Rock’n’Love di Matthew Lee: ritorno al futuro

Con il suo nuovo album Matthew Lee si dimostra non solo rocker di gran classe, ma anche crooner confidenziale


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Io e Matthew Lee abbiamo un rapporto complicato, direbbe Facebook. Perché nonostante siamo praticamente compaesani, io di Ancona lui di Pesaro, nonostante viviamo nella medesima città, Milano, nonostante addirittura abbiamo avuto un musicista in comune, il suo ex bassista Giampiero Latini suonava nella band nella quale ho militato io da ragazzo, nonostante tutto questo non sono mai riuscito a vederlo dal vivo. E dire che occasioni ce ne sarebbero state. Ne cito due, le ultime che io ricordi. L’ultima, in ordine di tempo, mi ha visto sbagliare clamorosamente locale, arrivo nel posto dove avrebbe dovuto fare uno showcase, sacramento cercando di trovare parcheggio, trovare parcheggio a Milano è disciplina che meriterebbe di diventare olimpionica assai più del Ping Pong, percorro a piedi il circa mezzo chilometro che divide me e il parcheggio che ho finalmente trovato dal locale in questione e niente, scopro che il locale in questione è chiuso e che in effetti lo showcase si terrà in un altro locale, dalla parte opposta di Milano, addio showcase.

La volta prima la faccenda è stata addirittura comica. Il suo precedente manager mi invita, ripetutamente, ad andarlo a sentire dal vivo. Fa leva sul mio amore per la musica suonata, per il rock’n’roll delle origini, fa leva sulla nostra corregionalità, sul bassista di cui sopra. Insiste talmente tanto che, nonostante una mia patologia ritrosia a trovarmi in luoghi nei quali potrei trovare addetti ai lavori, intendendo con questi miei sedicenti colleghi o gente che comunque ha a che fare con la discografia, cedo. Ne approfitto, Matthew suonava al Blue Note di Milano, dove si può anche cenare, per uscire una sera con mia moglie. Abbiamo quattro figli, uscire noi due soli è una sorta di impresa epica e al tempo stesso di sogno irrealizzabile. Andiamo, quindi, sacramentando per il parcheggio, siamo sempre lì. Arriviamo all’ingresso, e come sempre il Blue Note non fornisce dettagli precisi su cosa andrà di scena, dettaglio da tenere a mente e mettere momentaneamente da parte.

Entriamo, vado alla cassa e chiedo due accrediti a mio nome. Il tipo alla cassa guarda la lista, la guarda di nuovo, la guarda una terza volta e mi dice, “mi spiace, non ci sono accrediti a suo nome”. La cosa di arrivare alla cassa accrediti e non trovare accrediti che dovrebbero esserci è un grande classico, ma ciò nonostante il non trovarli non risulta una immane rottura di cazzo. A quel punto, in genere, devi chiamare l’addetto stampa, stavolta dovrei chiamare il manager, che anche quel giorno, nel primo pomeriggio mi ha scritto un promemoria su whatsapp, e fargli presente il disguido. Nello specifico, avendomi appunto scritto circa seicento volte, l’ultima poche ore prima, il fatto che non ci sia il mio nome nella suddetta lista diventa ancora più fastidioso, non perché io sia chissà chi, è una lista di accrediti per un concerto, non l’elenco degli iscritti ai Grandi della Terra o dei candidati del prossimo Premio Nobel, ma proprio per una faccenda di logica stringente. Invece che scrivere su whatsapp a me, penso, potevi mettere il mio nome nella lista. Sono stanco, con quattro figli succede spesso, e l’essere in procinto di entrare in un locale dove con buona probabilità incontrerò qualche addetto ai lavori non depone a favore del mio umore, per cui, contravvenendo alla mia religione personale, faccio un gesto del quale, in altra situazione, mi sarei pentito all’istante, dico: “Guardi, non mi faccia chiamare direttamente l’artista, controlli meglio”, il tutto detto con la voce più intimorente che riesco a fare, e vi garantisco che sono piuttosto bravo a fare voci intimorenti. Il tipo, infatti, si convince, quindi scorre col dito per la quarta volta la lista, poi, come il commissario Winchester dei Simpsons quando fa finta di fare una denuncia battendo a macchina su una macchina da scrivere immaginaria, si ferma su un punto del foglio chiaramente in bianco e dice, “Ecco qui il suo nome, scusi, non lo avevo visto,” e subito dopo ci consegna due accrediti.

Entriamo, io un filo imbarazzato dall’aver fatto l’arrogante con un povero Cristo che stava semplicemente facendo il suo lavoro. Lo sto facendo anche io, del resto. Entriamo, e come volevasi dimostrare, le prime persone che vediamo sono Caterina Caselli, il figlio Filippo Sugar con Marcello Giannotti, che dopo qualche tempo sarebbe finito dentro i miei articoli, e dentro i servizi di Pinuccio a Striscia per la faccenda del conflitto di interessi dell’ultimo Sanremo.

