Wonder, il toccante film sulla forza rivoluzionaria della gentilezza

Su Rai 1 alle 21.25 il film sulle paure di un bambino deforme costretto a misurarsi con la scuola e i suoi coetanei. Una storia intelligente di emozioni non ricattatorie. Tra Julia Roberts e Owen Wilson, è il piccolo Jacob Tremblay a rubare la scena

Wonder

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Nonostante un cast con nomi di richiamo come Julia Roberts e Owen Wilson, più il giovanissimo e talentuoso Jacob Tremblay, sarebbe stato difficile prevedere per un film delicato e intimista come Wonder un successo travolgente. Invece, nel periodo di Natale del 2017 arrivarono oltre 300 milioni d’incasso globale, in aperta controtendenza in un’epoca che solitamente premia blockbuster muscolari, pieni di scene d’azione ipercinetiche e personaggi bigger than life.

Invece il film diretto da Stephen Chbosky, tratto dal bestseller omonimo di R.J. Palacio, è una storia di personaggi ordinari e buoni sentimenti, addirittura un peana al valore della gentilezza (“Quando ti è data la possibilità di scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile”) che assume le fattezze di una commedia motivazionale che destina allo spettatore un messaggio inequivocabile: “Non fermarti alle apparenze”.

Wonder racconta una vicenda dai toni quotidiani, al centro della quale c’è Auggie (Tremblay), ragazzino undicenne nato con una grave malformazione craniofacciale e passato attraverso il calvario di innumerevoli, e solo palliative operazioni. La madre (Roberts) gli ha fatto da istitutrice durante l’infanzia, risparmiandogli il confronto col mondo esterno. Ma alle soglie della scuola media lei e il padre (Wilson) sanno che questo delicato passaggio non è più procrastinabile. Una sfida non solo per Auggie, che con franchezza ammette di essere paralizzato dalla paura, ma per gli stessi genitori, che devono trovare il coraggio di rompere la bolla protettiva in cui hanno tenuto il figlio e sé stessi. Consci che il passaggio non potrà essere indolore.

Wonder rivendica l’appartenenza alla categoria problematica del film strappalacrime, che i critici guardano solitamente con sufficienza e il pubblico ama in segreto, vergognandosi quasi di ammettere di essersi lasciato andare alla commozione. Eppure si tratta di un genere che ha prodotto autentici capolavori – si pensi a La vita è meravigliosa e Mister Smith va a Washington, entrambi di Frank Capra, due toccanti esercizi sul tema della determinazione a vivere una vita retta – con, almeno fino agli anni Ottanta, esempi dignitosissimi di cinema insieme emotivamente coinvolgente e adulto, capace di parlare al cuore e all’intelligenza dello spettatore, cui raccontare storie insieme dolci e crudeli (come Dietro la maschera di Peter Bogdanovich o L’attimo fuggente di Peter Weir).

Ed è esattamente quello che accade con Wonder cui, per una volta, ha risposto empaticamente non solo il pubblico, ma anche la critica, che l’ha generalmente apprezzato. A fare la differenza qui è il “come” di una sceneggiatura che, seguendo l’impianto del romanzo, ricostruisce non un caso pietoso, ma un contesto umano e sociale più ampio, nel quale Auggie diventa lo specchio problematico in cui si riflettono ansie che coinvolgono il macrocosmo che gli ruota intorno.

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Quando vediamo in soggettiva Auggie che s’incammina verso la prima scuola della sua vita e assistiamo all’imbarazzo istintivo degli altri bambini, capiamo che Wonder non sta raccontando soltanto la vita di un ragazzino “diverso”, ma sta indagando la paura della diversità che chiunque, ben dissimulata, si porta dentro. Perché la diversità e il timore dell’esclusione sociale appartengono a tutti: non solo a chi è guardato come un mostro, ma anche a chi guarda e non riesce a gestire le emozioni negative e l’insicurezza di fondo verso sé stesso.

Wonder ribalta di continuo il punto di vista, slittando dal protagonista ai comprimari, che vivono sofferenze certo meno traumatiche di Auggie, ma non per questo insignificanti. È il caso della madre che, raggelata dalla paura per il figlio, ha sacrificato l’intera esistenza; della sorella maggiore Via (Izabela Vidovic), che ha accettato con sofferta maturità di essere stata messa al secondo posto (“so che i miei genitori non potevano reggere un peso ulteriore”); dei compagni di scuola, costretti a confrontarsi con la deformità e i pregiudizi del loro ambiente familiare e sociale (c’è chi sa superarli e chi si rifugia nel bullismo; soprattutto i figli di buona famiglia, non perché naturalmente cattivi, ma perché disabituati dal privilegio a scontrarsi con le difficoltà).

Wonder si misura col patetismo senza mai diventare ricattatorio. Questo grazie anche a una messinscena calibrata, che si concede notazioni acute. Auggie quando sta in mezzo agli altri si nasconde dentro un casco d’astronauta, trovando nel doppio della maschera una strategia difensiva (curiose le assonanze con il film Frank). Paradossalmente, però, sarà quando indosserà ad Halloween un’altra maschera, quella di Ghostface dell’horror Scream, che il bambino si sentirà, seppure per poco, accettato. Non più diverso, ma mostro tra i mostri.

Attraverso riferimenti di questo tipo – quali anche la fantasia dell’incontro col Chewbecca di Star Wars o il progetto di una camera oscura con cui Auggie vince un premio a scuola –, Wonder mostra pure una consapevolezza cinefila, che del cinema riscopre l’anima fiabesca di sogno a occhi aperti. E sappiamo bene che una delle funzioni essenziali della fiaba è quella di porre i bambini di fronte alle loro paure più recondite, per affrontarle in forma sublimata. Anche per questo Wonder, al netto di un finale troppo ottimista, riesce a raccontarci qualcosa che ci riguarda, aiutando a esorcizzare le angosce e regalando tanto una commozione di cui non vergognarsi quanto una lezione sulla bruttezza del pregiudizio e la forza rivoluzionaria della gentilezza.