Nel giorno della Festa della Repubblica e del mio compleanno confermo che gli Italiani hanno un cuore nero

Non abbiamo un grande cuore, o se ce l’abbiamo è nero: la pandemia che ci ha colpito, lo ha dimostrato in maniera definitiva. Ha preso il nostro essere brutte persone e l’ha amplificato

Photo by Anthony Majanlahti


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Oggi, 2 giugno, è la festa della Repubblica Italiana.

Oggi, 2 giugno, è il mio cinquantunesimo compleanno.

Oggi, 2 giugno, sono cento giorni che è iniziato questo inferno, e che è iniziato questo diario.

Cento giorni, cazzo.

Cosa ci hanno insegnato, questi cento giorni, dovrei chiedermi, fingendo che il mio compleanno dia la stura a riflessioni pseudopsicologiche.

Vediamo cosa ne viene fuori, parto ovviamente da altrove, da me.

Ho i capelli lunghi, ricci, neri, ormai più grigi che neri. Vesto come cazzo mi pare, il che si traduce, spesso, se non sempre, in jeans e t-shirt che hanno a che fare con una qualche band rock, punk, comunque non pop. Le mie foto profilo, sui social, mi ritraggono con grandi occhialoni rosa, tipo quelli che Bono indossava nel video di The Fly, epoca Achtung Baby, solo che sono rosa, un pizzico di ironia in un gesto di retromania, i capelli sono invece raccolti in un paio di code ai lati della testa, come nella nota foto di Frank Zappa, per i cultori del genere, o come una Pippi Calzelunghe di cinquantuno anni.

Sì, oggi faccio infatti cinquantuno anni, ripeto, fatto che rende quanto ho da poco scritto forse un filo imbarazzante, probabile che se lo chiedeste a uno dei miei figli confermerebbe questa tesi, specie Tommaso, quindici anni questo mese, sicuramente il più inquadrato dei quattro. Per dire, quando ormai parecchi anni fa ho scattato una foto, quella che fa da sfondo al mio profilo Facebook, con a fianco mia moglie, entrambi appunto con queste code ai lati della testa, lui si è imbarazzato tantissimo. Eravamo in vacanza in quella che all’epoca era ancora la casa della famiglia di Marina, mia moglie, a Vasto. Eravamo in giardino, quella casa era stata costruita una quarantina e passa di anni prima in quella che all’epoca era la periferia estrema di Vasto, casa singola con ampio giardino, e poi era stata inglobata nella città che stava crescendo, divenendo una sorta di anomalia, casa singola con ampio giardino in zona semicentrale. Eravamo appena tornati dal mare, era ora di pranzo, a Vasto di pomeriggio in estate tolgono l’acqua per far convergere la poca acqua della zona al quartiere degli alberghi, e se la casa non ha una autopompa da una certa ora si deve razionare l’acqua, impossibile fare le docce di sera. Marina si era raccolta i capelli in quel modo, e io, per scherzo, l’avevo imitata. Subito Lucia, nostra figlia maggiore, si era entusiasmata, e aveva insistito per farci una foto, foto che, dovessi scegliere una e una foto soltanto tra quelle che ritraggono me e Marina, slegate a un singolo evento, scegliere senza ombra di dubbio. Tommaso, invece, visti i miei codini si era preoccupato. Noi stavamo in giardino, lui in cucina, la cui porta d’accesso dava in giardino, appunto. Lo abbiamo distintamente sentito chiedere a Lucia, che nel mentre era rientrata, parliamo di quando Tommaso avrà avuto cinque anni e Lucia nove, i gemelli non erano ancora arrivati, se mai io intendessi uscire conciato così. Anzi, ha esplicitamente implorato la sorella di chiedermi di non uscire così, per evitare di doversi vergognare, omettendo ovviamente la faccenda del doversi vergognare. Io e Marina ne abbiamo molto riso.

