Sto Pensando Di Finirla Qui, su Netflix c’è il nuovo esercizio di stile di Charlie Kaufman

Dal 4 settembre sulla piattaforma il nuovo film diretto dallo sceneggiatore di “Essere John Malkovich” e “Se Mi Lasci Ti Cancello”. Un racconto enigmatico e pieno di simbolismi, che sfocia in un compiaciuto pessimismo d’autore

Sto Pensando Di Finirla Qui

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Sto Pensando Di Finirla Qui: sono queste le prime parole del film omonimo di Charlie Kaufman, tratto dal romanzo omonimo di Ian Reid, pronunciate, anzi pensate da una giovane donna (Jessie Buckley), che si chiama Lucy o forse Lucia o Louisa, che sta andando insieme al fidanzato Jake (Jesse Plemons) a conoscere i genitori di lui, in una sperduta fattoria di un’innevata provincia americana. Con cosa vuole farla finita la protagonista? La relazione con Jake? O con la sua stessa vita?

Durante il viaggio in auto parlano di arte, letteratura, teatro, cinema (“Forse guardo troppi film. Mi riempio la testa di bugie per far passare il tempo”. “Lo fanno tutti è il male della società”). Lei recita una sua tetra poesia, Ossa Di Cane che comincia con le parole “Tornare a casa è terribile”. Jake cita Wordsworth il quale, sottolinea, scrisse anche una poesia su una donna di nome Lucy, come (forse) la protagonista, “donna bellissima e idealizzata che muore giovane”, altro rintocco sinistro.

Giunti dai genitori di Jake (Toni Collette e David Thewlis), durante il pranzo si parla del lavoro della protagonista, che di volta in volta è scienziata, pittrice, poetessa. Non è solo la sua identità a slittare continuamente, lo è tutta la situazione, con i personaggi che in quel breve lasso di tempo cambiano d’aspetto, ora più giovani, ora più anziani o addirittura moribondi. La protagonista nella cameretta di Jake bambino trova libri che rimandano puntualmente alla loro conversazione in macchina, Wordsworth, la critica cinematografica Pauline Kael, la silloge di poesie Rotten Perfect Mouth di Eva H.D., vera autrice di Ossa Di Cane. Anche i quadri, melanconici paesaggi senza figure umane di cui la protagonista ha parlato a tavola, si scopre, sono di qualcun altro. C’è persino il classico sottoscala da film dell’orrore, mentre la situazione del pranzo farebbe pensare sulla carta a commedie leggere come Ti presento I Miei.

Ma, ormai è chiaro, tutte queste in Sto Pensando Di Finirla Qui sono solo false piste subito accantonate, per ricadere nella tetraggine di un racconto sempre più sfuggente e sfrangiato, col viaggio di ritorno in mezzo a una vera e propria tormenta di neve, altre interminabili discussioni, incontri singolari e un finale nella scuola superiore di Jake, nella quale i protagonisti s’imbattono anche in un altro personaggio che ha punteggiato in brevi inserti tutto il film, un dimesso e anziano inserviente dell’istituto.

Nella sovrapposizione di tempi e momenti di Sto Pensando Di Finirla Qui, coi protagonisti che ringiovaniscono e invecchiano, senza sapere neanche talvolta chi esattamente siano, c’è la ricapitolazione di tutto il cinema cerebrale di Charlie Kaufman. A cavallo dell’inizio del millennio hanno lasciato una forte impronta le sue sceneggiature per Essere John Malkovich, Confessioni Di Una Mente Pericolosa, Se Mi Lasci Ti Cancello (premio Oscar), con le quali ha imposto un trattamento del racconto che scarta dai canonici tre atti, attraverso una narrazione fratturata in cui si mescolano tempi e identità. Come se lo spettatore non stesse assistendo al semplice svolgimento d’una vicenda, ma osservasse dall’interno di una mente il suo incessante e caotico lavorio onirico (esattamente la situazione di Essere John Malkovich), fatto di associazioni, simboli, scarti dall’ovvio. Un’impostazione a suo modo affascinante e originale, che ha condotto però Kaufman in un vicolo cieco, divenuto più evidente nelle opere da lui stesso dirette, Synecdoche, New York, il film d’animazione Anomalisa e ora Sto Pensando Di Finirla Qui.

