Mai come in questi giorni ho bisogno di certezze, mi ripeto. Di rassicuranti certezze.
Di certezze e di belle notizie.
Parto dalle belle notizie, già ne facevo cenno giorni fa, Depeche Mode e Nine Inch Nails hanno fatto il loro ingresso allla Rock ‘n’ Roll Hall of Fame. Adoro entrambe, mi sembra una onorificenza più che meritata, per quanto una onorificenza possa essere sensata nei confronti di chi, è il caso delle band di Dava Gahan e Trent Rezonr, ha una carriera così luminosa alle spalle da essere entrata di diritto nella storia della musica rock assai prima che in quel luogo fisico. Resta comunque una bella notizia, non stiamo a sottilizzare.
Passiamo allora alle rassicurazioni. Alle certezze. Cercando di non discostarmi da questo punto di partenza.
I numeri.
Ecco, i numeri sono sicuri.
Anche per uno che ha deciso di dedicare la vita alle parole. E di applicare buona parte delle sue parole alla musica.
Checché se ne dica, infatti, il rapporto tra musica e matematica è molto più stretto di quanto un approccio scolastico col mondo dei numeri non possa lasciar presagire. E non solo quello della musica.
Intendiamoci, ho fatto il classico ormai parecchi anni fa, quando la matematica era in effetti una materia affrontata per pochissime ore la settimana, mi sembra di ricordare un paio, e in tutti i casi aveva una scarsa considerazione anche all’interno del consiglio di classe, e ho poi deciso di dedicare la mia vita alle parole, quindi non sono teoricamente la persona più idonea a impiantare una apologia di algebra e geometria, ma è non è un caso che un tempo si occupavano di numeri i filosofi antichi, e che la logica sia alla base sia del pensiero filosofico che di quello matematico, appunto. La musica è fatta di numeri. Si parla di battute, di frequenze, di intervalli, di scale, la diatonica sembra abbia come progenitore addirittura Pitagora, proprio quello dei teoremi che portano il suo nome, e a voler essere pragmatici, tanto per non continuare a dover star qui a tirare fuori esempi, il pentagramma, che già prende il nome da un numero è nei fatti un piano cartesiano, né più né meno, con le ascisse a indicare il tempo e le ordinate a indicare la frequenza del suono.
Non a caso la musica dodecafonica, facendo proprie le istanze della Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach e portandole agli estremi, proprio su uno stretto rapporto tra le simmetrie geometriche e le progressioni armoniche si basa.
Esistono quindi artisti che, volutamente, cercano nello scrivere canzoni la protezione rassicurante dei numeri, una sorta di circolarità nello scrivere, cioè una struttura chiusa, simmetrica, appunto, che proprio per quel suo essere logicamente inattaccabile fornisca a chi la canzone l’ha scritta e a chi la ascolta una qualche sicurezza supplementare, come di chi sa che a una determinata azione corrisponde una determinata reazione e non resta deluso. Necessità, questa, forse figlia di una educazione borghese, o di studi scientifici, studi tenuti in gran conto, questo ovviamente senza perdere la parte irrazionale che il creare presuppone.
David Foster Wallace, in questo, anche in questo caso, può esserci di aiuto.
Scrittore bulimico, ossessionato dalla ricerca della frase perfetta, dell’incastro a prova di bomba, mai a discapito della resa poetica, va detto, Foster Wallace ha a un certo punto della sua carriera, dopo cioè aver sfornato il suo romanzo mondo, considerato a ragione un classico del Novecento, Infinite Jest, deciso di dedicare un’opera intera alla matematica, andando a intessere non solo le lodi di una materia sulla carta a lui ostile, ma addirittura a cercare e trovare quei legami con l’arte e la vita che spesso chi non ha avuto modo di approfondirne lo studio per sua natura ignora. Così è venuto fuori “Tutto e di più- Storia compatta dell’infinito”, nel quale si dedica appunto nello specifico allo studio dell’infinito, aspetto questo, per altro, che ha in sé molto di poetico, senza dover tirare in ballo quel Leopardi che proprio all’Infinito ha dedicato una delle poesie più amate al mondo, è evidente come il concetto stesso di infinito, e per traslato di profondità, sia alla base di così tanti pensieri poetici, anche dentro il mondo ristretto della musica leggera.
Torniamo alla musica, e alla musica dei Kraftwerk più bello specifico. Non credo dovrebbe essere necessario farlo, ma ecco un piccolo ripassino per i più distratti. Nel 1970 Florian Schneider e Ralf Hütter diedero vita a una band fondamentale per la musica del Novecento e del nuovo millennio. Non si legga queste parole come una esagerazione, non lo sono.
