Notti Magiche, il ritratto contropelo di Paolo Virzì del “grande cinema italiano”

Su Rai Tre alle 21.20 il film che racconta l’avventura di tre giovani sceneggiatori nella Roma del 1990. In un mondo del cinema italiano che sopravvive alla sua leggenda. Un film bistrattato, meno conciliante di quanto sembri

Notti Magiche

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Ettore, Mario, Citto, la stupenda Lina, Marcello, la straordinaria Mariangela, Tullio, Ennio, Dino”. Li ripete come un mantra questi nomi, rigorosamente senza cognome, il galoppino Virgilio (Emanuele Salce), che s’aggira come coscienza (infelice) del “grande cinema italiano”. Infelice perché appena smette la sua litania dice che non ce la fa più e vuole suicidarsi. Procede così, tra due estremi, tra esaltazione volontaristica e tetra disperazione, Notti magiche (2018, all’inizio si chiamava proprio Il Grande Cinema Italiano): un ritratto tra affetto e sgomento che Paolo Virzì ha dedicato agli ultimi scampoli del cinema classico, ritornando a quel 1990 in cui lui stesso s’abbeverava all’arte dei maestri della sceneggiatura per cui faceva il negro (oggi più elegantemente si dice ghost writer, insomma tu scrivi e un altro, più celebrato di te, firma).

Allora, pescando dalle sue stesse memorie ma anche inventando, esagerando, deformando, con Francesca Archibugi, che ha trascorsi simili ai suoi, e Francesco Piccolo, ha scritto la storia di tre giovani autori, come loro due ragazzi e una ragazza, che si contendono il premio Solinas per la sceneggiatura inedita. Sono diversissimi: Antonino (Mauro Lamantia), “l’intellettuale della Magna Grecia”, timido pomposo e cinéphile, che ricorda un po’ lo Stefano Satta Flores ammalato di neorealismo di C’Eravamo Tanto Amati; Luciano (Giovanni Toscano), che ha scritto una storia tristissima su un operario che s’è suicidato, ma ostenta un’esuberanza sintonizzata sul caravanserraglio cialtrone dei cinematografari romani; ed Eugenia (Irene Vetere), ipersensibile, insicura figlia di famiglia potentissima.

In qualche modo fanno squadra, e si trovano catapultati nelle notti romane dello scintillante mondo del cinema. Notti Magiche, perché coincidono con i Mondiali di calcio del Novanta celebrati dalla canzone della Nannini e Bennato. Solo che, nel momento esatto in cui Aldo Serena sbaglia il maledetto rigore nella semifinale con l’Argentina, e l’Italia viene elimina, l’auto del notissimo produttore Saponaro (Giancarlo Giannini) finisce giù nel Tevere. Sospettati del delitto sono i tre ragazzi, che avevano cenato con lui quella stessa sera. Da lì parte il racconto/confessione a ritroso di tutta la storia al capitano dei carabinieri (Paolo Sassanelli).

Notti Magiche
  • Lamantia, Toscano, Vetere, Giannini G., Herlitzka, Bonacelli, Muti,...

Paolo Virzì ha voluto costruire un personale romanzo sul cinema dei bei tempi, ritraendolo in realtà fuori tempo massimo, nel 1990 in cui la commedia all’italiana classica e i grandi autori famosi in tutto il mondo Antonioni e Fellini erano al tramonto. Fellini lo si vede girare da lontano l’ultimo suo film, La Voce Della Luna, e più o meno tutti sottovoce, maligni come sempre, dicono che è bollito. Mentre un simil Antonioni mangia mestamente solitario alla trattoria Checco, con tutti gli sceneggiatori – i quali fanno comunella, ma chissà se si amano o si odiano – che lo prendono bellamente in giro.

La Archibugi, ricordando quei tempi ribadisce il concetto: “Io ho conosciuto solo il cinema in crisi”. Sempre in crisi: sarà per questo che Notti magiche ha colori decrepiti, un giallo-ocra quasi mortuario, coi vegliardi maestri che si dirigono incolonnati verso la trattoria, come stessero seguendo un feretro al funerale. Un altro tratto di questo film singolare e sincero è il racconto d’una Roma crepuscolare, il contrario della grande bellezza monumentale di Paolo Sorrentino, che possiede la magniloquenza della decadenza, mentre qui c’è solo la mestizia di un silenzioso, inarrestabile declino.

Com’è per Saponaro, il modello del produttore guascone che ha firmato pure qualche capolavoro ma ha fatto i soldi col cinemaccio, beninteso perdendoli tutti, e procede arrembante ma sul vuoto. Oppure il regista impegnato Fosco (Andrea Roncato), che vive in un sottoscala, dice che l’hanno fatto fuori e ancora spera nel grande ritorno. In mezzo i tre ragazzi: inevitabilmente disposti, anche l’intellettuale della Magna Grecia, ad accettare compromessi pur di trovare un posticino in quel gran mondo, che seduce con la forza della sua innegabile leggenda.

Paolo Virzì sul set coi tre giovani protagonisti

Notti Magiche ha raccolto pareri soprattutto negativi, visto come un passo indietro nella carriera di Paolo Virzì. E il film tende a un eccesso di deformazione grottesca, mostrando una galleria di tipi proverbiali, congelati nelle loro peculiarità. Ha raccolto giudizi perplessi il film anche perché non si capisce se Virzì assuma un tono da fustigatore o da fiancheggiatore compiaciuto. Il film vive esattamente in questa contraddizione, con l’affetto estremo per una realtà che l’ha tenuto a battesimo, della quale però riconosce lucidamente i limiti. Dentro i quali allo stesso tempo, alberga la scintilla della sua grandezza. Nel senso che la cialtronaggine e l’affilata cattiveria che caratterizza quegli uomini sono il seme da cui germina il loro talento, cui Virzì guarda ancora con stupita ammirazione. Ma da una certa distanza, senza esaltazione né nostalgia.

E dato che l’essenza stessa della commedia all’italiana, di cui Virzì è l’unico autentico prosecutore, sta nell’ossimoro del tragicomico, allora Notti Magiche si muove esattamente sulle medesime cadenze contraddittorie. Che il regista coglie perfettamente quando dice, riferendosi ai ragazzi: “Nell’accompagnarli nella giostra di lusinghe ed insidie, promesse e raggiri, alla scoperta di quel mondo glorioso e miserabile, sublime e triviale, mentre la devozione si trasforma man mano in sgomento, in burla irriverente, in cocente disillusione”.

Ma non è tanto per ragioni di ecumenica bonarietà che si comporta così. Lo fa, invece, perché continua a seguire gli insegnamenti ricevuti, ricapitolati da quanto dice a un gruppo di apprendisti sceneggiatori il maestro Fulvio (Roberto Herlitzka, ovviamente tutti i nomi sono a chiave): “Guardate bene, ascoltate, osservate e quando ne scriverete, prendendoli ovviamente un po’ per il culo, non dimenticate di avere un po’ di pietà per loro, e anche per voi stessi”. Un’affermazione che è la sintesi ideale d’un film al quale guardare senza sussiego, prendendo nota di tutte le verità che i suoi autori ci hanno stipato dentro.