa, L’Arco E La Freccia…e poi mi dica!)
Articolo perfetto nella forma, nella sostanza e ricco di particolari, elemento raro nel giornalismo di oggi. Complimenti a Lei e, indirettamente, all’artista.
Concordo in pieno con Lei.👏👏