Musica rock basata su sintetizzatori e sequencer, essenzialmente, quindi, musica fatta da uomini attraverso programmi e macchine, non a caso il loro genere sarà definito nel tempo spacerock o electropop, pur partendo come alfieri del cosiddetto krautrock, che dall’origine geografica prendeva le mosse. Anche esteticamente i Kraftwerk hanno perfettamente reso l’idea che stava dietro il loro progetto artistico, apparendo sempre robotizzati, vestiti in tinte nere e rosse, tutti uguali a loro stessi, stesse pettinature vagamente plastificate, il cerone passato sulla faccia per disumanizzarli. I loro show, di conseguenza, sono sempre stati qualcosa che mescolasse effetti video futuristici con musica che è stata considerata talmente futuristica da essere stata oggetto di una insolita jam tenuta dal gruppo tedesco, in diretta da Stoccarda, parliamo del 2018, in compagnia dell’astronauta tedesco Alexander Gerst, in collegamento dalla Stazione Spaziale Internazionale, un evento organizzato dall’ESA, il corrispettivo europeo della Nasa. Il brano scelto, mica a caso, è Spacelab, del 1978. Certo non la prima volta che la musica uscisse dalla nostra atmosfera, ma in qualche modo la cristallizzazione di una visione del mondo decisamente votata all’infinito, appunto.
L’aver avuto una visione precisa del futuro, per altro coincidente con una visione che nel mentre trovava spazio nelle menti di altri artisti di altri campi, soprattutto quello letterario, ha segnato in maniera indelebile tutto quel che ne sarebbe seguito, dal rock, si veda appunto il recente ingresso alla Rock ‘n’ Roll Hall of Fame di Depeche Mode e Nine Inch Nails cui facevo cenno prima, due band gigantesche che proprio dall’utilizzo dell’elettronica in un contesto rock hanno mosso i propri passi, facendo poi propria la lezione che fu e è dei Kraftwerk, al rap, l’idea dei campioni, dei loop, dei sample, prima, e delle produzioni fatte con le macchine, è inutile girarci intorno, parte sempre da lì, come da lì parte una intuizione gigantesca che poi verrà sviscerata in maniere differenti in ambito dance, dalla House alla Techno, passando per tutte le sfumature del caso, Industrial in testa.
Ma è proprio l’immaginario poetico e estetico, oltre che musicale, dei Kraftwerk a attingere a piene mani nel mondo dei numeri, la loro scelta di apparire socialdemocraticamente tutti uguali, uomini robot che ironizzavano attingendo al post-modernismo per andare a picconare con colpi duri e perentori ai codici del capitalismo quanto del comunismo, su questo perfettamente in sincrono nel delineare una società di uomini-caselle tutti omologati e omogenei, stessi gusti, stessi bisogni, stessi stili di vita preordinati e codificati a monte. L’idea di lasciare che le macchine replicassero per lunghi periodi le stesse sequenze di suoni, per intenderci, fatto che oggi può apparire quantomai naturale, suonò all’epoca come qualcosa di squassante, punto di unione tra compositori classici decisamente lontani dal pop, magari non per loro scelta, penso alla Oram o a Berio, e il rock di band come i Beatles o i Beach Boys, capaci di creare strutture complesse in apparenza lineari. Del resto i loro lavori come Autobahn, considerato la loro svolta commerciale, Trans-Europe Express, Radio-activity o Computerwelt sono classici del rock esattamente come lo potrebbero essere Sgt.Pepper’s Lonely Heart Club Band o Pet Sounds.
Ma i numeri non sono applicabili solo alla musica elettronica, ci mancherebbe altro. La musica è legata alla matematica sin da quando esiste, e ancor più da quando qualcuno, a più riprese, ha provato a codificarla. Non a caso, per dire, il ritmo viene indicato e definito da delle frazioni, dico una banalità per la quale andrei sfottuto a lungo, ma tant’è.
Prendo un’ artista in apparenza sgarrupato, nell’immaginario, non certo nella resa delle sue opere, per provare a spiegare meglio in cosa la matematica sia presente anche in quello che viene a volte definito come un genere che parte dalla negazione della precisione e della definizione, il lo-fi.
Pensiamo a Beck e a quella parte della sua carriera che in genere viene indicata appunto così, o per usare un termine che però da noi ha preso tutt’altra piega, indie. La stessa Loser, canzone che lo ha proiettato in vetta alle classifiche di mezzo mondo, rientra in quella parte della sua carriera, carriera cui va contrapposta, in una sorta di dicotomia cervellotica, tutta la sua produzione prettamente pop, più curata e plastificata, come se fosse mai possibile dividere un artista e la sua arte in due.