Nel suo cinema, i personaggi sono privi di autentica costruzione drammaturgica, proiezioni dell’idea di vita che vuole raccontare lo stesso Kaufman, che reitera sempre lo stesso modello di individuo, “immobilizzato – riprendo le parole di Franco Marineo in un bel libro sul cinema del terzo millennio – di fronte alla certezza di non essere pienamente, di non possedere una costruzione identitaria solida e completa: e allora il racconto, che muove i propri passi da questa constatazione del vuoto, da questa disordinata contabilità di una mancanza, gira intorno a una strategia narrativa basata sul vano tentativo di affermare un essere in vita”.

I suoi però sono purtroppo viaggi da fermo, nei quali, in Sto Pensando Di Finirla Qui è lampante, tutto quel che c’è da dire viene chiaramente esposto programmaticamente sin dall’inizio, dalla prima battuta addirittura. Mentre il frustrante e vano svolgimento del racconto segue un filo che non porta in alcuna direzione, né aggiunge nulla alla premessa. Semmai si accumulano simboli, la nevicata perenne, l’altalena nuovissima non si sa perché all’ingresso di un’abitazione diroccata, il personaggio dell’inserviente, il musical Oklahoma! e in generale tutto l’imponente bric-à-brac culturale perennemente esibito. Simboli che alludono, lanciano suggestioni opache che potrebbero significare una cosa ma anche il suo contrario, senza che mai nulla di preciso venga detto, e soprattutto senza discostarsi di un millimetro dal preambolo intorno al quale si continua perennemente a ruotare tra reiterate e sfiancanti variazioni sul tema.

Poi, certo, i film sono disseminati di tracce – incoerenze nella cronologia, lapsus verbali, riferimenti colti – con le quali gli amanti del suo cinema possono divertirsi come con un gioco enigmistico alla ricerca della soluzione nascosta. Sono esercizi ermeneutici appassionanti e arguti – invito a leggere questo su Synecdoche, New York – ma restano dei rompicapi risolti i quali si passa immediatamente oltre, perché hanno esaurito la loro funzione di stimolo all’esercizio delle facoltà cognitive. Una ginnastica dell’intelligenza anche utile, mai però propedeutica ad alcuna riflessione o insegnamento legato a qualcosa che riguardi davvero la nostra vita.

Jessie Buckley sul set insieme al regista Charlie Kaufman

E quindi, alla fine, ad emergere come autentica protagonista è la “mente pericolosa” del regista stesso. I personaggi sono privi di credibilità, non hanno carne né tridimensionalità, le loro estenuanti discussioni sono solo dei vettori puramente illustrativi, che ci conducono verso quell’unico personaggio che è l’ingombrante demiurgo Kaufman, con le sue idee sempre uguali che occupano ogni interstizio di qualunque suo film, nei quali è continuamente manifesto il controllo autoriale di ogni dettaglio (come il regista teatrale burattinaio di Synecdoche, New York che ha l’ambizione di mettere in scena uno spettacolo che coincida con la sua vita stessa).

Questo cinema altezzosamente non narrativo, col suo affastellare citazioni alte e pessimismi bergmaniani, punta a dire una cosa in sé anche condivisibile, però in fondo prevedibile, catapultandoci dentro una crisi di coppia che si fa specchio di una crisi esistenziale più generale, in cui la vita è presentata come un’esperienza di solitudine in cui vaghiamo incerti e insicuri fino all’inevitabile drammatica fine. Temi certo al fondo importanti, ma che espressi nella monotonia pessimista del corrucciato Kaufman si trasformano in intuizioni elementari, proprio perché non incarnate e sviluppate corposamente nelle storie di personaggi plausibili, e invece poste come macigni inamovibili al centro dell’inquadratura, pronti per essere ammirati da uno spettatore che finisce per annuire alla presunta pensosità dell’assunto solo perché intimorito dalla cornice serissima, di ostica e apparente forza intellettuale, nella quale è collocata la tesi.

Però a quel punto quel che si ammira non è il racconto, ma appunto la firma del deus ex machina Charlie Kaufman, per ossequiarne il genio esibito nel suo ennesimo esercizio di stile sulla disperazione e l’inanità del tutto. Ecco, al netto della sua indiscutibile intelligenza, Charlie Kaufman è un autore piuttosto esibizionista.