Questo fatto, che una ci fotografasse, mentre l’altro se ne vergognava, fotografa, in realtà, più i loro caratteri che noi due, per questo amo molto quella foto, a parte per la bellezza estrema che Marina regala alla camera e a chi la guarda.

Da quel momento, per anni, ho usato questa faccenda dei codini come forma becera e subdola di ricatto con Tommaso. Non potendolo minacciare in altra maniera, per intendersi, se volevo che obbedisse a qualche mia indicazione che lui voleva disattendere, ho sempre minacciato che lo sarei andato a prendere a scuola in quel modo, umiliandolo, in qualche modo, di fronte ai suoi compagni. Lo so, sono una brutta persona, non ne faccio vanto ma neanche mi nascondo. Va detto, però, che ha sempre funzionato, anche perché Tommaso sa perfettamente, lo sa anche adesso, anzi, adesso più di prima, che potrei farlo senza colpo ferire. Mi ha visto, questo è un aneddoto ricorrente nella nostra famiglia, uscire per andare a comprare non ricordo cosa al negozio di materiale elettrico vicino a dove abitavamo prima, con indosso un paio di orecchini a clip appartenuti alla nonna di Marina, orecchini con perle, finte, piuttosto appariscenti, sa che una volta sono andato in libreria indossando un pigiama che, in realtà, avevo confuso con una tuta da ginnastica, sa che non è esattamente il giudizio degli altri che mi potrebbe frenare dall’espormi. Va anche detto che la faccenda degli orecchini era stata involontaria, perché li avevo indossati in casa, per fare uno scherzo proprio a lui, poi le orecchie si erano abituate alla pressione delle clip, perché nel mentre mi ero messo a fare altro, e quando infine ero uscito me ne ero del tutto dimenticato, si sarà capito che non sono il tipo che prima di uscire si specchia per vedere se sono pettinato, io sono sempre spettinato. Comunque non sono tipo che si vergogna, ho fatto un programma in tv, quando Monina Against the Machine, il mio programma su RTL 102.5, andava anche in onda su Sky e sul digitale terrestre, indossando un paio di orecchie di lattine nere da coniglio, come quelle che erano diventate il simbolo di Ariana Grande al tempo del concerto di Manchester colpito dai terroristi, e io le avevo indossate, forse più che da coniglio erano da gatto, a pensarci bene, ma sempre di lattice nere, proprio per ricordare quella strage, una sorta di omaggio a chi era andato a un concerto per divertirsi e aveva trovato la morte, ho fatto una serie piuttosto incredibile di interviste alle Terme di Milano e in piscina, mostrandomi in costume, e non è che il mio fisico sia esattamente stato forgiato nelle migliori palestre di Città Studi, ho sempre adottato questa filosofia di vita qui, fregarsene del giudizio degli altri, specie quello estetico, perché seppur io ritenga che la forma è sostanza, ve l’ho ripetuto allo sfinimento in questo mio diario del contagio, sono anche convinto che non rientrare nei canoni dettati dalle mode, dal comune sentire, sia non tanto gesto iconoclasta quanto contributo a rendere il mondo un luogo più libero da paletti e scevro da ogni forma di speculazione, la nostra singola diversità, quella che fa gridare slogan farlocchi come “da vicino nessuno è uguale agli altri”, è la sola leva con la quale si può sollevare il mondo, parola di cinquantunenne con la pancia, i capelli raccolti in due codini tendenti al brizzolato, un paio di occhialoni rosa da mosca calati in faccia.

Sono un freak, quindi, ma lo sono con un certo filo di orgoglio, di chi, per intendersi, parla di diversità, di libertà, di abbattere i giudizi e i pregiudizi, specie quelli lanciati a cazzo riguardo protocolli estetici, ma poi in cuor suo pensa che chi va in giro coi capelli pettinati con la riga, indossando un completo grigio con camicia celeste e cravatta blu a pallini bianchi, in fondo, sia un coglione. Un freak con un animo da rockettaro, mettiamola così.

