The Blues Brothers, il cult movie con John Belushi compie quarant’anni

Il 20 giugno del 1980 usciva il film di John Landis. All’inizio le critiche furono negative. Poi la fama crebbe, grazie alla parata di stelle della musica nera, Ray Charles, Aretha Franklin, James Brown. E oggi questo mix di comicità, azione e musical è un classico leggendario

The Blues Brothers

INTERAZIONI: 1039

Il 20 giugno del 1980, esattamente quarant’anni fa, esce nei cinema statunitensi The Blues Brothers, con un’anteprima quattro giorni prima a Chicago, teatro di tutta la vicenda (in Italia arrivò il 13 novembre dello stesso anno). Oggi il film, diretto da John Landis e interpretato dai fratelli Jake ed Elwood Blues, cioè John Belushi e Dan Aykroyd, è considerato, più che un capolavoro, un autentico classico, un cult movie che trascende il giudizio critico.

Cult movie, ma non subito

All’uscita le cose andarono un po’ diversamente. Piuttosto scettico l’influente Roger Ebert del Chicago-Sun Times: “Un film bizzarro: ma se lo sono inventati in una discarica? La trama è molto semplice, a essere gentili”. Senza mezzi termini il New York Times: “Si dice che questo film sostanzialmente modesto sia costato trenta milioni di dollari. Cosa ci hanno fatto con tutti questi soldi? Un mucchio di incidenti d’auto”.

È vero, il film costò al di là delle previsioni, che s’aggiravano intorno ai 17 milioni di dollari, sebbene alla Universal, che lo produsse, non ci fosse un budget stabilito. Ma poco alla volta, pur partendo nel primo weekend con 5 milioni d’incasso, un risultato tutto sommato modesto, la fama del film crebbe, grazie soprattutto ai guadagni ottenuti all’estero, che sopravanzarono quelli americani. Una cosa, ricorda John Landis in un’intervista, che oggi è normale, ma al tempo del tutto inusuale. E alla fine il film raggranellò 115 milioni.

Perché The Blues Brothers, bizzarra storia di due musicisti fuorilegge dalle buone intenzioni contro cui si scatena una divertentissima caccia all’uomo, è diventato un cult movie? È sempre difficile individuare una ragione specifica. Anche perché gli autentici cult di solito non sono progetti programmati a tavolino che assecondano i gusti del pubblico, bensì operazioni che spiazzano le aspettative e che per questo intercettano e descrivono alla perfezione il proprio tempo.

Belushi ed Aykroyd, la strana coppia

In quanto a spiazzamento The Blues Brothers non scherza. In primo luogo, a quale genere appartiene? È un film comico, un musical, un action movie? In effetti, le tre cose insieme. Alla base di tutto ci sono due nomi: John Belushi e Dan Aykroyd. La strana coppia perfetta: il primo grasso, debordante e sulfureo, il secondo magro (almeno all’epoca), compunto e metodico come un ragioniere. Belushi è un trascinante corpo comico, un carattere bigger than life che all’altezza del 1973, quando i due si incontrano, ha 24 anni – era nato nel 1949 – e comincia a farsi un nome, gravitando nell’ambiente della rivista satirica National Lampoon, che grazie a un altro genio non meno autodistruttivo di lui, Doug Kenney, sta rivoluzionando la comicità americana.

Dato il successo, la testata amplia le ambizioni e produce quello stesso anno uno spettacolo teatrale, Lemmings, con nomi nuovi tra cui Belushi e Chevy Chase, che mette a gambe all’aria la mitologia peace and love degli anni Sessanta, mostrando il lato oscuro di un’epoca. Il festival di Woodstock viene presentato come “una tre giorni di pace, amore e morte”, con un supergruppo composto da Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Brian Jones, Duane Allman: tutta gente morta per overdose o incidenti in moto (della band fa parte anche il presidente Harry Truman, morto anche lui).

John Belushi e Joe Cocker, l’imitazione e l’originale

Belushi tra le altre cose nello spettacolo esegue un suo numero celebre, che poi porterà al Saturday Night Live, quello di un tarantolato Joe Cocker. Il commento della stampa, che dà improvvisa fama all’operazione e all’attore: “Non c’è bisogno di sapere che Belushi stia facendo l’imitazione di Joe Cocker per gustarsi la sua straordinaria esibizione di contorsionismo. Sembra che l’abbiano infilato in una presa elettrica, incespicando sulle gambe finisce a terra con un tonfo e continua a suonare mentre cerca di rialzarsi in piedi”. Allo spettacolo segue subito dopo la trasmissione National Lampoon Radio Hour, presentata da Belushi.

