Shonda Rhimes con Grey’s Anatomy e Wayne Coyne con American Head hanno fermato il tempo per noi

In questo nuovo capitolo del mio diario del secondo lock down invoco a piena voce che anche dalle nostre parti gli artisti raccontino l’oggi nelle loro opere d’arte


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Abbiamo visto tutte quelle simpatiche immagini di Wayne Coyne e i suoi Flaming Lips lì a fare concerti racchiusi dentro quelle gigantesche sfere di plastica trasparente, tecnicamente chiamate Bubble. Simile a quelli che si trovano in certi Luna Park, tu ti ci infili dentro e poi ci rotoli sul pelo dell’acqua di una gigantesca vasca piena d’acqua, acqua ovviamente non troppo alta. Un po’ come i criceti sulla loro ruota, stai lì a correre da fermo, la sfera di plastica che scivola in avanti, magari andando a sbattere contro un’altra sfera, come fossimo negli autoscontri.

Loro, i Flaming Lips, hanno fatto questo primo concerto, questa esibizione toccherebbe chiamarla, perché era una canzone, Race For The Price, all’interno del Late Show with Stephen Colbert, ormai qualche mese fa, esperienza poi replicata in altre occasione,  in rete c’è anche una grande versione di Assansins of Youth, in veri e propri concerti, o prove generali di, parte di un vero e proprio tour che dovrebbe partire di qui a breve, racchiudendosi dentro queste enormi palle di plastica trasparente, circondati da altre enormi palle trasparenti dentro le quali erano racchiusi un massimo di tre persone, tutte ovviamente congiunte, un modo per permettere a quanti erano accorsi per ascoltarli di stare sicuri. Un modo per essere presenti ma distanti, come vicini ma distanziati, come ormai ci stiamo ripetendo come un mantra da qualche tempo a questa parte. La Bubble, per altro, la palla di plastica trasparente, già utilizzata in altre occasioni dai Flaming Lips, anche se in quei casi come meri oggetti di scena, è in qualche modo protagonista, insieme allo stesso iconico Coyne, del videoclip Flowers of Neptune 6, il leader della band coperto dalla bandiera a stelle e strisce in un panorama desolato e bruciato, a aggirarsi dentro la palla, le fiamme e il terreno arso a rappresentare l’oggi, la palla come unica soluzione ipotizzabile. Il brano incaricato di anticipare American Head, loro ventesimo album, unanimemente accolto come un capolavoro, ritorno a fasti che in realtà a me sembra non abbiano mai abbandonato.

Vedere quelle immagini, la band dentro le bolle, il pubblico dentro le bolle, cento persone in una hall che ne conterebbe almeno tremila, suona onestamente strano, un po’ come suonava strano vedere gli ascoltatori seduti in terra con le cuffie wireless per i concerti fatti in assenza di casse, i silent concert, esperienza praticata da diversi artisti, ricordo un primo episodio, a occhio, di Kid Koala nel 2012, un’era geologica fa, concerti che ovviamente sono poi diventati anche party, silent party, non ricordo più in che film c’è una scena piuttosto suggestiva di una serata danzante in discoteca nella quale tutti ballano scatenati in assenza apparente di suono, qualcosa di surreale. Come chi capitasse in uno studio radiofonico nel quale qualcuno si sta esibendo in playback, la canzone fruibile solo dagli speaker e dagli artisti stessi in cuffia, non all’esterno. Ricordo bene quando anni fa ho fatto la mia prima storia su Facebook immortalando proprio in un contesto simile i Ricchi e Poveri, mandati al mio programma su RTL 102,5, credo per una sorta di punizione per aver osato proporre e imporre un ospite non parte del palinsesto, io a fare questa storia senza considerare che, in assenza di cuffie, chi vedeva da casa non avrebbe ascoltato altro che la batteria, tutto il resto in clamoroso playback.

I concerti silenziosi in wireless erano però una scelta estetica, quasi un vezzo, questa potrebbe diventare una necessità, o almeno una più che valida alternativa ai mestissimi concerti in streaming, gente che si ritrova a suonare su un palco, se non addirittura dentro casa, il pubblico dall’altra parte di uno schermo. Abbiamo, anche lì, tutti ben chiare le immagini della mestizia degli spalti deserti o semideserti dell’Arena di Verona, come le foto dolorose, i selfie dolorosi, che gli artisti in questione si fanno con alle spalle le poltrone vuote dei teatri, il rosso che un tempo era simbolo di vitalità a sottolineare ulteriormente una vacuità inconcepibile, quando si tratta di esibizione dal vivo.