Loser è una canzone in apparenza strampalata, un inno all’essere perdenti, costruito su un giro sporco di chitarra, molto blueseggiante, accordatura aperta e slide, su base elettronica, tutt’altro che sgarrupata. Un mix tra rap, questo il suo modo di incedere nelle strofe, e cantato folk, vedi il ritornello. Questo strampalato inno all’amore puro, assolutamente lisergico, che parte dal presupposto legittimo che nulla è decodificabile secondo un canone certo, una tavola di Lavoisier dei sentimenti che ci permetta di mettere ogni singolo elemento al posto giusto, i numeri possono essere molto rassicuranti, ripeto, ma i numeri non sempre sono facilmente identificabili, in natura. Attacca così, Loser, con un lungo elenco di frasi allucinate, ma nel ritornello Beck alza le mani, dichiara la resa incondizionata, è un perdente, perché non l’oggetto del suo amore non lo uccide?
Anche musicalmente, va detto, l’elettronica spinta delle strofe, un sitar in loop, la batteria che si ripete senza variazioni sul tema, quelle che in qualche modo costruiscono il postulato che intende certificare come tutto sia intellegibile secondo una logica, appunto, di causa e risposta, trova un’apertura armonica e melodica nel ritornello, sghembo, ritornello che rallenta lo scandire delle sillabe, respira più lentamente, ritornello che poi si chiude con quella domanda, assolutamente illogica, “perché non mi uccidi?”.
Del resto non è il porsi domande la base per qualsiasi ricerca scientifica?
Apro un inciso, aver citato l’indie, poco fa, lo pretende.
L’elettropop, uso un termine che i critici musicali italiani hanno tirato fuori, come tutti quelli atti a indicare un genere o un sottogenere, più per praticità e la pigrizia del dover star lì a descrivere suoni e strutture che si differenziano in realtà di poco dal pop tradizionale degli ultimi trent’anni, ha un credito aperto nei confronti nella musica italiana. Già per averne modificato la grafia, italianizzato come non succedeva dal ventennio, Louis Armostrong che diventava Luigi Fortebraccio, ma soprattutto per averne modificato il codice genetico, rendendo quello che era un suono non dico eccelso ma quantomeno interessante qualcosa di dozzinale, da corsi di grande magazzino. Un credito insanabile.
Non per altro, ma quanto di brutto è stato fatto dal nostro mainstream nel corso della prima metà degli anni dieci, anche un po’ dopo, diciamo almeno fino all’arrivo della trap e dell’indie, che è stato un chiodo arrugginito che ha cacciato un chiodo arrugginito, è qualcosa che grida assolutamente vendetta. Come se l’idea di pop elettronico equivalesse a togliere di mezzo tutti gli strumenti suonati davvero e omogeneizzare tutti i suoni verso qualcosa di plasticoso, in un range di BPM piuttosto circoscritto, e con una gamma di accordi altrettanto circoscritti, con conseguente impoverimento delle possibilità melodiche, per qualche anno il nostro pop è diventato una sorta di succursale del pop di cassetta americano. Anzi, no, è diventato l’hard-discount del pop americano, i cereali sottomarca di quel che, altrove, era ben fatto e ben scritto. Un gusto banale ha così contaminato tutto quel che è passato dalle nostre parti, finendo per rendere il genere, perché da noi si è talmente imposto da essersi elevato dalla condizione di sottogenere, inascoltabile.
Cioè, mentre all’estero un Beck prendeva la lezione dei futuristici Kraftwerk, e come lui tanti altri, dai Daft Punk a Kanye West, da noi avevamo Canova che omogeneizzava tutte le canzoni pop, roba da pene corporali.
Torno a Beck.
Mash-up è un brutto termine che è divenuto di uso comune. Almeno tra quanti frequentano le discoteche, o i programmi radiofonici che al mondo delle discoteche fanno riferimento. Significa fondere insieme due pezzi, due pezzi che, evidentemente, hanno qualche tratto comune già in partenza, un giro di basso, una progressione armonica, magari proprio la linea melodica. Brani che però, spesso, appartengono a generi differenti, che so?, un brano dance e un vecchio swing, roba che sulla carta appartiene a universi che non hanno ancora trovato un terreno comune, il momento in cui gli alieni sbarcano sulla terra accolti dal giro elementare suonato da un ragazzino su un vecchio synth.
Qualcuno potrebbe pensare ai mix, perché in fondo questo è sempre stato fatto nel mondo del deejaying, si prendono pezzi che hanno qualche tratto in comune e li si mettono in fila, a volte anche forzando la mano, cioè modificando la velocità di uno dei due brani, per far sì che possa aderire meglio al brano contiguo. Il mash-up, in realtà, va oltre, per questo gli hanno dato un nome proprio, seppur un nome decisamente brutto, a meno che non si trovi dentro un romanzo di James Ballard, sia chiaro.
