33 anni: è l’età a cui sono morti John Belushi, nel 1982 e Doug Kenney, nel 1980. Il primo è una delle grandi icone del cinema statunitense e non solo, il secondo, ormai, è praticamente sconosciuto. Eppure insieme sono i maggiori responsabili, con meriti da condividere, del rinnovamento della comicità americana negli anni Settanta. Quella che sarebbe finita nel Saturday Night Live per capirsi, con le geniali gag del sulfureo Belushi. Le quali erano in gran parte state ideate a partire dall’esperienza precedente della rivista satirica National Lampoon, di cui Kenney fu fondatore e spina dorsale. È a lui principalmente che si deve il carattere della testata: il gusto per lo sberleffo senza confini, uno humour scettico vestito di uno stile volgare e politicamente scorretto che non risparmia nessuno, progressisti, conservatori, tantomeno se stessi.
Non si poneva limiti Kenney, questo era il suo migliore pregio artistico e il suo principale problema dal punto di vista personale (lo stesso di Belushi, ed entrambi, tra dipendenze ed eccessi, lo pagarono con la vita). National Lampoon era il tipo di rivista che, tanto per capirsi, una volta come copertina mise l’immagine di un cane minacciato da una pistola, con una frase che diceva “Se non compri questa rivista, uccideremo questo cane”. O quell’altra in cui la didascalia recitava: “Datemi una copertina con una bella ragazza, un cane o un bambino e io vi darò una rivista che vende” (una frase, pare, del magnate dell’editoria William Randolph Hearst), e quindi sulla copertina c’era l’immagine d’una graziosa massaia che serviva al suo piccolo un gustoso cane al forno.
Partendo dal successo della rivista, National Lampoon si sperimentò in altri formati, producendo dischi, spettacoli teatrali (Lemmings), un programma radiofonico (Radio Hour) e film, il capostipite dei quali infatti in originale s’intitola National Lampoon’s Animal House (1978), diretto da John Landis e interpretato da John Belushi. Il quale era stato l’animatore di gran parte di quegli show, dal teatro alla radio, trascinatore d’una fucina di talenti che poi sarebbe sbarcata in televisione al Saturday Night Live: gente come Dan Aykroyd, Chevy Chase, Gilda Radner, Bill Murray. Belushi era l’inesausto improvvisatore, inventore di sketch e imitazioni fondate su una fisicità straripante (da Marlon Brando in versione Padrino a un tarantolato Joe Cocker). Un corpo irripetibile il suo, allo stesso tempo grasso e atletico, scattante ed esagerato, con cui veicolava una comicità aggressiva, maleducata, disturbante che prima di lui non s’era mai vista in televisione.
Kenney e Belushi sono i fondatori di un nuovo linguaggio, di cui Animal House costituisce una sintesi felice. Un film scritto da Kenney (che nel film si ritaglia un piccolo ruolo da sovvertitore delle regole, portando un’impettita banda musicale a sfracellarsi contro un muro), in cui Belushi ha l’esilarante ruolo di John “Bluto” Blutarsky, repellente studente di medicina da sette anni al college (a memoria d’uomo l’unico fuori corso del cinema americano, sempre così attento a raccontare di studenti regolari e in regola con gli esami), onnivoro mangiatore e guastatore dell’ordine il cui solo, innocente obiettivo è godersi la vita.
Animal House resta uno dei pochi film sinceramente anarchici del cinema statunitense. Non perché esprima un esplicito punto di vista politico. Al centro della vicenda c’è il contrasto tra due confraternite studentesche (non dimentichiamo che Kenney veniva da Harvard): il Delta-Tau-Chi, solidale ricettacolo di reietti di ogni sorta, e l’Omega-Theta-Pi, che raccoglie la classe dirigente di domani, bionda, bella e ambiziosa (e naturalmente spalleggiata dal tirannico preside del campus). Lo spirito sovversivo del film è tutto lì: in questa contrapposizione tra il mondo rilassato e inclusivo dei felici perdenti e quello paranoico e competitivo dei tristissimi vincenti.
Questi ultimi sono fatti bersaglio di una comicità malevola, volutamente grossolana, che li ritrae fanatici, sadici e impotenti. Quando il dongiovanni del Delta, Otter (Tim Matheson) viene pestato da un branco di vigliacchi dell’Omega, li definisce senza mezzi termini “gioventù hitleriana”. Perché i ragazzi del Delta potranno anche sapere poco di storia (Bluto nel suo immortale discorso motivazionale ai compagni dice che “gli americani non si sono scoraggiati quando i tedeschi hanno bombardato Pearl Harbour”), ma hanno istintivamente chiara la differenza tra bene e male, giusto e sbagliato. E quando immaginano la vendetta finale, non pensano a una ritorsione feroce ma, come dice Otter, a “un gesto futile e stupido”. Quasi uno sberleffo. Contro il potere, insomma, ma non violenti: più anarchici di così. Ed è proprio questo il titolo della biografia dedicata a Kenney da Josh Karp: Futile and Stupid Gesture: How Doug Kenney and National Lampoon Changed Comedy Forever. I conti tornano.