Renato Zero, io e Dio

Non so cosa sarà il prossimo Natale ma ho una certezza, la colonna sonora sarà composta dalle nuove canzoni che Renato ci ha regalato


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Credo in Dio. Credo in Dio in quanto credo a un Dio che abbia creato il mondo, non necessariamente un vecchio con la barba bianca o un triangolo con dentro un occhio, non sento la necessità di dargli una forma umana, non sono Walt Disney, ma credo comunque in Dio, nel Dio della Bibbia, nel Dio parte della trinità. E credo anche nella Chiesa, a dirla tutta. Certo, con molti dubbi, evidenziando molte criticità, distinguendo istituzione e popolo, non aderendo a tutto quel che ci viene passato per dogma o spacciato per dogma, ma credo anche nella Chiesa. E nelle chiese. Ci andavo spesso, quando si andava in giro con più libertà di oggi, che in giro non ci si va quasi più per niente. Non solo la domenica, a messa, ma anche quando ci capitavo per caso davanti. Perché ho trovato quasi sempre le chiese luoghi idonei a pregare, e io credo in Dio e prego, e perché ho sempre ritenuto, mi piace la scorciatoia, lo so, che un luogo nel quale concentrarsi e stare circondato dal silenzio sia comodo per pregare, non tanto quanto promemoria, proprio come luogo in sé.

So che la cosa potrebbe sorprendere, anche se non è la prima volta che lo dico, sono stato fino a pochi anni fa un catechista, e se ho smesso è solo perché ho una vita disordinata, o meglio la avevo quando etc etc, e stare dentro a impegni che prevedano orari fissi mi risulta difficile, finirei per deludere qualcuno. Sono stato catechista, certo il catechista strano della mia parrocchia, un uomo, innanzitutto, un uomo coi capelli lunghi e che per lavoro frequenta i cantanti, poi, uno che quando è in radio, nessuno dei miei alunni né dei miei animatori ha mai letto cosa scrivo, credo, ma tutti mi ascoltavano in radio, parlava una lingua non esattamente ascrivibile al linguaggio da catechista, nella forma come nei contenuti, e sono anche figlio di un diacono, mio padre Learco. Mio padre Learco che ha sposato me e mia moglie Marina in chiesa, e poi ha battezzato tutti i nostri figli. Credo in Dio, e seppur abbia dubbi e il mio pensiero non coincida con tutto quello che la Chiesa dice, sono un cattolico praticante. Come questo sia conciliabile col mio essere irriverente, provocatore, eversivo io ce l’ho bene in mente, la scena di Gesù che caccia i mercanti dal Tempio ha sempre avuto un grande fascino in me, sin da bambino, ma magari sono semplicemente un incoerente, un peccatore, fondamentalmente un uomo. Un uomo che si ritiene un cattolico praticante, però. In questi mesi di pandemia, per dire, ho sempre partecipato alla messa nelle modalità che erano possibili, su Facebook durante i due lock down e anche per parecchio tempo dopo, in presenza solo durante l’estate e settembre, quando cioè la situazione sembrava in parte rientrata. Sempre attenti a tutti i protocolli, ci mancherebbe.

Credo in Dio e nella Chiesa, quindi, e se qualcuno mi chiedesse cosa penso della faccenda della messa di Natale anticipata alle 20, direi che potevano anche toglierla del tutto, perché penso che andare in presenza in chiesa non sia necessaria. Io comunque non ci andrò, seguirà la messa la mattina di Natale, dalla tv.

Ma non è di questo che volevo parlare, né volevo, ci mancherebbe altro, fare scandalo, cioè evidenziarmi come l’outsider sboccato e violento che però fa il catechista, una specie del reverendo nazi interpretato da Henry Rollins in Sons of Anarchy, solo con altri colori politici. No, non volevo fare scandalo. Siccome questo è un diario, e ho raccontato un sacco di fatti miei privati, anche piuttosto intimi, volevo condividere questo che, credo, non sia un aspetto marginale, anzi.