Un nome che prende le mosse dall’idea di schiacciarsi, come avviene alle lamiere di due auto che impattino tra loro durante l’incidente, divenendo una sola massa informe. Ecco, detta così suona male, con un giudizio già insito tra le righe, ma non era mia volontà lasciarmi andare a un processo sommario.
Anche perché sto per dire, lo dico adesso, che quello che Beck ha fatto nel corso della sua ventennale carriera, con quel suo entrare e uscire dal pop, dal lo-fi, e da non so neanche io quanti altri generi, è una sorta di mash-up tra due realtà che, non si fossero scontrate a alta velocità su una qualche autostrada, sembrerebbero non avere nulla a che spartire tra loro, un pop elettronico in perfetto mood con l’elektropop di cui sopra e la nostra canzone melodica, quella che ci ha reso famosi nel mondo, per intendersi. Non a caso è nato in una famiglia di artisti concettuali, artisti che però non hanno mai rigettato le istanze pop, suo nonno, Al Hansen, era parte dei Fluxus.
Ma sto ancora una volta divagando, e non dovrei, perché il punto è che se assecondare una propria ossessione può in alcuni casi, spesso, portare a derive patologiche vere e proprie, esistono storie, quella dei Kraftewek per un mondo di numeri e automi, e anche quella di Beck per un mondo di incastri tra folklore e modernità, sono di quelle, che ci dicono che incanalare i propri “mostri” dentro una forma d’arte, pascere il proprio talento, concentrarsi con dedizione e costanza sulla scrittura può essere un ottima cura, e sono cosciente che parlare di “cura” e “mostri” in un discorso in cui si citano le ossessioni potrebbe fuorviare il lettore, sbilanciando gli ingredienti verso sapori amari, difficili da digerire, spiazzando il portiere della propria squadra saltando improvvisamente su un calcio piazzato che avrebbe dovuto vederci immobili.
In questo periodo di incertezze e brutte notizie aver cercato per qualche minuto di portarvi in un magico mondo di numeri, non so perché mi torna in mente la rilettura cyberpunk di Alice nel paese delle meraviglie di Carroll fatto da Jeff Noon, il titolo mi sembra fosse Alice nel paese dei numeri, o la tetralogia, sempre cyberpunk di Rudy Rucker, Software, Wetware, Freeware e Realware, sempre i numeri, sempre una visione del futuro, cosa che oggi sembra sia stata messa al bando nell’arte come nella vita di tutti i giorni.
Ecco, la vita di tutti i giorni, da qui ero partito, e dalla mia incapacità, o quantomeno difficoltà, di affrontarla nell’impossibilità di fare progetti a lungo termine.
Ho citato musica elettronica e scrittori di fantascienza, chiudo guardando al mondo dei videogiochi, mondo che non frequento più da che per giocarci toccava andare nel retro di un bar, munito di monetine.
Coi videogiochi funziona così. Funziona così da sempre, da quando per giocarci toccava andare nelle sale giochi, con le macchinette a gettoni. Le prime partite servono per prendere le misure col gioco. Le studi, vai a tentativi. Quando capisci come funzionano, quando comincia a capire come funzionano, ti addentri nei vari livelli, memorizzi meccanicamente le mosse da fare. Diventi anche più veloce, sempre più veloce.
Partita dopo partita sai già tutto quel che sta per accadere, gli imprevisti diventano prevedibili, perdendo la loro ragion d’essere. Diventi una scheggia. Certo, ogni tanto muori. Ma quando succede sei sempre qualche passo avanti rispetto la volta precedente.
Non è una memoria che segue la medesima logica che applichiamo, per dire, allo studio. Non serve utilizzare quei trucchetti come trovare una parola le cui lettere siano le iniziali dei nomi che dobbiamo ricordare, o associare date e luoghi al testo di una poesiola. No, è una memoria meccanica. Come quando di notte ci alziamo, al buio, e sappiamo dove appoggiare i piedi senza correre il rischio di dare un calcio col mignolo allo spigolo del comodino. Alla cieca fino al bagno, senza bisogno di accendere la luce per svegliare gli altri.
Gli altri. È successo che a un certo punto non c’era più nessuno che rischiavo di svegliare accendendo la luce nel cuore della notte, per evitare di lasciare il mignolo nello spigolo del comodino. Ma c’era un percorso da fare tra gli oggetti lasciati in una casa vuota, la mia casa vuota, oggetti che credevo di dover dimenticare, ma che alla fine ho dovuto imparare a ricordare, per andare al livello successivo.
Un percorso da fare, appunto.
Come in un videogame.
Un percorso che doveva portare da qualche parte, a un livello successivo, meccanicamente. O ci arrivi o è game over. Oggi non abbiamo più percorsi già imparati a memoria da fare. Tocca improvvisare, o stare fermi, e intanto passano i minuti, le ore, i giorni. Game Over.