Dan Aykroyd invece nel 1973 ha vent’anni e si sta facendo le ossa a Toronto – è canadese, nato ad Ottawa – in un locale che si chiama il 505 Club. L’incontro con Belushi, che sta cercando nuove leve per la trasmissione è folgorante: “Fu amore a prima vista – ricorda Aykroyd – lui è il maschio alfa dell’Illinois, il tipo alla Teddy Roosevelt o Mick Jagger, un uomo di grande carisma, di quelli che fa girare tutti e domina l’ambiente intorno”.

The Blues Brothers, nasce la band

Quasi subito i due cominciano a parlare di musica. Il tranquillo canadese è ammalato di blues. Fa ascoltare a Belushi i suoi dischi preferiti, ma lui non li conosce. “Ma tu sei di Chicago!”, trasecola Dan. John però si fa conquistare. E quando Belushi abbraccia qualcosa lo fa a suo modo, sempre smodatamente: “All’improvviso fu solo blues, per tutto il tempo. Nel giro di un anno la casa di Belushi fu invasa da centinaia, forse migliaia di dischi blues”.

Nel 1975 l’avventura televisiva della prima edizione del Saturday Night Live sulla NBC, con loro due, Chase, Gilda Radner. La voglia di costruire una band si fa sempre più insistente, dato che Dan suona l’armonica e John è un performer naturale. Dovreste chiamarvi The Blues Brothers suggerisce Howard Shore, amico di Aykroyd e futuro autore della colonna sonora premio Oscar de Il Signore Degli Anelli. E così sia, nasce il complesso, col leggendario abbigliamento completamente nero da impresari delle pompe funebri, con occhiali da sole Ray-Ban Wayfarer. Si fanno le ossa suonando in giro, la voce di Belushi non è straordinaria ma l’animale da palcoscenico non si discute. Ogni tanto riscaldano la platea del Saturday Night Live prima della diretta. Fino a quando sbarcano nello show, il 17 gennaio del 1976, ma vestiti da api, cantando I’m a King Bee, un blues di Slim Harpo.

I Blues Brothers al Saturday Night Live

La grande occasione arriva nel 1978, quando Steve Martin chiede ai The Blues Brothers di aprire un suo spettacolo. Grazie all’intercessione di Paul Shaffer, direttore musicale del Saturday Night Live (poi colonna del David Letterman Show), arrivano dei professionisti straordinari: Steve Cropper e Donald “Duck” Dunn, musicisti che avevano fatto la storia della Stax, la casa discografica del soul, rispettivamente chitarrista e bassista dei Booker T. & the M.G.’s; e il chitarrista blues Matt “Guitar” Murphy, che aveva suonato con Howlin’ Wolf e Memphis Slim.

Un disco ed Animal House: Belushi in testa alla classifiche

La band di supporto diventa l’attrazione dello spettacolo, con numeri come I Can’t Turn You Loose di Otis Redding, in cui Jake ed Elwood, come nella futura scena del film, arrivano vestiti di tutto punto con la valigetta incatenata al polso. Subito dopo, contratto e disco con l’Atlantic: Briefcase Full of Blues esce nel 1978, primo posto in classifica da 2 milioni e 800mila copie. Nel frattempo, nello stesso anno, esce Animal House, il film di John Landis che consacra John Belushi, che col personaggio di Bluto Blutarski, peggiore studente universitario della storia americana, sovversivo e irreggimentabile, diventa la nuova stella del cinema americano.

John Belushi, il corpo sovversivo

Irreggimentabile Belushi lo è per davvero, ormai dipendente dalla cocaina, con cui mantiene il suo stile di vita a mille all’ora, sempre sul filo del collasso, che arriverà purtroppo nel 1982, quando morirà a soli 33 anni (la storia l’ha raccontata Bob Woodward, il giornalista del Watergate, nella sua biografia Chi Tocca Muore). Qualche volta Belushi mostra insofferenza. In un’intervista al Today Show del 1981 risponde candidamente alle domande del presentatore che “Alle volte non so cosa farò quando mi sveglio la mattina”; che lo disturba quando la gente lo riconosce per strada, “mi sento come un freak”; e che “non credo piaccia a nessuno essere in una situazione del genere”.

Lo spettacolo però va avanti. E dopo un film e un disco in testa alle classifiche, accostare l’idea del cinema ai Blues Brothers diventa inevitabile. Grazie all’intercessione dell’agente di Belushi, Bernie Brillstein, si drizzano le antenne dei produttori. Nel braccio di ferro tra Paramount e Universal quest’ultima ha la meglio. Si decide che The Blues Brothers si farà e a tempo di record: peccato che non ci sia uno straccio di sceneggiatura. La scrive a rotta di collo Dan Aykroyd, ne esce un malloppo da 324 pagine. L’attore, abbastanza scettico, fa recapitare alla Universal il copione, con la copertina gialla d’un elenco telefonico e il titolo Il Ritorno dei Blues Brothers, a firma di Scriptatron GL-9000, uno “scrittore automatizzato”.