E volevo condividerlo perché l’altro giorno, sempre a tavola, si è parlato proprio di Dio, la nostra tavola è differente, direbbero in uno spot televisivo. Se ne è parlato con Lucia, diciannove anni, la quale ha messo letteralmente sul tavolo tutta una serie di dubbi, che nel suo caso non erano affatto dubbi, quanto solidissime certezze, sull’esistenza di Dio. Un discorso che citava filosofi del passato, citava una visione illuminista del mondo, chiedeva prove scientifiche laddove non si stava parlando di scienze, contrapponendo psiche a anima, per dire, lei studia Scienze Umane. Ai suoi occhi il jolly, perché non avrebbe mai aperto il discorso se non avesse pensato di avere un jolly in mano, era il grande classico dei classici, come può esistere un Dio che permette una pandemia nella quale muoiono così tanti innocenti?

Questa cosa del Dio cattivo che lascia morire gli innocenti, pensa ai bambini appena nati, come al mio gemello Francesco, mio gemello in quanto mio fratello gemello, perché io ho un figlio di nome Francesco che è a sua volta un gemello, mio fratello gemello Francesco, morto durante il parto, strozzato con il cordone ombelicale. Perché Dio lo ha fatto morire? Me lo sono chiesto, se l’è chiesto anche Lucia, e l’ha detto. Non sa, Lucia, che quando ventidue anni fa è morto mio suocero, che non era ancora mio suocero, perché io e Marina ci saremmo sposati un anno dopo, non ho smesso di credere per un secondo, ma ho bestemmiato quel Dio che aveva strappato un uomo ancora giovane all’amore della sua famiglia. Credevo in Dio, ma non lo capivo. Non credo si possa capire.

Tornando all’altro giorno a tavola. Il discorso è ovviamente andato dalle parti del libero arbitrio, delle differenze tra bontà infinita e onnipotenza, tema per altro piuttosto attuale viste le recenti modifiche introdotte nel Padre Nostro, con tutti i corollari del caso, fatti di citazioni dotte, di esperienze personali, le mie e le sue, di fede cieca nella ragione a suo dire incompatibile con la fede nel trascendente, col mio star lì a provocarla non per il gusto di farlo ma perché credo fermamente che parlare e confrontarsi sia il vero sale della vita.

Ovviamente siamo rimasti entrambi nelle nostre posizioni, nessuno ha pensato di iniziare quella chiacchierata per convincere realmente l’altro, ma abbiamo passato una mezzora a parlare di argomenti che, immagino, ci hanno fatto ragionare più di quanto il parlare del prossimo DPCM avrebbe mai potuto fare.

Avessi avuto altro tempo, ma magari no, avrei spostato il discorso su un piano che mette comunque la razionalità in crisi, l’arte, provando a dimostrare, anche se lungi da me il voler fare proseliti, come la bellezza che l’idea di Dio ha ispirato in tanti artisti, non sempre necessariamente ferventi credenti, o quantomeno non sempre aderenti in tutto e per tutto all’idea di fervente credente che va per la maggiore, il recente ritorno in scena di Caravaggio, tirato per i capelli da tutte le parti per difendere la separazione tra artista e uomo così poco praticata con Maradona, ne è esempio chiarissimo, ecco, come la bellezza che la sola idea di Dio ha ispirato a tanti artisti non possa essere spiegata razionalmente, l’arte può essere giudicata con metri quasi scientifici, ma non esiste alcuna spiegazione attendibile per l’ispirazione, non credete a chi dice il contrario. L’arte è prova dell’esistenza di Dio, le avrei detto. Almeno quell’arte lì, non bastasse a provarlo l’amore e il fatto che, magari con nomi diversi, con forme diverse, ma Dio è presente in ogni angolo del mondo, anche tra gente che neanche sa parlare una lingua che abbia già trovato una sua forma scritta, come tra chi ha più lauree e gira il mondo di continuo.

Non l’ho fatto. Già mi sembrava una bella chiacchierata così. Ho continuato a pensarci, però. Non poteva essere altrimenti, in questi giorni tutti uguali fatti di pochi soliti gesti ripetuti a memoria.

