Cosa non va in Unorthodox secondo i più critici, dal titolo alla generalizzazione dell’esperienza di Esty

Secondo i più critici l'errore della miniserie Netflix è non aver considerato le esperienze di chi è riuscito a costruire una vita alternativa senza abbandonare l'ebraismo ortodosso

La miniserie Unorthodox su Netflix dal 26 marzo 2020

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L’anelito di libertà di Esty, intrappolata dalle rigide convenzioni della sua comunità chassidica di appartenenza, ha nutrito il talento di Shira Haas e fatto di Unorthodox il successo più imprevedibile e clamoroso del 2020. La miniserie Netflix, già in odore di nomination agli Emmy insieme alla sua protagonista, ha raccolto nei mesi un favore pressoché unanime, ma di recente sono inizati a emergere punti di vista alternativi e almeno parzialmente avversi ad alcune sue rappresentazioni.

Un saggio di Forward si sofferma ad esempio sull’approssimazione del titolo della serie. Diventare non ortodossa – unorthodox, appunto – si rivela per Esty meno semplice del previsto. Può decidere di non applicare i dettami della sua religione – si legge –, trasferirsi dall’altra parte del mondo, smettere di indossare spessi calzettoni e passare invece a jeans più lusinghieri, mettere da parte la parrucca e rasarsi i capelli senza comunque riuscire a diventare non ortodossa.

La critica si estende poi alla presunta licenza poetica per cui Unorthodox evita di soffermarsi su determinate consuetudini dell’ambiente in cui Esty vive, o addirittura altera palesemente la verità. Se il titolo della produzione è Unorthodox e la si presenta come la prima serie nella storia a offrire un ritratto accurato della comunità chassidica – argomenta Forward – è logico aspettarsi che tale accuratezza sia garantita davvero e che lo sguardo sulla comunità sia almeno vagamente veritiero.

Se queste premesse sono valide – si legge ancora – bisogna allora credere che l’esperienza di Esty possa corrispondere in buona parte quella di qualsiasi altra donna nelle sue stesse condizioni. Che la sua comunità sia davvero tipica, che al suo interno la vita continui a ruotare attorno alla tragedia dell’Olocausto, che le cognate si intromettano costantemente nella vita sessuale di una donna e che i problemi di coppia vengano discussi senza alcun tatto di fronte all’intera famiglia riunita.

Tuttavia, secondo l’articolo di Forward, in Unorthodox non c’è alcun tentativo di chiarire che l’esperienza di Esty è perlopiù personale e non ascrivibile all’intera comunità. Non ci si sofferma neppure sui lunghi rituali di preparazione alle cerimonie religiose principali, sui numerosi spostamenti dei membri della comunità per pellegrinaggi e commemorazioni di rabbini, sui numerosi eventi organizzati in seno alla comunità e il cibo che li nutre, sui luoghi di culto più rappresentativi e le piccole aziende familiari che alimentano l’economia di una tipica comunità chassidica, né infine sull’enorme squilibrio fra i membri più poveri e le famiglie più facoltose.

Sulla stessa linea le argomentazioni di Opendemocracy, secondo cui Unorthodox non riesce a sfuggire agli stereotipi tipici del suo genere, perché perpetua la falsa credenza che esista una sola visione dell’ebraismo ortodosso. Ciò che si limita a fare è suggerire che una persona che si sente a disagio all’interno di una certa nicchia dell’ortodossia non può evitare di lasciarla e iniziare un percorso di vita laico, senza prospettare alcuna soluzione intermedia.

Secondo questo saggio le esperienze di vita di Deborah Feldman, cui la serie Netflix si ispira, meritano rispetto al pari delle decisioni prese dalla donna dopo aver lasciato la comunità. Ciò non toglie che la visione di Unorthodox appaia monolitica all’autrice del saggio, convinta che, come già altri film in precedenza, la serie si fissi su una prospettiva che nega tutto uno spettro di approcci all’ebraismo ortodosso. Ci sono alternative al chiudere la porta in faccia alla propria vita, ma non offrono materiale altrettanto sexy.

Il vero problema – è la tesi di questo secondo articolo – è che una simile rappresentazione oscura le esperienze dei tanti che, pur fra mille difficoltà, riescono a trovare la propria strada fra i tanti approcci proposti dall’ebraismo ortodosso. Ciò non significa che queste persone non affrontino difficoltà quotidiane, che non lottino con precetti e leggi che a volte trovano difficili da accettare, o che non capiti loro di pensare che avrebbero una vita più semplice se si lasciassero tutto alle spalle. Semplicemente scelgono di vivere l’ortodossia in un modo che trovano consono alle proprie esperienze e che può persino arrivare a farle felici.

L’articolo di Opendemocracy conclude: giornalisti, sceneggiatori e registi servirebbero meglio sé stessi e il proprio pubblico se riconoscessero che l’ampio e variegato gruppo demografico degli ebrei ortodossi merita una rappresentazione più accurata e bilanciata, e che non tutto è bianco o nero. E tuttavia sorge il dubbio che siano proprio queste critiche a generalizzare e annacquare il messaggio di Unorthodox.

La serie Netflix offre sì una rappresentazione parziale della vita all’interno di una comunità religiosa claustrofobica, ma non ha mai avanzato pretese documentaristiche né ha mai spinto a credere che il viaggio per la libertà intrapreso da Esty possa essere sempre e comunque la miglior opzione. L’accuratezza nella rappresentazione della realtà dev’essere chiaramente un obiettivo irrinunciabile per qualsiasi produzione del genere, ma Unorthodox resta una potentissima storia di liberazione pur negli ovvi limiti della sua prospettiva.