Requiem per Maradona, El Pibe de Oro

Maradona era una vera e propria rockstar, capace di regalare tutta quella poesia toccando un pallone coi piedi


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Abbiamo ripetuto in tutte le salse che il 2020 è un anno di merda. Iniziato male, tra incendi di foreste australiane, rischi di terze guerre mondiali, pandemie e tutto quello che giorno dopo giorno il calendario ci poneva di fronte, tra Black Lives Matter alle inondazioni, dai terremoti alle tante, troppe morti illustri. Ce lo siamo ripetuti e abbiamo ormai da mesi cominciato a fare una sorta di scaramantico count down, come se da qualche parte avessimo scritto nero su bianco che il 2021 sarà meglio, che finalmente ci lasceremo alle spalle tutte le disgrazie e le cupezze cui ci stiamo nostro malgrado quasi abituando.

Poi però arriva una notizia, per altro incrociata proprio all’ora in cui solitamente si vanno cercando i dati del contagio, i positivi, il numero dei tamponi, la agghiacciante conta dei morti: è morto Diego Armando Maradona. Una notizia che a ben vedere non avrebbe dovuto neanche sorprendere più di tanto, non solo per la recentissima operazione subita in Argentina, di quelle che metterebbero a rischio un fisico sano, figuriamoci uno come il suo, debilitato da una vita di stravizi e eccessi, ma perché proprio in virtù di questa conduzione esistenziale più da rockstar che da ex calciatore già il fatto che sia arrivato a sessant’anni avrebbe dovuto sorprenderci, chi corre lungo il crinale delle dipendenze e della vita spericolata difficilmente invecchia, non fidatevi di quanti continuano a parlare dei Rolling Stones come se fossero ancora i tossici di un tempo.

Lo dico apertamente, senza nessun pudore, la notizia della morte di Maradona mi ha lasciato di sasso. Mi ha addolorato come succede quando muore qualcuno che abbiamo caro, un amico, un parente, un artista che in qualche modo ha accompagnato tutta la nostra esistenza. In fondo lui, El Pibe, è stato proprio questo, un artista, capace di dipingere su tela con pallone tra i piedi, certo, ma anche capace di farsi capopopolo, la scelta di andare al Napoli, la vera vittoria mondiale dell’Argentina, non più viziata da Videla, quel suo andare costantemente contro i poteri forti, a costo di rimanere marginalizzato, certo col fianco scoperto proprio dalle frequentazioni sbagliate, da un modus vivendi non esattamente consono a chi dovrebbe essere votato allo sport più che alle droghe o all’alcool.

No, non è queste le parole che voglio scrivere, che devo scrivere.

Non è un ritratto di Maradona che può finire dentro il mio diario della pandemia, non sono uno che scrive di calcio, non sono neanche uno a cui tratteggiare ritratti o scrivere coccodrilli interessa. Vorrei provare a far passare da queste mie parole, abitualmente rivolte alla musica, come Maradona sia stato un artista tout-court, uno davvero capace di avere una sua visione del mondo, e di aver avuto due piedi talmente buoni, il sinistro su tutti, è chiaro, ma Maradona era Maradona perché i piedi li aveva buoni entrambi, una capacità di dare del tu alla palla, come si diceva una volta, di dribblare l’avversario mettendolo a sedere anche solo con un gesto del tronco così compatto, le gambe e le bracci corte, fatto che nella vita non è una gran fortuna, ma che se giochi a calcio si può rivelare come una vera miniera, non fatemi spiegare la questione delle leve, non è una lezione di fisica notturna su Rai3. L’idea che una squadra del sud potesse vincere lo scudetto, andando contro quelli che nel calcio da sempre sono i poteri forti, l’idea che potesse vincere incantando le folle, non solo quelle dei tifosi partenopei, perché a guardare Dieguito giocare a pallone era una vera poesia per tutti, avversari compresi, l’idea che un ragazzo che aveva imparato a giocare a calcio emancipando sé stesso e la propria famiglia dalla povertà, arrivando a elevarsi come star mondiale, sempre contrapposta all’altra star arrivata dal Sud America, Pelè, quello che a sua differenza era finito per impigliarsi nelle maglie strette del potere, uomo sistema tanto quanto Diego Armando era un rivoluzionario, uno che si era tatuato Che Guevara sulla pelle, che era andato a disintossicarsi dal suo amico Fidel Castro, che quando era stato squalificato perché dopo aver esultato un po’ troppo sopra le righe in una partita della nazionale contro la Grecia, ai Mondiali, aveva provato a spostare la questione su questioni sindacali, uno che aveva sparato ai giornalisti che provavano a fargli domande inopportune, che è apparso l’ultima volta in un video bizzarro, evidentemente sovrappeso e poco lucido, mentre balla con la sua signora mostrando il culo a favore di camera, l’idea che da oggi uno così non ci sia più rende questo nostro mondo molto ma molto più povero e triste.