Un freak che, va detto, ha anche qualcosa del nerd, però.

Perché se è vero come è vero che il mio animo postmodernista si è nutrito di libri, film, dischi, serie tv, massimalismo a go-go, gente come David Foster Wallace e la sua bandana o Hunter Thompson e il suo fucile appoggiato sul tavolo come mentori, miliardi di citazioni difficili da comprendere, riferimenti subliminali, ragionamenti fuori dai registri, è anche vero che tutta questa modalità, non fatemi ripetere i passaggi, potrebbe serenamente essere applicata a un qualsiasi sfigato che si è nutrito a pane e Star Trek, un cazzo di cosplayer del Comandante Kirk, e col dire questo, spero sia chiaro, ho preso il più possibile le distanze da tutta quella genia lì.

Compiacersi di una citazione, i miei libri, specie quelli di narrativa, sono pienissimi di citazioni, è da nerd, non ci piove. Dici una cosa che capisci solo tu e chi è come te, e ti compiaci di averla detta, puntando sul fatto che la capirà solo chi è appunto come te e che chi non è come te ne è debitamente tenuto fuori.

Poi, però, siccome sei anche un filo egoriferito, ti convinci che quel che hai scritto, lì pieno di citazioni, a chi non coglie le citazioni arriverà comunque, perché è scritto talmente bene da poter in tutti i casi nutrire la sua povera mente ignorante. Insomma, roba da nerd, certo, ma da nerd stilosi, coi capelli raccolti in code alla Frank Zappa, occhiali da mosca rosa alla Bono, t-shirt dei Faith No More, nerd freak.

Uno potrebbe chiedersi, sempre che essere arrivato fin qui, cento capitoli di questo diario, cento giorni che vi racconto quel che succede in casa mia e, per quel che si intravede, fisicamente e metaforicamente, da casa mia, succede nel mondo, sempre che arrivato fin qui ancora si vada chiedendo il perché io dica determinate cose strada facendo, prima, cioè, che io abbia affrontato il corpo della bestia che intendo colpire e ammazzare, per il mio e vostro ludibrio, Brambilla fottiti, uno potrebbe chiedersi perché io stia parlando del mio essere freak, cosa che evidentemente si era già colta anche solo guardandomi, il mio essere nerd, anche qui, non è che la cosa immagino sia sfuggita ai più, in un diario del contagio che, quindi, seppur arrivato ai suoi ultimi colpi, dovrebbe parlare d’altro. Se lo potrebbe chiedere, siamo in uno stato di diritto, si può fare un po’ il cazzo che si vuole, nonostante la nostra libertà sia stata pesantemente minata etc etc, così come io potrei non voler rispondere a una ipotetica domanda del genere, non fosse che l’aver citato una domanda immaginaria lascia intuire che, invece, io a questa domanda intenda rispondere, è un trucchetto retorico di facile comprensione, anche un po’ banalotto, lo ammetto e me ne scuso, sono un filino stanco come il Forrest Gump con la barba lunga che corre da mesi, io che da mesi non cammino praticamente più, la dieta andata serenamente a puttane, perché è vero che continuo a mangiare meno di prima, ma senza i miei dieci chilometri al giorno di camminata veloce, è chiaro, tutto è andato a puttane, se lo potrebbe chiedere, dimostrando ancora una volta di non capire un cazzo, perché è evidente che se sono partito da lì, intendo andare da tutt’altra parte, ma per raggiungere tutt’altra parte era solo e solo da lì che dovevo partire, i giri panoramici funzionano così.

Il fatto è che io ho sempre amato la parola freak, mentre mi è sempre stata sul cazzo la parola fricchettone.

