Tutto su Hybrid Theory dei Linkin Park, la mazza chiodata del nu metal

Hybrid Theory dei Linkin Park ha dato nuova voce alla rabbia di una generazione. Ecco la storia del primo album della band di Chester Bennington

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Hybrid Theory dei Linkin Park è la storia di un ibrido che oggi diventa un modello. Il titolo del disco tradiva uno dei tanti nomi della band, che in una delle fasi di scelta di un’identità arrivò a chiamarsi proprio Hybrid Theory. Gli anni ’90 stavano per chiudere i battenti e la band, che fino a quel momento aveva registrato una demo insieme all’allora cantante Mark Wakefield, faceva fatica a trovare un produttore.

In famiglia arrivò Chester Bennington, ragazzo di talento che coniugava il growl del metal più estremo alla dolcezza di un cantato che sfiorava la lucentezza del pop. I Linkin Park si chiamavano ancora Hybrid Theory e avevano inciso un EP nel 1999. Il cambio di rotta arrivò con il contratto firmato con la Warner, che portò la band a cambiare nome in Linkin Park e a mettersi al lavoro per il primo disco ufficiale.

La scena nu metal era già forte di grandissimi nomi: il passaggio al nuovo millennio era dominato dai Limp Bizkit di Significant Other, dai Deftones di White Pony e dai Korn di Issues e farsi largo in realtà già consolidate che fondevano il rap con il metal poteva essere una catastrofe. Non avvenne, perché i Linkin Park, dalla catastrofe, avevano imparato ad urlare.

One Step Closer offriva un Bennington minaccioso e furente, e Papercut non era da meno: il mondo aveva appena scoperto quanto dolce fosse la rabbia delle nuove generazioni. Hybrid Theory dei Linkin Park offriva anche momenti di rara bellezza come In The End e Crawling. A tirare fuori il meglio dalla band fu il produttore Don Gilmore che affidò a Andy Wallace il mixer.

Il 24 ottobre 2000 Hybrid Theory dei Linkin Park si presentava come un vero e proprio ibrido, quasi un esperimento destinato, però, a diventare un modello per la nuova generazione nu metal.