Anni fa ho letto la sua biografia, Yo soy el Pibe, edita da Fandango. Un libro nel quale le vicende legate al mondo del calcio giocato, quello che in così tanti abbiamo seguito e amato, si mescolavano a vicende legate al sistema, le storture di un mondo che in effetti di sportivo nulla ha indicate con una lucidità che davvero difficilmente abbiamo letto nelle dichiarazioni di calciatori anche con un pedigree meno ombrato. Un libro bellissimo, perché intriso di una poesia tipicamente argentina, chiunque abbia mai parlato in spagnolo con un argentino ben sa di quel loro cantilenare così musicale, pura poesia, appunto. A un certo punto, come in uno di quei giochi tipo “chi butteresti dalla torre”, Maradona si prende agio di dire qualche parola sui calciatori più popolari del suo periodo, o quantomeno su quelli coi quali ha avuto più o meno direttamente a che fare. Come a volersi iscrivere in un pantheon, o a voler mettere i puntini su certe i. Le parole più belle le riservo a un calciatore che è esattamente a fianco a lui nel mio cuore, Pato Aguilera, centravanti uruguagio che ha dato il meglio di sé con la maglia del mio Genoa, in coppia col gigante biondo Tomas Skuravhy. Di lui Maradona dice che è uno dei migliori uomini che abbia mai conosciuto, sottolineandone la generosità. Pato Aguilera, è noto, non ha potuto partecipare alla partita d’addio al calcio di Maradona, tenutasi alla Bombonera di Buenos Aires, lui che aveva esordito con la maglia del Boca Junior, lui che aveva mosso i primi passi negli Argentions Junior ma che con la maglia blu con banda gialla aveva avuto il suo primo palcoscenico importante, quello che lo avrebbe poi proiettato nel gotha mondiale al Barcellona, prima e al Napoli, poi, lui, Pato, assente alla Bombonera perché impossibilitato a lasciare Montevideo, neanche troppo distante, in quanto agli arresti domiciliari. Un altro grande calciatore che aveva avuto problemi con la legge, uno che usava la palla come altri hanno usato la voce o la chitarra, ma ha sempre pensato al calcio come a una forma d’arte, entrando dritto dritto nel cuore dei tifosi, sorte non sempre toccata ai grandi campioni.

Ho pensato spesso, in questi anni, a come il calcio sia diventato tutta un’altra cosa, rispetto a quel che era quando ero bambino. Ci ho scritto su anche dei libri, su quel calcio e su quello moderno, tre per la precisione, andando a cercare conforto in un campione come Ibrahimovic, il solo, a mio avviso, che anche oggi interpreta il gioco del pallone come qualcosa di ascrivibile al mondo dell’arte, non fidatevi di quanti guardano alla stessa maniera a personaggi quali Messi o Cristiano Ronaldo, mentono sapendo di mentire. Guardando a quel calcio, quello fatto di ragazzi tozzi, con la pancetta, le braccia e le gambe più corte di quanto natura dovrebbe prevedere, campioni che giocavano insieme a altri con i baffi, il riporto, niente basette a punta, petti depilati, tatuaggi a effetto e look da tronisti, mi sono spesso se non sempre ritrovato a pensare che un po’ come nella musica quello fosse l’analogico, mentre il calcio attuale sia il digitale, peggio, lo streaming. Del resto, non ci sono dubbi a riguardo, Maradona era una vera e propria rockstar, ma una rockstar capace, altro che le piazze dedicate a Sfera Ebbasta, di regalare il sogno di un riscatto possibile a un popolo spesso martoriato, marginalizzato, tenuto con la testa sotto.

Vederlo scartarsi sette giocatori dell’Inghilterra, la guerra delle Falkland che aveva visto a sua volta Inghilterra e Argentina contrapposte ancora troppo calda per essere dimenticata, prima di infilare il pallone alle spalle di Shilton. Il tutto solo quattro minuti dopo aver spinto la palla in rete, in quello che un mondo senza Var aveva confuso per un improbabile colpo di testa, lui così basso contro i marcatori ben più alti di lui, era stata la Mano di Dio, ma più in generale vederlo segnare calci di punizione impossibile, ne ricordo uno incredibile, di seconda, da dentro l’area di rigore. Saperlo lì, in campo, a compiere magie che umanamente non erano neanche pensabili, figuriamoci se realizzabili, è sempre stato qualcosa che mi ha rasserenato, come quando uno pensa che se al mondo in un quartiere disastrato di Buenos Aires può nascere un ragazzino che un giorno farà impazzire folle oceaniche e di colpo capisce che la razionalità, in fondo, è sempre stata sopravvalutata, lasciarsi andare alla speranza e anche alla speranza malriposta può avere più che un senso.