“Strano,” dico a mia moglie, “a un concerto di un artista della Sony,” all’epoca Matthew Lee era in capo alla Sony, “c’è la Caselli, che ha la Sugar. Magari se lo sta per portare via, ma mi sembra comunque un gesto piuttosto arrogante.”

Ci sediamo al nostro tavolo, mangiamo e poi, finalmente, le luci si abbassano, appena, al Blue Note funziona così. Sta per cominciare, quando sul palco arriva Raphael Gualazzi. “Ecco spiegato perché c’è la Caselli,” dico a mia moglie, “il concerto lo apre un artista della Sugar”. Gualazzi è marchigiano come me e Matthew Lee, solo che è di Urbino, mi sembra, quindi più conterraneo di Matthew Lee che mio. “Cavoli,” aggiungo, “avere Gualazzi come apertura di concerto è tanta roba, hai capito Matthew Lee…”

La faccio breve. Il concerto inizia. Raphael fa le sue canzoni, prevalentemente swing, perché evidentemente nel pesarese lo swing e il rock’n’roll va ancora piuttosto di moda, e tutto fila liscio. Fa una, due, tre, alla quinta canzone comincia a venirmi il sospetto che la sua non sia una apertura, ma non capisco cosa stia succedendo. E niente, succede che il suo ex manager, nell’ansia di convincermi a andare al concerto di Matthew Lee si è sbagliato di giorno, e mi ha spinto a uscire, con mia moglie, il giorno prima del concerto del suo artista. Quindi il tipo alla cassa non trovava il mio nome perché il mio nome non c’era, ci sarebbe stato il giorno dopo. Alla decima canzone, infatti, gli ho scritto e lui è tipo caduto dal pero. Ovviamente ha provato a convincermi della sua buona fede, di cui non ho dubitato neanche un nanosecondo, pregandomi di tornare anche il giorno dopo, eventualità che ovviamente non è stata presa in considerazione.

Credo ci siano almeno altre tre o quattro occasioni simili, ma queste due mi sembravano piuttosto significative, non sono mai riuscito a vedere Matthew Lee dal vivo per forze maggiori.

Ho avuto occasione di conoscerlo, di parlarci, lui ha partecipato al mio crowdfunding Monina Sì Monina No, andato in scena un paio di anni fa, ma non l’ho mai visto dal vivo. L’ultima volta in cui l’ho visto però, e veniamo a noi, è stato tra il pubblico di uno dei concerti rock più strepitosi cui mi sia capitato di assistere, un concerto, a questo punto posso dire a ragion veduta, a cui Matthew Lee avrebbe potuto serenamente partecipare anche stando sul palco. Eravamo in un locale della periferia di Milano di cui non ricordo il nome, ma ricordo perfettamente che aveva tutta l’aria di essere, nelle altre serate della settimana, quelle non dedicate ai concerti di rock’n’roll, dedicato a eventi che avessero come tema centrale il bondage e le dominazioni. C’erano infatti croci con lacci, catene e manette un po’ ovunque, e i colori vertevano parecchio verso il nero e il viola. Io e Matthew Lee eravamo tra il pubblico, per altro io ero il solo sprovvisto di ciuffo e gel nei capelli, oltre che il solo senza stivaletti a punta e altre amenità estetiche rockabilly, mentre sul palco c’erano tre giganti del genere, in ordine di apparizione Slim Jim Phantome degli Stray Cats, alla voce e alla batteria, e nel suo caso ovviamente si intende un rullante e un piatto, suonati ovviamente dal vivo, Jennie Vee degli Eagles of Death Metal al basso, e Brando alla chitarra. Un concerto strepitoso, a base di rock’n’roll primordiale, classico, di quelli che lo ascolti e non puoi che muovere il culo e anche la testa. Brando, per chi non lo sapesse, e se qualcuno non lo dovesse sapere credo che la vergogna dovrebbe essere il minimo sindacale, non è solo un produttore e discografico che nel corso degli anni ha collezionato dischi d’oro e e di platino, oltre che trofei, tra gli altri ha lavorato con i Modà, Dio abbia pietà di lui, Emma, idem, e Nesli, ma è stato un cantautore validissimo, lo sguardo puntato sui suoni di Memphis e Nashville, volendo anche nella Athens dei R.E.M., seppur il cuore a pulsare a Catania, nella Catania di Virlizi. Uno che, immagino, non fosse passato dall’altra parte della staccionata avrebbe ancora avuto un sacco di cose da dire, ma così è andata. Vederlo suonare, a me era già capitato al Summer Jamboree di Senigallia, forse addirittura quando ancora era il leader dei Boppin’ Kids, è stato uno spettacolo incredibile, il che acuisce il rammarico per il suo essere passato solo dall’altra parte della staccionata, ma quella sera, è evidente, ha quantomeno portato a un ulteriore ottimo risultato. Perché Matthew Lee non era lì per caso. Dovendo ragionare su a chi affidare la produzione del suo prossimo album, infatti, il pianoman marchigiano ha puntato a colui che più di ogni altro, in Italia, aveva non solo le capacità di muoversi nel sistema, ma anche la competenza per far suonare un disco, fatemelo chiamare così, come avrebbe suonato fossimo, appunto, in Tennesse invece che nella patria del Bel Canto. Bel canto, arriviamo davvero a noi, che Matthew Lee sa esprimere alla grandissima, perché Rock’n’Love, questo il titolo del suo nuovo lavoro, uscito per la Decca, la Decca, capito?, e prodotto da Brando non è solo un disco di puro rock’n’roll, suonato come Dio comanda, anche meglio, e cantato da una delle più belle voci che si trovano a pascolare nel nostro paese, ma è anche il lavoro di un crooner di classe che decide di confrontarsi con alcuni nostri classiconi, da Il Mondo a Come te non c’è nessuno, passando per Io ti darò di più e Senza fine, a riprova che quando si ha la voce e la si sa usare andare a pescare nel nostro repertorio anni sessanta è sempre garanzia di ottima resa.