Qualcuno ha provato a ipotizzare e praticare anche esperienze di interattività, il pubblico presente su maxi schermi visibili dagli artisti, in una sorta di zoomata collettiva, ma chiunque abbia esperienza di un concerto, fosse anche un concerto sgaruppato, di quelli da festa di fine anno a scuola, sa che di tutt’altra cosa si tratta.

Del resto abbiamo sempre tutti letto presunte dichiarazioni di Bill Gates, eretto non si è ben capito perché a filosofo del momento, forse in virtù delle tante bufale che lo riguardano, bufale che tirano in ballo i vaccini, i microchip e via discorrendo, dichiarazioni che a suo dire ci prospetterebbero un futuro fatto di smart working, di zero viaggi e pochissimi amici. Come dire, non esattamente quel che ci saremmo aspettati. Certo, esiste tutta una letteratura fantascientifica e distopica che ci aveva prospettato un futuro fatto di gente chiusa in casa, isolata, in contatto col mondo esterno attraverso computer o altre amenità, ma ci avevamo creduto tanto quanto avevamo creduto possibile che oggi ci saremmo spostati a velocità impressionanti nello spazio, mangiando pillole colorate e pronti a combattere contro i marziani.

Per dirla con Jovanotti, e questo dovrebbe essere indicatore allarmante del mio stato mentale: è questa la vita che sognavi da bambino?

Ovviamente no.

Intendiamoci, non è che uno possa star qui a lamentarsi di quanti cagano il cazzo con la riapertura ipotizzata o meno degli impianti sciistici, dei cenoni di Natale e Capodanno, magari tirando in ballo le scuole che invece restano al palo, senza correre il rischio di suonare davvero fuoriluogo. Suona decisamente fuoriluogo questo parlare di concerti, me ne rendo conto, ma è parlare, appunto, non evocare o rivendicare, non alzare la voce o lamentarsi, parlare. Provare a essere vivi, senza mettere per questo fretta, senza ipotizzare scale di valori, di priorità. E non è neanche un parlare per provare a fare scudo a una categoria decisamente martoriata dalla pandemia, immobilizzata, pietrificata, imbalsamata, non è di questo che mi ritrovo a parlarvi oggi, quanto più che altro un provare a guardare quella landa desolata nella quale si aggira Wayne Coyne dentro la sua palla di plastica trasparente, fuoco e terra bruciata tutto intorno, per fotografare l’attimo, l’oggi, lo stato dell’arte.

Oggi che, se ne parlava in questi giorni, non mi sembra poi così presente nelle opere, uso questo termine tenendo larghi i paletti, molto larghi, che in questo 2020 stanno vedendo la luce.

Ho scansato, e di questo spero mi siate tutti quanti grati, la inutile polemica sul film di Vanzina Natale in lock down. E l’ho scansata perché credo che in questo caso le polemiche siano parte proprio del senso di questo tipo di operazioni, se ne parla male, certo, ma se ne parla, e tanto basta a giustificare un prodotto che altrimenti non troverebbe spazio su media e social, andando comunque a beccare un pubblico che a quel tipo di operazioni è comunque ben disposto, i cinepanettoni sono schifati da sempre da una parte della nazione, che ne parla male, ma amati da un’altra parte.

A oggi, però, a ben vedere, sembra che il solo che abbia deciso di mettere le mani, seppur in quella maniera lì sul tema pandemico sia proprio Vanzina, uno che però non trova di meglio che sviluppare l’argomento virandolo in commediola trash, non certo cercando di trovare un modo per raccontare un oggi decisamente anomalo e pauroso. Niente sublimazione del male, quindi, figuriamoci se poteva essere Greggio a guidare una simile traversata dei ghiacci polari, ma neanche un’evasione intelligente, lo dico aprioristicamente, certo, anche con una dose alta di spocchia, io che quel film non l’ho visto né intendo vederlo, la trama circolata in rete più che sufficiente per tenermene a debita distanza.

Non mi sono invece tenuto a distanza, anzi, mi ci sono fiondato con la stessa fame con la quale mi fionderei a tavola se sapessi che a accogliermi non troverei, come invece è e sarà, una qualche pietanza a base di verdure o cibi integrali, sui nuovi episodi di Grey’s Anatomy, la serie medical scritta e prodotta da Shonda Rhimes, ormai giunta alla diciassettesima stagione.