Ci ho pensato e ho pensato come ci siano artisti, in musica, per cui la fede è parte della poetica a fianco di altri temi, apparentemente distanti. Così mi sono ritrovato a spulciare i vecchi album di uno dei nostri più grandi cantautori, Renato Zero, uno che a tratti, durante la carriera, è finito a vestire i panni da santone, lui che partiva vestendo ben altri panni, sconvolgendo le masse, a suo modo educandole all’accoglienza verso la diversità, verso un’idea concreta di diversità, ma che ha scritto alcune delle canzoni pop che più di tutte le altre riescono a riassumere discorsi come quelli che io e mia figlia abbiamo fatto a tavola. Penso a un brano come Più su, per dire, che parla sì di amicizia, uno dei temi più cari al cantautore che più di ogni altro in Italia è riuscito a creare una comunità intorno a sé, ben prima di Vasco Rossi, per dire, o a quel grande classico che è Il Cielo, nella versione live di Zerofobia, anno del Signore, è il caso di dirlo, 1977, o forse più ancora in quel capolavoro assoluto che è Icaro, 1981. Dove il cielo evocato sin dal titolo è l’assoluto, maiuscole o minuscole sono solo stilemi dentro in quali non è necessario finire impigliati. Canzoni immense, mai abbastanza celebrate, credo, Renato Zero mai inserito nel novero dei grandissimi della nostra canzone, proprio a fianco di un Vasco, di un Battisti, di un De Andrè, di un Dalla.

Una poetica, quella di Zero, fatta di una tale quantità di stimoli, da ubriacare l’ascoltatore, in balia delle emozioni e di una teatralità, la sua, talmente precisa da trovare spazio al pari della sua voce. Mi ha sempre molto colpito come mio padre, il diacono di cui sopra, Learco, ottantaquattro anni, indichi in Renato Zero il suo artista preferito. Al pari forse di Modugno, primo amore, da troppi venuto a mancare. Mi ha sempre molto colpito quel riconoscersi da parte sua in discorsi che, in apparenza, gli sono assai distanti, nessun senso della provocazione è mai uscito dalla sua bocca, parlo di mio padre, nessun discorso che si discostasse più del prevedibile dai canoni, lui piuttosto in silenzio ma mai contro nessuno, men che meno contro quei dogmi che, va detto, non sono esattamente sposati in pieno dall’immaginario zerofolle. Del resto mio padre ama molto anche Elio e le Storie Tese, ho ancora da qualche parte una copia di Made in Japan su cui la band ha scritto una dedica per lui, e la loro Born to be Abramo, capolavoro di ironia, non credo verrebbe sposata in toto neanche da un papa poco canonico come Papa Francesco.

Riguardo a Papa Francesco, poi passo ancora a parlare di Zero, giuro, sia messo agli atti che quando Papa Benedetto XVI si è dimesso, fatto inedito almeno per la nostra contemporaneità, e quando subito dopo è salito al soglio pontificio Papa Francesco, sono usciti due libri che raccontavano quella che era stata l’idea di Chiesa di Ratzinger e quella che ipoteticamente sarebbe potuta essere quella di Bergoglio, due libri a firma del teologo tedesco Joseph Krauss, elogiati anche da Radio Vaticana per la particoare visione teologica di questo particolare momento storico. Ecco, Joseph Krauss ero in realtà io, sotto pseudonimo, dopo uno dice perché se mi si chiama intellettuale non mi offendo.

Comunque, si parlava di Zero e delle sue canzoni del passato incentrate sull’idea di Dio. Ce n’è una in particolare, che sembra scritta proprio per aiutarmi a spiegare a mia figlia cosa volevo dire l’altro giorno a tavola. Si intitola Potrebbe essere Dio, è contenuta in Tregua, altro capolavoro datato 1980. Un doppio album che ha perle della filosofia zeriana come Niente trucco stasera, Profumi balocchi e maritozzi o Onda Gay ma che poi ha i suoi punti di forza in Amici, vera hit scritta con Dario Baldan Bembo e, appunto Potrebbe essere Dio. Una canzone che infila perle quali “Dio non sarà aritmetica né parapsicologia”, “Dio non è un manifesto, la morte senza un pretesto”, “La fede non è un imbroglio”, “Non c’è Dio sulla luna, ma su questa terra che trema” per poi esplodere nel ritornello in quel “Se mai un Dio non ce l’hai, io ti presenterò il mio. Dove abita io non saprei, magari in un cuore, in un atto d’amore, nel tuo immenso io c’è Dio.” che letteralmente dice tutto quel che penso ci sia da dire in proposito.

