MI Chiamo Francesco Totti, il ritratto di un campione, e della sua città

Fino al 21 ottobre è in sala il film che Alex Infascelli ha dedicato al capitano della Roma. Che commenta in prima persona spezzoni che ripercorrono sin da bambino la sua carriera da predestinato. Il 16 novembre il passaggio su Sky

Mi Chiamo Francesco Totti

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Doveva essere un’apoteosi l’anteprima di Mi Chiamo Francesco Totti alla Festa del Cinema di Roma, col previsto dialogo del protagonista con Pierfrancesco Favino. Poi invece Totti, con uno stile che s’addice all’uomo, piuttosto schivo, s’è sottratto per il rispetto che si deve alla memoria del padre Enzo, recentemente scomparso, presenza discreta ma costante, insieme alla madre, il fratello e quel nucleo inscalfibile degli amici di sempre di Porta Metronia, nei tanti spezzoni di questo film costruito da Alex Infascelli come un album di ricordi da sfogliare insieme.

Ed è esattamente questo il pregio maggiore di Mi Chiamo Francesco Totti, il cui titolo va pensato pronunciato non con tono stentoreo, ma diretto e quotidiano, com’è nelle corde del calciatore che lungo tutto il film commenta in voice over la sua storia. Che parte da un bambino di due anni il quale, in un filmino al mare traballante e sgranato come quelli di qualunque famiglia italiana di una volta, cerca di tirare calci a un pallone esageratamente grande. E che prosegue attraverso le tappe straordinarie di un atleta che è stato da subito un predestinato. Di quel destino che, dice Totti, esiste, anche se poi lo capisci solo alla fine che era tutto scritto.

Il documentario, con dietro una macchina produttiva importante (Wildside, The Apartment, Freemantemedia, Capri Entertainment, in collaborazione con Rai Cinema, Vision Distribution, Sky Italia e Amazon Prime Video) è fino a mercoledì 21 per tre giorni al cinema come evento speciale – dopo il primo giorno è già in testa al box office con quasi 180mila euro, risultato tutt’altro che disprezzabile nel magrissimo botteghino di questi tempi – in attesa del passaggio su Sky il 16 novembre.

Infascelli ha confezionato una storia partecipe e affettuosa, “come un tema in classe – ha detto – volevo semplicità perché Francesco è semplice”. Il racconto parte dal Totti di oggi incappucciato e solitario ritratto a casa sua, cioè al centro del campo di uno stadio Olimpico vuoto e spettrale, minaccioso ed epico come il Colosseo. E inevitabilmente il tono inclina verso una certa retorica, con tratti di trionfalismo e persino di epicedio – tifosi che, il drammatico 28 maggio 2017 del ritiro del campione, dicono che sta andando in scena “il funerale di Roma”.

Il racconto funziona e ha un senso più profondo perché Mi Chiamo Francesco Totti riesce a essere non semplicemente l’omaggio a un grande campione, ma all’ultimo dei campioni che ha scelto di restare in contatto con le sue radici, facendo coincidere il suo mito popolare con le strade, la gente, gli umori della sua città. Sono quelle radici a dargli l’equilibrio necessario per non farsi travolgere dalla fama. E nell’unico momento della carriera in cui davvero tentennò, l’offerta di un contratto miliardario al Real Madrid, è ancora una volta l’affetto persino asfissiante della città a offrirgli la risposta che cerca: “Ma come faccio ad andare via da Roma? Io so’ de Roma e basta”.

Attraverso Totti, esempio ormai rarissimo di portabandiera che ha dedicato l’intera carriera a una sola squadra, passa in filigrana il racconto della capitale e di certo spirito capitolino. Talvolta irridente, insieme mammone e strafottente. Talvolta impetuoso e aggressivo: come nei momenti, che lasciano sgomenti, dell’addio al calcio di Giuseppe Giannini, il “principe” che per il giovane Totti era stato un modello, una partita che doveva essere una festa e che per la frustrazione dei tifosi si trasforma in tutt’altro. Una rabbia che coinvolge lo stesso Totti, di cui non ci vengono risparmiati momenti poco esemplari che l’atleta stigmatizza a modo suo, “sono un rosicone”.

Certo, per essere un film davvero grande a Mi Chiamo Francesco Totti manca l’elemento conflittuale – pensiamo a quello che ha fatto Asif Kapadia con l’assai più controverso Maradona. C’è qualche inciampo, l’infortunio prima dei mondiali del 2006, Luciano Spalletti ritratto nel ruolo del cattivo che, alla fine della carriera di Totti, gli mette il bastone tra le ruote e non lo lascia giocare. Non basta però a dare un tono più sbalzato al racconto, che invece scorre seguendo un ritmo sereno e acquietato, come un piccolo romanzo popolare che nel finale rischia di trasformarsi, sulle note sognanti e carezzevoli di Claudio Baglioni, quasi in un fotoromanzo.