Ora, ho detto, tra le righe, che l’album è suonato, e dirlo, oggi, sembra davvero tutto fuorché un pleonasmo, dal momento che nella stragrande maggioranza dei casi di musicisti nelle nuove canzoni non c’è traccia, ma qui non si tratta solo di musicisti veri che suonano strumenti veri, dal piano, appunto, strumento di appartenenza del nostro, alle chitarre, suonate dallo stesso Brando, passando per tutti gli altri del genere, ottoni, contrabbasso e via discorrendo, ma si tratta di saper usare uno studio di registrazione per mettere i suoni al servizio delle canzoni e dell’interprete che quelle canzoni andrà a eseguire. Per questo, anche per questo, l’idea di far duettare Matthew Lee con Paolo Belli, nel brano che regala il titolo all’album, suona particolarmente vincente, perché Paolo è da anni impegnato a girare l’Italia, fisicamente o televisivamente, con la sua Big Orchestra, una situazione che a Matthew Lee suonerebbe decisamente congeniale.

Rock’n’Love è un album che mescola sapientemente i suoni del rock degli anni Cinquanta, da Jerry Lee Lewis in poi, con i passaggi più belli della nostra canzone d’autore, quando canzone d’autore non implicava impegno politico ma solo grandi melodie e armonie e testi capaci di sposare sentimenti eterni.

Matthew Lee si dimostra non solo rocker di gran classe, ma anche crooner confidenziale, una sorta di Pat Boone versione 2.0, capace di mandare a casa, gli si offrisse l’occasione, il primo Michael Bublè che passa da queste parti, una voce non solo dal timbro chiaro e impeccabile, ma anche intonato e empatico.

Se è vero come è vero che durante il dopoguerra fu proprio il rock’n’roll la perfetta colonna sonora della ricostruzione e del rilancio dell’ottimismo, si pensi a Buscaglione o Carosone, è evidente come sia al rock’n’roll che dobbiamo affidarci ancora una volta, perché la strada sicura è sempre bene tenerla a portata di scarpa. Mettiamola così, è come se a bordo di una Delorean guardando al passato ci trovassimo di colpo proiettati nel futuro, o quantomeno in un futuro nel quale gradiremmo trovarci.

Grande album, questo, nel caso non si fosse sufficientemente capito. Un vero gioiello che potrebbe ambire a circolare anche fuori dai nostri confini. Album che, immagino, dal vivo avrà il suo ulteriore perché, sempre che il concetto di “dal vivo” sopravviverà, appunto, a quel che stiamo vivendo in questo anomalissimo 2020. Un prima prova ci sarà il 2 e il 3 ottobre al Blue Note di Milano, ovviamente farò in modo di perdermelo per un qualche malinteso o errore di percorso.

Uno a questo punto potrebbe pensare, volendo anche a ragione, ma perché invece di raccontarci di quando non è riuscito a sentirlo dal vivo, per altro soffermandosi in dettagli personali e fuori tema, l’autore del pezzo non ha dedicato la sua attenzione direttamente al disco, visto che par di capire sia un album più che meritevole? Confermando che sì, l’album è assai più che meritevole, vorrei sommessamente far notare che l’autore del pezzo, che poi sarei io, ha provato a simulare con questo suo scritto esattamente gli ingredienti che fanno di Rock’n’Love un grande album. Quindi un filo di arroganza, compiacimento nell’ascoltare la propria voce, ricorso a tutti i canoni narrativi, nel caso dell’album musicali, in grado di farci entrare in un mondo altro, decisamente poco vicino alla contemporaneità, riconoscibilità nella cifra e, qui me lo dico da solo, nel caso di Matthew Lee e del suo disco sono decisamente meno coinvolto personalmente, una capacità piuttosto fuori dal comune di portarci dove si vuole, in un altrove decisamente meno angosciante del nostro presente.