Arriva The Blues Brothers, il film

Il numero due della Universal Ned Tanen lo legge: “Non finisce mai, sembra più un trattamento che una sceneggiatura”. Il problema è che due mesi dopo devono cominciare le riprese. Allora interviene John Landis, che infatti risulterà coautore con Aykroyd della stesura finale. Alleggerisce, riscrive e dà in tre settimane al tutto una forma passabilmente coerente. Senza un budget definito si comincia: il capo dei capi della Universal, Leo Wasserman, vorrebbe contenere i costi nei dodici milioni, come detto lieviteranno fino ai trenta. Un po’ colpa della difficile gestione del personaggio Belushi. Ma anche perché The Blues Brothers non è esattamente il classico film comico, pieno di  numeri musicali e scene d’azione – alla fine si contano 103 auto distrutte per gli inseguimenti, un record superato solo diciotto anni dopo dall’infausto sequel The Blues Brothers 2000, attestatosi a 104.

Sin dalla impossibile definizione del genere di appartenenza, The Blues Brothers mostra un inconfondibile profumo d’anarchia – che era già di Animal House, ma qui è amplificato. La storia di Jake ed Elwood Blues, il primo appena uscito di prigione, fratelli musicisti che rimettono insieme la vecchia band per raggranellare i cinquemila dollari che servono per non far chiudere l’orfanotrofio in cui sono cresciuti, è sempre sul punto di franare nel caos.

The Blues Brothers eseguono Everybody Needs Somebody

I fratelli durante la loro “missione per conto di Dio” riescono a inimicarsi chiunque, e finiscono inseguiti dalla polizia, l’esercito, una inferocita band di musicisti country, la ex fiamma di Jake, che lui ha abbandonato sull’altare, armata di bazooka, e infine gli immortali nazisti dell’Illinois – incredibilmente ispirati a un fatto di cronaca, avvenuto nel 1978 a Skokie, Illinois, dove i neonazisti poterono organizzare una manifestazione perché la Corte suprema dello Stato aveva deliberato che vietarla avrebbe costituito una violazione del Primo Emendamento.

Il profumo di libertà che trasmette la loro fuga perenne a cavallo d’una quattroruote – che, ironicamente, è un’auto della polizia – si collega idealmente agli eroi romantici, ingenui e ribelli del cinema americano degli anni Settanta, da Punto Zero a Sugarland Express. Ma il romanticismo si ribalta in comicità paradossale e demenziale, vista l’imperscrutabile aria da becchini che i Blues Brothers mantengono lungo tutto il film. Il quale, visto col senno di poi, sembra chiudere un’epoca, più che aprirla, lontanissimo dallo spirito degli anni Ottanta. Che al cinema (e non solo) più che romantici saranno, come recita l’etichetta del decennio, reaganiani e rampanti.

Il film di John Landis, insomma, per certi versi guarda indietro più che avanti. Ed è nostalgico nell’aggrapparsi a valori di un’altra epoca simbolizzati dalla grande musica (afro)americana, il filo rosso sentimentale che tiene insieme il racconto. Con le esibizioni della Blues Brothers Band, da Everybody Needs Somebody all’inno Sweet Home Chicago, passando per una ironica rilettura del country di Rawhide.

Il numero di Ray Charles

Ma soprattutto ci sono le incredibili guest star, che trasformano il film in un travolgente happening musicale: il reverendo re del funk James Brown (Landis avrebbe voluto Little Richard che predicatore lo era stato per davvero); Ray Charles che canta Shake a Tail Feather; l’inimitabile Aretha Franklin che propone il suo classico Think; il leggendario bluesman John Lee Hooker (non fosse stato malato ci sarebbe stato anche l’altro gigante Muddy Waters) che esegue Boom Boom in una ripresa di strada semidocumentaristica; c’è persino la swing era grazie a Cab Calloway col cavallo di battaglia Minnie The Moocher. A supporto, ci sono le coreografie di massa che sorgono intorno alle canzoni, che regalano un senso di spontaneità e improvvisazione, che s’accosta alla cadenza comica del film regalandogli calore.

The Blues Brothers possiede una doppia anima. Modernissimo nella sua demenzialità, nella fisicità esibita nel corpo di Belushi, nella critica – attraverso il caos e la distruzione continua di cose e automobili – alla tensione bulimica della dissipazione consumista. Poi c’è il cuore antico, con il sapore retrò del monumento eretto alla cultura musicale americana. E il film sembra in effetti consapevole di star raccontando il capitolo terminale di una storia, mentre il mondo intorno è alle soglie di una mutazione.

La sensazione traspare con molta più evidenza guardando la versione uscita in dvd, che dura dodici minuti in più (142’ invece di 130’). Nella quale, quando alla fine i Blues Brothers cantano Jailhouse Rock in prigione, il film non termina con l’elettrizzante e liberatorio ballo dei carcerati, ma con i secondini che s’organizzano per sedare il tumulto. Fa una certa differenza.

Think cantata da Aretha Franklin