La Vita Davanti A Sé, lo afferma sicuro Variety, è già in odore di Oscar. Non potrebbe essere altrimenti: il libro da cui è tratto di Romain Gary (che lo pubblicò sotto lo pseudonimo di Émile Ajar) vinse in Francia il Gouncourt. E la prima trasposizione cinematografica del romanzo, diretta da Moshé Mizrahi, si aggiudicò l’Oscar per il miglior film straniero, nel 1978.
Se allora a impersonare la protagonista Madame Rosa c’era una grande attrice come Simone Signoret, oggi quel ruolo tocca, per quello che assume inevitabilmente il tratto dell’evento cinematografico dell’anno, a Sofia Loren, che ritorna sullo schermo con sicurezza a 86 invidiabili anni, diretta dal figlio Edoardo Ponti, che cura anche la sceneggiatura insieme a Ugo Chiti e che era stato il regista anche, tra le altre, dell’ultima incursione materna davanti alla macchina da presa, una Voce Umana del 2013.
Ne La Vita Davanti A Sé, che sposta l’azione del romanzo dal quartiere parigino di Belleville alla Bari di oggi, un medico (Renato Carpentieri), affidatario del giovanissimo senegalese orfano di madre Momò (l’esordiente Ibrahima Gueye), chiede a Madame Rosa, una ex prostituta ebrea ormai anziana che accudisce spesso i figli di donne in difficoltà, di tenere con lei il ragazzino per un paio di mesi.
Momò è scontroso, sensibile e intelligente, e mancando di una guida che sappia indirizzarlo finisce in un brutto giro, mettendosi a vendere droga per conto di uno spacciatore (Massimiliano Rossi). È chiaramente l’incontro con Madame Rosa, contraddistinto da un enorme bisogno di affetto ben nascosto sotto una coltre di diffidenza, l’unica chiave per consentire al ragazzino di dare un indirizzo alla sua vita.
La Vita Davanti A Sé ha una progressione non memorabile, nella sua cadenza quasi illustrativa che segue didascalicamente gli snodi melodrammatici della vicenda, con un rapporto che parte nel segno del rifiuto e che è destinato prevedibilmente a vedere lo sgretolarsi del muro di estraneità reciproca. E certo nella legnosità dell’incedere ha un suo peso l’innesto di altri temi ponderosi, propri del romanzo, che hanno a che vedere con la persecuzione nazista e con gli smarrimenti della protagonista.
Ma tutto ciò, persino superfluo sottolinearlo, passa in secondo piano non appena entra in scena la Loren, che la domina con una presenza carismatica che irradia una misteriosa intensità, in una prova senza esuberanze, con una tastiera espressiva sintonizzata sulle peculiarità e le fragilità dell’età. Nel suo ritroso ma sincero modo di farsi madre risuonano gli echi di ruoli che ne hanno definito lo status leggendario, primo fra tutti, nella napoletanità suggerita attraverso piccoli tocchi e inflessioni, la Filumena Marturano eduardiana da cui Madame Rosa riprende, senza bisogno di esplicitarla, l’essenziale, umanissima filosofia (“’E figlie so’ figlie”). E il piccolo Gueye è un contraltare credibile, nella sua ostinazione fiera e indifesa, e qui è anche bravo Ponti a dirigerlo.
Ponti, appunto, che insieme a Chiti si sforza di aggiungere qualche accento che dia personalità al racconto: il riferimento ai Miserabili di Victor Hugo (il furto dei candelabri), la metafora dell’antico tappeto da rammendare, i poco convincenti intermezzi fantastici. E soprattutto il confronto tra possibili figure paterne davanti alle quali Momò deve capire che tipo di uomo vuole diventare: da un lato lo spacciatore che offre una scorciatoia per ottenere soldi e rispetto (che è un cattivo non macchiettistico), dall’altro un negoziante musulmano (Babak Karimi) colto e gentile, che prende a cuore il destino del ragazzino.
La Vita Davanti A Sé non riesce mai a mostrare, al di là della correttezza della messinscena, un autentico stile. O meglio, lo stile del film è quello di Sofia Loren che, assecondata da un buon cast, ne scolpisce fino in fondo l’identità. Non sarebbe potuto essere altrimenti. Ed è giusto così.