Non sono un fricchettone, quello ritratto nel famoso adesivo del vagabondo, adesivo che usava quando usavano gli adesivi, quindi negli anni Settanta e Ottanta, adesivo che in genere finiva sul retro della macchina dei fricchettoni per antonomasia, la Renault 4, o al limite la Peugeot Diane, o nel furgone della Volkswagen, quello che poi è diventato un personaggio molto simpatico del cartone Cars, perché ho sempre guardato con un certo senso di distacco all’idea di promiscuità che il fricchettonismo include nel pacchetto, perché gli animali, si sarà intuito, non è che mi entusiasmino molto, se non sono dentro lo schermo di un televisore o comunque se non devono necessitare del mio contributo per poter sopravvivere, e perché, questo pure già ve l’ho detto, sono fondamentalmente straight edge, e le canne, non grazie. Ciò non di meno sembro un fricchettone, lo so. Mi sono sentito dire miliardi di volte, “hai da accendere?”, chiesto con la sicurezza con la quale si chiede qualcosa a qualcuno sapendo che la risposta sarà “sì”, perché con la mia faccia, i miei capelli, la mia barba, è ovvio che io fumi, più ovvio ancora che io mi faccia le canne, o che me le sia fatte, ma porco cazzo, no, non fumo. E non sono un fricchettone. Ma amo i freak. Intesi come esseri diversi dalla norma, anomali, a loro modo anche mostruosi. Non quelli del film di Ted Browning, chiaro, la donna barbuta o il tizio a due teste, quelle erano persone con problemi fisici che, in un’epoca un filo meno attenta alla salute pubblica, finivano nei circhi per far divertire la gente, i freak intesi come i diversi, quelli che poi Lady Gaga ha coalizzato intorno a sé sotto il nome di Little Monsters, appunto, la bambina con gli occhi giganteschi nella copertina del primo album degli Eels di Mr E, Beauriful Freak, appunto.

Non a caso il mio primo romanzo per una grande casa editrice, la Mondadori, si intitolava “aironfric”, nome che deriva dall’italianizzazione di Ironfreak, cioè Freak di acciaio. Il nome che avevo scelto per il mio supereroe, non un nome qualsiasi, quindi. Perché pensateci, se anche a voi capitasse di dover scegliere un nome da supereroe, poniamo che domattina vi svegliaste con un superpotere e vi si parasse di fronte questo dilemma, non è che tirereste fuori parole a caso, immagino. Le mie erano Iron e Freak, omaggio a uno dei miei supereroi preferiti, Ironman, preferito ben prima che Robert Downey Jr rendesse Tony Stark un gigante del cinema, e omaggio a una parola che, ripeto, adoro.

Poi, chiaro, qualcuno, sempre lui, il cagacazzi, potrebbe mettere sul tavolo della discussione il fatto che, scelto questo nome, funzionale e anche piuttosto cool, aironfric, io mi sia lasciato andare a superpoteri e caratteristiche non esattamente marvelliane o da DC Comics, aironfric, infatti, è un transessuale obeso che, deciso a dimagrire, si sottopone all’operazione di restringimento dello stomaco tramite anellino di titanio, e, la faccio breve, diventa per uno di quegli imprevisti da fumetto dei supereroi un trans obeso di titanio, non di acciaio, va beh, con per di più una potente erezione perenne, tecnicamente si dice affetto da priapismo.

Un supereroe freak, quindi, anche nell’avere superpoteri inutili, al fine di salvare vite o sventare crimini. Il tutto in una location, Ancona e le Marche, provincia e periferia dell’impero, non esattamente vicine a Gotham City o Metropolis, anche lì, freak.

L’uno di cui sopra, quello che arriva ogni tanto a porsi domande che rimarranno inevase, a questo punto dovrebbe intervenire, legittimamente, chiedendo: ok, ma quindi?

Però un cagacazzi è tale non perché fa le domande giuste al momento giusto, ma per il suo fare domande sbagliate al momento sbagliate, o domande giuste al momento sbagliato. Insomma, mai che ne azzecchi una, il cagacazzi. Me lo avesse chiesto, il cagacazzi, gli avrei risposto, perché era proprio lì che andavo a parare.