I miei primi ricordi di Renato Zero sono in bianco e nero, dentro la televisione, quando prendeva parte ai programmi del sabato sera, all’epoca si intitolava Fantastico, intonando la sigla Viva la Rai, così, vestito in maniera eccentrica, incomprensibile forse, per uno bambino, un preadolescente, non esattamente uomo né tantomeno donna. Un tipo sopra le righe che però metteva tutti d’accordo, un artista, capace come i veri artisti sanno fare, di creare un proprio mondo affascinante, lontano, ma al tempo stesso così terreno da lasciare uno spazio per ognuno di noi al suo fianco. Uno che poteva parlare di sesso, di triangoli, di omosessualità, di gente che vive ai margini della società, parlare ai suoi fan come fossero una vera comunità, i sorcini, gli zerofolli, un istrione come mai ne avevo visti e raramente mi sarebbe capitato di vedere in seguito, almeno in Italia. Una figura eccentrica, con un messaggio rivoluzionario e carico d’amore, frequentatore di prostitute e marginalizzati, a ben vedere proprio come ci viene raccontato Gesù nei Vangeli, e so che nel dire questo scandalizzerò più quanti non credono che quanti credono.

Proprio in questo anomalo 2020, anno terribile segnato dalla pandemia del Covid19, Renato Zero ha compiuto settant’anni. Una cifra che impressiona, perché gli istrioni restano sempre giovani, senza età, almeno nella nostra mente. Anche se il Renato Zero personaggio pubblico ha negli anni detto cose non condivisibili, è passato a volte dall’essere una sorta di illuminato all’essere un trombone, se a quarant’anni annunciava il suo imminente ritiro e la nascita di Fonopoli, lui a Sanremo a cantare quel capolavoro che gli aveva regalato Mariella Nava e che risponde al titolo di Spalle al muro, e ancora sta lì, alla faccia del ritiro, unico aspetto sparito, almeno per un po’, il trucco, i costumi, la maschera, mi sembra evidente come il suo settantesimo compleanno sia qualcosa che meriterebbe una celebrazione pubblica, nazionale. In attesa che questa arriva a celebrare il suo compleanno tondo ci ha pensato da solo, sfornando, uomo del Novecento poco incline a sottomettersi ai dictat della nuova discografia, quella dello streaming, dei numeri dopati di Spotify, un triplo album uscito in tre singoli volumi e dal sintomatico titolo Zerosettanta. Uno al mese, da ottobre a oggi, i primi due piombati a sorpresa in vetta alle classifica di vendita, nonostante Spotify, nonostante una scelta di indipendenza sicuramente insolita per un artista mainstream, nonostante anche una presa di distanza da Salzano, suo promoter, per la vicenda delle minacce fatte a Valeria Arzenton di Zed, al momento oggetto di una inchiesta, unico dei tanti artisti in roster a prendere le distanze dal tycoon dei concerti di casa nostra.

Come un po’ tutti non ho esattamente idea di cosa sarà il mio prossimo Natale. So che con buone probabilità sarà la prima volta che lo passerò con mia moglie, i nostri quattro figlie e mia suocera, cioè coloro con i quali convivo da che c’è la pandemia, lontano dalla nostra Ancona, bloccati dal DPCM e dal buon senso a Milano, lontano quattrocento e passa chilometri dai miei genitori ultraottantenni, lontano da mio fratello e mia sorella e le loro famiglie, lontano dai miei amici. Lontano anche da mia cognata e la sua famiglia, come noi a Milano, ma impossibilitati a passare le feste con noi, il tetto dei dieci commensali per noi che siamo in sette è una sorta di ironica beffa. Non so cosa sarà il prossimo Natale ma ho una certezza, la colonna sonora saranno le tante nuove canzoni che Renato Zero ha deciso di regalarci, anche andando a pescarle nei suoi bauli. Non le ho volute ancora ascoltare, se non distrattamente, trovandole già di una bellezza sconcertante, proprio perché, almeno in questo, vorrei che fosse un momento speciale.

Stringiamoci forte, che nessuna notte è infinita, cantava anni fa Renato Zero ne I migliori anni della nostra vita, anche senza dover mettere in pratica un atto di fede, voglio proprio credergli.