Ho talmente tanto amato Maradona da arrivare non solo a perdonargli i tanti comportamenti al limite del legale che ha tenuto, specie da che ha smesso di giocare a calcio, seppur vederlo palleggiare sovrappeso, obeso addirittura, con la stessa eleganza e naturalezza con la quale palleggiò giovanissimo dopo essere sceso sul San Paolo di Napoli, la gamba da poco risistemata dopo l’intervento assassino di Goecoechea, in qualche modo me lo ha sempre fatto pensare come a uno che il calcio giocato non lo ha mai del tutto abbandonato, non certo perché faceva saltuariamente l’allenatore. Del resto una rockstar è tale anche in virtù dei suoi errori, del suo essere umano tra gli umani, a volte, spesso, più fragile degli altri umani, forse è da quelle fragilità che gli artisti come lui tirano fuori quelle opere destinate a rimanere nel tempo, nel suo caso quei palleggi, quei dribbling, quei goal.

Mio figlio Francesco, il gemello di nove anni, quello davvero appassionato di calcio, questa estate, nelle vacanze marchigiane che abbiamo fatto con tutte le cautele del caso, si è letto un libro che gli aveva regalato suo nonno Learco, mio padre, da sempre convinto, come me, che i due più grandi calciatori di tutti i tempi siano appunto Sivori, lui, mio padre, lo ama alla follia ancora oggi, e Maradona. Un libro che porta per titolo esattamente quel nome ormai diventato ufficialmente leggenda, Diego Armando Maradona. Lo ha divorato, e tornato a scuola lo ha messo nell’elenco dei libri che aveva letto durante l’estate, al fianco di qualche titolo di Garlando, sempre sul calcio, e di un paio di Geronimo Stilton. Tornati a Milano gli ho fatto vedere le sue azioni più belle su Youtube, cercando di fargli capire in cosa consistesse quella poesia di cui ho parlato qui sopra. Nei fatti non ho faticato affatto, perché Maradona è facile da capire, anche se si hanno solo nove anni. Lo vedi e capisci cosa significhi giocare divertendosi e facendo soprattutto divertire il pubblico sugli spalti. Ma soprattutto si capisce cosa significhi non mollare mai la palla, quei tocchi brevi e veloci dei piedi inimitabili a distanza di anni, diffidate da quanti guardano a Messi come a un suo ipotetico erede, tanto Maradona era dionisiaco e godereccio anche nel giocare, tanto Messi è una sorta di gesuita come il De Niro di Mission, uno che sembra non sappia far altro che pentirsi e espiare. Ecco, l’espiazione, mentre scrivo queste parole, giuro con le lacrime agli occhi, qualcuno ha ben pensato su Rai1 di celebrare il più grande calciatore di tutti i tempi parlando della sua caducità terrena. Come se parlando di Dio ci si soffermasse più sulle cadute sul Golgota che sul momento della resurrezione o sulla creazione. Quindi è tutto un parlare di processi, di multe salate e pendenti con la società delle entrate, di dipendenze spesso sostituite da altre dipendenze. Questa cosa, se possibile, mi avvilisce ancora più che sapere che non solo non potrò più vedere Maradona giocare al pallone, a questo in qualche modo mi ero rassegnato come tutti da anni, ma che non ci sarà mai più un altro calciatore come lui, perché il fatto stesso di essere trattato così da morto certifica che non era certo lui a essere sbagliato per il mondo, ma il mondo sbagliato per lui.

Vorrei avere parole più lucide da dire, magari aneddoti personali che, ahimé, non ho. Vorrei anche azzardare qualche altro paragone musicale, quello tra analogico e digitale è ficcante, me lo dico da solo, ma magari potrei trovare di meglio, potrei tirare in ballo qualche artista di un tempo e qualche mezza figura di oggi. Magari lo farò nei prossimi giorni, ora penso che andrò a rivedermi il film che gli ha dedicato Emir Kusturica, e poi passerò in rassegna tutti i video con le sue azioni presenti sul tubo. Spero che stasera in tv passino quell’Argentina-Inghilterra, o magari una qualche partita del Napoli dei tempi andati.

In questi casi, in genere, si dice, dopo aver sottolineato per l’ennesima volta che il 2020 è un anno di merda come mai prima, “oggi il mondo è più povero” o “ora insegna agli angeli a segnare di mano tirando in ballo Dio”. Concordo assolutamente con il primo postulato, che un angelo sia in grado di giocare a calcio come lui, invece, lo escluderei a priori. Tocca essere un buon diavolo come Maradona per regalare tutta quella poesia toccando un pallone coi piedi, questo ce lo potrebbe confermare Dio in persona.