A questo punto occorre dire, un diario è un diario, ma il capitolo di un diario online potrebbe essere confuso un articolo, che sta per partire quello che tecnicamente si chiama spoiler, quanto segue, cioè, potrebbe rovinare la visione a chi non ha ancora visto ma intende vedere i primi due episodi, tanti sono andati in onda martedì.

E nello spoilerare quanto accaduto, senza entrare troppo nei dettagli, non sono importanti, tocca ancora una volta plaudire al genio di Shonda Rhimes, che evidentemente ha dovuto in corsa cambiare le trame che aveva impostato, andando a creare un doppio binario narrativo, uno subito successivo a quanto accaduto negli ultimi episodi della stagione precedente, la sedicesima, uno proiettato in piena pandemia, nell’aprile del 2020.

Ora non sono le varie sottotrame che si rincorrono nel corso delle stagioni a apparirmi rilevanti in questo contesto, seppur Grey’s Anatomy sia la serie gigantesca che è anche in virtù della capacità della Rhimes e del suo staff di disegnare personaggi tridimensionali, verissimi, fatti di carne e ossa, sangue pulsante nelle vene, né un ipotetico parziale ritorno di Derek Sheppard, al secolo Patrick Dempesy, quel che la visione dei primi due episodi della diciassettesima stagione mi ha lasciato addosso, ha lasciato addosso a me, mia moglie Marina e nostra figlia Lucia, per una volta uscita dall’antro della sua camera per guardare la tv con noi, lei che si divora le serie tv su Netflix chiusa dietro quella porta che rimane chiusa per buona parte delle giornate che sta passando con noi in lock down, è la perfetta fotografia di quel che questi mesi ci stanno facendo diventare familiare, ma che di familiare nulla avrebbero. Quindi il cambiamento estetico anche di chi, in teoria, avrebbe già dovuto avere a che fare con mascherine e bardature di protezione, perché di colpo sono apparsi i caschi con le visiere schermanti in plexiglass, oltre le ormai comuni mascherine. Vedere per buona parte delle quasi due ore andate in onda i visi degli attori, visi che ben conosciamo, quasi sempre occultati da quelle protezioni è qualcosa di potente, che fa passare un cambiamento che abbiamo imparato a fare volenti o nolenti nostro. Ma questo è un aspetto estetico, appunto, importante, la tv è fatta di immagini, anche di immagini, ma è solo una parte del tutto.

Perché quel che le due puntate fanno trapelare tra le righe, come una infiltrazione d’acqua che ci allaga casa, emotivamente, è quel senso di impotenza che così tante volte avevamo visto nelle decine di episodi che mettono in scena fallimenti e morte. Il dover, cioè, fare i conti più con la conta dei morti, i partenti che non sono potuti essere presenti a fianco ai loro cari nel momento del trapasso da avvisare, per telefono, il dover stare lontano dalle proprie specializzazioni, chirurghi che si ritrovano a trattare con malati di malattie lontane dalle proprie competenze, un intero ospedale, il Grey Sloane, che di colpo diventa questo, un ospedale Covid. I tendoni all’ingresso, le barriere all’ingresso, i pazienti intubati, le mascherine ordinate che non arrivano. Notizie che abbiamo imparato a farci scorrere sulla pelle, perché questo fa il subconscio, rende possibile la metabolizzazione di una anomalia altrimenti impensabile, ci spinge a rimetterci in piedi anche in assenza di spina dorsale, ci induce a guardare avanti quando un avanti apparentemente neanche è tratteggiato a grandi linee, figuriamoci se è riconoscibile. Non certo qualcosa che ci distragga, quindi, che renda più leggere giornate di loro piuttosto pesanti. Non una distrazione magari anche necessaria, quanto piuttosto una storicizzazione di un’epoca dalla quale, sembrerebbe guardandosi attorno e guardandosi attorno soprattutto in Italia, si stia provando a scappare in tutti i modi, anche nell’arte e nello spettacolo. Non dico, ripeto, che mi aspetterei una lunga sequela di racconti, canzoni, video, serie tv, spettacoli, nei quali l’attualità la faccia da padrona più di quanto già non stia facendo con l’informazione e l’intrattenimento tv, penso ai palinsesti riempiti solo di talk nei quali si parla solo e soltanto di Covid, in quel modo che abbiamo imparato prima a conoscere e poi a mal sopportare, il paternalismo, la colpevolizzazione, lo spostamento aprioristico del focus su temi anche prescindibili, lo sci, lo shopping, il cenone di Natale, le discoteche, non fatemi fare questo miserabile elenco, ma ambirei a qualcosa in grado di fermare quello che ci scorre sotto gli occhi, magari per provare a fornirci chiavi di lettura capaci di decifrarlo e quindi di comprenderlo, e volendo anche di superarne l’osticità, di sublimare il male mettendolo in mostra in chiave poetica, come nei secoli l’arte è riuscita a fare.