Sin da principio volevo parlarvi di aironfric, per arrivare al nome che ho scelto per quel supereroe prima che diventasse un supereroe, avete presente tutti, no?, Peter Parker che è l’Uomo Ragno, Bruce Wayne che è Batman, nome che, le cose che scrivo non le scrivo mai per caso, è una di quelle citazioni incomprensibili che mi spingono pericolosamente in area nerd, lì con le orecchie a punta di Spock a parlare di scene indimenticabili di Star Trek.

E questo mio voler sin da principio arrivare lì, al nome anagrafico di aironfric, nome che io ho scelto sarebbe stato il nome anagrafico di aironfric, perché, lo dico nel caso anche oggi Toninelli si fosse azzardato a leggermi, stiamo parlando di opera di fantasia, o fiction che dir si voglia, fantasia, per altro, totalmente slegata a fatti di cronaca, nessun riferimento a fatti o persone realmente esistite, o quasi del tutto, a breve vi dirò in che senso, questo mio voler sin da principio arrivare lì, al nome anagrafico di aironfric, è dovuto al fatto che oggi, centesimo capitolo di questo mio diario del contagio, nel centesimo giorno di questa mia clausura, nonché nel giorno del mio cinquantunesimo compleanno, compleanno che potrò parzialmente passare all’aperto, sia detto, perché almeno oggi non c’è la didattica a distanza, è la Festa della Repubblica, e perché anche Marina non deve lavorare in smart working, per il medesimo lavoro, evitando così le feste a sorpresa su zoom, sono uno che si imbarazza con una certa facilità, non fatevi ingannare dal mio esibire la panza alle Terme di Milano o dalle mie orecchie da gatto in lattice esibite in tv, oggi, a un passo dalla fine di tutto questo, intendendo con tutto questo non tutto questo nel senso del Coronavirus, della pandemia, dei lock down, dei contagi e tutta quella faccenda lì, ma tutto questo nel senso di questo diario del contagio, perché è arrivato il momento di salutarsi, bye bye, cento giorni sono tanti, tantissimi, le parole scritte, da me, e lette, da voi, sono tantissime, non può piovere per sempre, oggi, quindi, a un passo dalla fine, volevo giungere appunto a una conclusione, e la conclusione, nel boschetto della mia fantasia, nella mia testa, cioè, parte proprio dal nome che ho scelto, ormai oltre venti e passa anni fa, aironfric è uscito il 23 giugno del 1999, lo ricordo perché mi sono sposato poche settimane dopo, la recensione di Angelo Guglielmi, su L’Espresso, quella che mi definiva “il supercafone della letteratura italiana”, facendo riferimento al tormentone del momento, Supercafone di Piotta, per altro lo stesso giorno che in tv, su RAI1 andava di scena lo speciale “Razza Coatta”, quello un riferimento all’altro tormentone di Piotta, Robba Coatta, Razza Coatta con Verdone e lo stesso Piotta, è uscito due giorni prima che mi sposassi, l’8 di luglio, io e Marina ci siamo sposati il 10 luglio 1999, e il nome che ho scelto è Paride Trotti.

Immagino che ci sia della perplessità, nell’aria, ora.

Sono quasi tremila parole che vi sto portando a zonzo per le pagine, come foste i cane del vagabondo dell’adesivo dei fricchettoni di cui sopra, scusate se vi ho paragonato a un cane presumibilmente pulcioso e sporco, per arrivare a farvi un nome, Paride Trotti, che, sono un nerd vestito da vulcaniano, non dimenticatelo mai, a nessuno di voi avrà detto nulla. Ci avrete pure pensato, lo so, ci state ancora pensando. Qualcuno di voi sarà andato su Google, vi ho visto, non fate finta di nulla, ma avrete giusto trovato un paio di miei articoli, uno su sito del Fatto Quotidiano, uno su Linkiesta, nel quale parlo di un altro Paride Trotti, citando me stesso come un vulcaniano che decide di andare a una convention di fan di Star Trek mascherato da vulcaniano, in pratica.

