Niente è più folle che cantare l’ordinaria follia

Sono tanti gli artisti che raccontano la follia, vi spiego quali sono i miei preferiti e perchè

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Storie di ordinaria follia. È il titolo italiano di una raccolta di racconti uscito ormai una vita fa di Charles Bukowski, credo che chiunque sia stato adolescente tra quanti di voi stanno leggendo, o meglio, chiunque di voi sia stato adolescente nell’epoca in cui la vita la scoprivi anche leggendo i libri, non necessariamente e unicamente attraverso qualcosa da guardare nello smartphone sappia di cosa sto parlando. E se rientra in quella categoria e non lo sa, i fatti sono due, o non è mai stato attratto dal lato oscuro della forza, dai deragliati, dagli altri, o più semplicemente si è sempre accontentato di camminare su strade sicure, paesaggi monotoni, neanche una cagata di cane in terra. Lo so, ho chiaramente espresso la mia opinione a riguardo, pur senza averlo fatto direttamente, ma sono nato nel 1969, ero un ragazzo nel periodo nel quale internet manco esisteva, a livello di massa, ero un ragazzo di venticinque anni nei mesi nei quali un Dio cattivo e poco incline a stare dalla nostra parte ci portava via prima Kurt Cobain e poi proprio lui, il vecchio Hank, come mai non avrei potuto amare la sua poetica così cruda e cinica?

Storie di ordinaria follia, per altro, è il titolo italiano, dicevo sopra, perché nella versione originale, americana, il libro si intitolava Erezioni, eiaculazioni, esibizioni e generiche storie di ordinaria follia, ma figurati se in Italia nel 1967, anno della sua prima pubblicazione, qualcuno avrebbe mai usato parole del genere per il titolo di un libro. Già la copertina, io avevo la versione economica della Feltrinelli, comprata nel 1992, era di quelle che si facevano notare, uno sfondo nero al centro del quale campeggiava una porta aperta dalla quale si vedeva, occupava tutta la porta, il grembo di una donna inginocchiata, un fiore rosso a coprire il pube. Nei racconti, però, la follia di cui il titolo italiano faceva gran sfoggio era più che presente, stando almeno ai canoni dei benpensanti, dei regolari, come erano presenti anche tutte le altre indicazioni presenti nel titolo originale. Bukowski veniva considerato, a ragione, uno scrittore erotico, un vecchio sporcaccione, perché nei suoi racconti parlava spesso di sesso, di scopate, ma parlava spesso, molto più spesso, di fallimenti, di bevute, di deragliamenti, di disallineamenti col comune sentire, storie di ordinaria follia, appunto. Non a caso il suo libro più famoso, credo, si intitolava Compagno di sbronze, e per altro mostrava proprio lui, con la bella pancia da alcolista in primo piano, abbracciato alla sua tipa, un topo striminzito, le calze scure sopra sandali con zeppa e una fisicità che anche il più convinto sostenitore del body positive faticherebbe a far passare per decente.

Avete tutti presente, immagino, anzi, mi voglio proprio augurare, la nota foto che vede un giovane Frank Zappa di fianco a una altrettanto giovane Claudia Cardinale, no? È una foto di Greg Gorman, Frank veste calzoni a fiori, psichedelici, con su una maglietta a righe orizzontai gialle e rosse da far sanguinare gli occhi, in primo piano una semiacustica tipo Gretschen, lei, che lui tiene cinta alle spalle, ha una canottierina a righe orizzontali bianche e rosse, fine, con su una cinta spessa, da pirata, i pantaloni sono su tinte bianche e nere, maculati, entrambi hanno i capelli spettinati, cotonati, lui indossa anche gli occhiali da sole. Ecco, tanto è cool questa foto, alla quinta essenza del rock’n’roll e del fascino che l’essere rocker porta insito in sé, tanto è volutamente sgradevole l’altra, compiaciuta nello sfoggiare sgradevolezza, sciatteria, ineleganza.

Io amavo Bukowski, autore che ho divorato e che, una volta morto, nel 1994, credo di non aver più letto, come immagino capiti solo nei confronti di chi tanto abbiamo amato e che ci sentiremmo di profanare con letture postume, ma forse sto solo delirando. Come ho molto amato tanti autori che hanno giocato la loro partita mettendo in campo derelitti più o meno autobiografici, dal Malcolm Lowry di Sotto il vulcano al Brett Easton Ellis di Lunar Park, passando per tutta quella genia di personaggi usciti fuori dalla penna affilata di Hunter Thompson, di Denis Johnson, di Hubert Selby Jr. Ecco, forse Hubert Selby jr, caspita tutti i libri che ho molto amato nella mia gioventù erano editi da Feltrinelli, mi vien da notare, è stato l’autore che è riuscito a mettere meglio in scena quel tipo di follia dolorosa lì, uscendo dai registri per certi versi rassicuranti dell’autobiografico, perché nel momento in cui stai raccontando la follia derelitta di qualcun altro, credo, non puoi più nasconderti dietro certo autocompiacimento beffardo nel quale, per dire, Bukowski era solito rifugiarsi alla bisogna. Ultima fermata Brooklyn, Il canto della neve silenziosa, il cui racconto eponimo, quello sì, è un concentrato della sua vita e della sua depressione, Il salice, La stanza, Requiem per un sogno, sono libri talmente belli che, anche solo a riprenderli in mano mi si increspa la pelle, mi si taglia il cuore di quei tagli sottilissimi, quasi invisibili, ma certo non meno dolorosi di quelli erti e grossolani, che si fanno non a caso coi fogli.