Non saprei dire se Grey’s Anatomy sia o meno arte, personalmente penso di sì, anche piuttosto rilevante, sono tra quanti ritengono che le serie tv siano parte della letteratura contemporanea, certo, tanto quanto sono convinto che lo siano le canzoni, con tutti i distinguo del caso, quello che però so è che non fare i conti con l’oggi non rappresenti tanto una via di fuga, e fuggire da una apocalisse potrebbe anche essere utile, se non necessario, quanto piuttosto un ficcare la testa sotto la sabbia mentre l’apocalisse procede a larghe falcate verso di noi, lasciandoci così sprovvisti non solo di strumenti per sopravviverne, ma anche semplicemente consci.

E quindi torniamo a Wayne Coyne e ai suoi Flaming Lips, a quell’American Head cui facevo riferimento in apertura di questo capitolo. Come accennavo sopra, l’album sembra di colpo aver riportato la band nel cuore della critica, che evidentemente li aveva un pochino persi di vista. L’ascolto di queste tredici tracce, tante sono le canzoni che compongono la tracklist del nuovo lavoro della band, è qualcosa che ci immerge fino al collo nella palude dell’oggi, lasciando che però resti fuori la testa, o almeno la bocca e il naso per permetterci di respirare.

Gli ingredienti presenti sono i soliti proposti lungo una trentennale carriera, da un folk dalle tinte psichedeliche che affonda le radici negli anni Sessanta a un pop d’autore di chiara matrice americana, passando per tocchi di p-funk elargiti in questo caso con non troppa generosità, con un respiro cosmico che appunto ci riconcilia col mondo. Il cantato di Coyne è quantomai radicale, rarefatto quando deve esserlo, certo, ma sempre capace di fare proprie tutte le melodie, anche quelle meno potenti come la finale My Religion is You, con per contro un assolo di chitarra che da solo meriterebbe tutta l’attenzione del mondo.

Canzoni che ruotano in buona parte, anzi, decisamente tutte intorno al tema della morte, affrontandolo con i mezzi e le modalità che da sempre riconosciamo a Coyne, quelli cioè di chi di fronte a un mostro che si è accomodato non invitato alla nostra tavola, non può che fraternizzarci, a tratti irriderlo, sempre e comunque giocarci, con la levità del saltimbanco e la cupezza del poeta, con l’ironia del postmodernista e lo sguardo allucinato del beatnik. Se i ritmi sono decisamente rallentati, più ballad che impennate rock, è comunque evidente come i Flaming Lips cerchino attraverso questo loro lavoro, ripetiamolo, decisamente a fuoco, di camminare sulle braci ardenti non solo portando in salvo la pellaccia, ma anche indicando un cielo stellato al momento occultatoci dal fumo e dalle fiamme.

La domanda che ci si potrebbe porre, essendo America Head posto in chiusura di un capitolo del mio diario del secondo lock down in cui invoco a piena voce che gli artisti raccontino l’oggi nelle loro opere d’arte, a questo punto è: ma il nuovo album dei Flaming Lips parla della pandemia che ci sta tenendo in ostaggio?

Sono, cioè, queste tredici canzoni che rincorrono la morte, la raggiungono, la imbambolano con note lievi e spazi immensi, tra sogno e cielo, frutto di una scrittura recente, o erano già lì, pronte per essere pubblicate, semplicemente profetiche come a volte le opere d’arte sanno essere?

Non ho risposte per queste domande, e non credo che saperlo cambi il senso di quanto ho scritto.

Tanto Shonda Rhimes quanto Wayne Coyne hanno fermato il tempo per noi, questo tempo anomalo e ostile nel quale siamo rimasti impigliati tutti quanti, non possiamo che essergliene grati e augurarci che anche dalle nostre parti qualcuno provi a farlo.