Perché parlo di follia, o meglio di ordinaria follia?

Semplice, perché credo fermamente che raccontare l’ordinarietà sia un talento che troppo a lungo è stato ritenuto poco dotato di fascino, come se si dovesse per forza essere in grado di raccontare storie straordinarie o, peggio, come se guardando a sé stessi si dovesse sempre e in tutti i casi tirare fuori qualcosa di speciale, anche a costo di forzare la mano, ma senza le capacità affabulatorie del padre del protagonista del Big Fish di Tim Burton. Ma credo ancora più fermamente che raccontare la follia insita nell’ordinarietà, quelle crepe su quadri altrimenti piuttosto banali, senza guizzi, quel non riuscire a proseguire nei binari che la vita sembrerebbe volerci porre costantemente di fronte, sia talento ancora più importante, raro, fondamentale.

Sarebbe facile, a questo punto, iniziare a parlare di quei geniali artisti che, nel corso della loro carriera, in alcuni casi decennale carriera, si sono concentrati a cantare dei pazzi. Penso a un Tom Waits, per giocare sul facile facile, uno che sarebbe potuto tranquillamente finire dentro uno dei libri di Bukowski e se non è capitato è stato solo per un caso, o forse per un qualche errore. Uno che non a caso, nella sua parallela carriera di attore, così tante volte si è imbattuto in personaggi che con la follia hanno ben più che qualcosa a che spartire, così spettinato, si badi bene che sto giocando con la tavolozza delle metafore, così poco lucido nel suo essere costantemente a fuoco, così dolorosamente intriso di umanità. O potrei virare su aspetti che con la follia hanno sicuramente a che fare, ma che decisamente meno rientrano nei cliché bukowskiani, dalle canzoni di tutte le opere che vedono tra gli autori un Les Claypool, anima e leader dei Primus, sicuramente, ma anche di tante altre avventure, ultima in ordine di tempo in compagnia di Sean Lennon, non a caso in un concept che si intitola The Claypool Lennon Delirium, in nomen omen. E parlando di Claypool, bassista mirabolante, penna davvero incredibile, andare a pascolare nel campo nel quale semina e raccoglie Mike Patton è davvero un attimo, e nel caso del cantante a lungo di stanza in Italia, citare tutte le band che lo hanno visto e lo vedono protagonista è davvero impossibile. Certo, i Faith No More sono sicuramente l’anima più mainstream e nota del nostro, ma dai Mr Bungle ai Fantomas, passando per i Peeping Tom e tanti altri, è davvero impossibile stare dietro a un artista, più volte indicato come il più grande cantante in circolazione in ambito rock, che con la follia ha sempre flirtato, come nel caso degli altri nomi fin qui citati spesso giocando in una forma di ironia capace di rendere l’ascolto un po’ meno empatico e un po’ più sconcertante.

Ma è di un artista, anche lui poliedrico, a concentrare lo sguardo su certi territori così tanto stimolanti sembra sia impossibile poi muoversi dentro recinti troppo stretti, che ha nel corso della sua carriera raccontato tante storie di ordinaria follia, facendo di quel suo canto, di quel suo scrivere, qualcosa che dovrebbe essere tutelato come patrimonio dell’umanità. Parlo di Willy Vlautin, un tempo voce e autore dei Richmond Fontaine, da qualche anno anche autore di romanzi e racconti. Un artista, Vlautin, proprio come i nomi citati sopra, di mettere su pagina, o su disco, una galleria di perdenti e folli così nitida e vivida da sembrare viva. Confesso di averlo conosciuto prima come scrittore, col suo Motel Life, e poi come musicista, ma mai come nel caso dei suoi romanzi, dal già citato Motel life a Verso nord, passando per La ballata di Charley Thompson, The Free e Io sarò qualcuno, questi ultimi due usciti per la prestigiosissima, parlo di catalogo, casa editrice Jimenez, e degli album della band di capolavori assoluti come Safety, il loro esordio in bilico tra alt-country e post-punk, Thirtin Cities, We used to think the Freeway sounded like a river fino al recente Don’t Skip Out on me, colonna sonora strumentale del libro da noi tradotto come Io sarò qualcuno, il vaso comunicante tra opera e opera funziona alla perfezione, come se romanzi e album fossero visti come tasselli di una mappatura dei fallimenti umani, sempre raccontati e cantati, i perdenti e i pazzi, con una carica di solidale empatia da farci sanguinare gli occhi e gli orecchi, come un Raymond Carver capace di muoversi sulla lunga distanza, per intenderci.

Ecco, dovendo scegliere in compagnia passare una ipotetica prossima apocalisse, non che la auspichi né la preveda, è con gente come Willy Vlautin, Tom Waits, Les Claypool, Mike Patton et similia che vorrei trovarmi a condividere gli ultimi giorni, pronto poi a ritrovarmi chissà dove con Bukowski, Lowry e Selby Jr. In attesa che tutto ciò succeda, spero il più in là possibile, mi accontento di passare le mie giornate in compagnia delle loro opere, il dolore desolante raccontato e cantato è decisamente più affrontabile del dolore desolante vissuto in prima persona.