Niente di più, anche se l’idea della finta band dei McEnroe’s, lo dico senza paura di smentita, quello che aveva generato l’articolo del Fatto Quotidiano, era davvero figa, peccato averla regalata a un giornale indegno. Qualcosa di più arriva dalla lettura dell’articolo de Linkiesta, giornale che al momento, se possibile, è anche peggio del Fatto, ma stiamo parlando di sfumature di marrone, nel quale raccontavo la tragica storia di Emmanuel Chidi Namdi, migrante nigeriano ucciso a botte a Fermo, per aver osato difendere sua moglie dagli insulti di colui che lo avrebbe poi ucciso, episodio di cronaca nera del 2016.

In quell’articolo, infatti, partivo da Paride Trotti, parafrasando il titolo dal quale quel nome ha origine, Il cuore nero di Paride Trotti, Il cuore nero di Paris Trout, romanzo di Pete Dexter nel quale si racconta un altro agghiacciante fatto di cronaca nera nel quale un cittadino all’apparenza integerrimo uccide a sangue freddo, la citazione di Capote non è casuale, come il resto, una ragazzina afroamericana, i fatti di Minneapolis e il “non riesco a respirare” di George Floyd risuonano come un grido di dolore nelle orecchie di tutti, spero.

Quando ho dovuto scegliere il nome anagrafico del mio supereroe, freak e nerd quale sono, massimalista e citazionista postmoderno, ho scelto di italianizzare Paris Trout, perché era della provincia nera che volevo parlare, anche. La mia provincia, quella nella quale ero cresciuto. Ancona, le Marche, l’Italia tutta. Paride Trotti, quindi, era il nome perfetto, nella mia testa.

Paride Trotti l’uomo qualunque, Paride Trotti e il suo cuore nero.

Abbiamo tutti un cuore nero, questo volevo dire, seppur con l’ironia che all’epoca ritenevo fosse necessaria per raccontare qualsiasi cosa, la realtà stigmatizzata attraverso di essa, David Foster Wallace non si era ancora espresso a riguardo.

Mi ci mettevo anche io, Paride Trotti parlava in prima persona singolare, la sua voce, letteraria, era la mia voce, e a riprova che anche io ho un cuore nero era identico, sì, ho praticato il body shaming da giovane, a un critico letterario ancora piuttosto in voga che mi aveva criticato ai tempi della mia partecipazione al Laboratorio Ricercare di Reggio Emilia, facile capire di chi sto parlando.

Il fatto è che credevo, e oggi credo più che mai, che l’italiano non abbia affatto quel grande cuore che così tanto ci piace indicare come nostra principale caratteristica. Quello che sbandieriamo nel dire che, nel momento di farsi in quattro, di accogliere chiunque, di aiutare chiunque, non ci tiriamo mai indietro. Quello che usiamo anche come paravento per difenderci quando qualche nostro connazionale, compaesano, concittadino, se non addirittura noi, dimostra come la solidarietà, l’apertura, l’accoglienza siano più che altro concetti astratti, inapplicati, buoni da scrivere in calce a editoriali ma senza rispondenza nella realtà.

Non abbiamo un grande cuore, o se ce l’abbiamo è nero, esattamente come quello di Paris Trout, lì a ammazzare senza motivo, non esiste mai un motivo, e senza pietà Rosie, a Cotton Point.

La pandemia che ci ha colpito, il Coronavirus, se possibile, lo ha dimostrato in maniera definitiva. Ha preso il nostro essere brutte persone e l’ha amplificato, ha diviso laddove ci dicevamo che ci saremmo uniti, ha evidenziato i nostri difetti, ci ha incattiviti, fatto gioire delle sventure che hanno colpito gli altri, ci ha trasformati in pecore, in delatori, in tuttologi, in forcaioli, in recriminatori, in assetati di vendetta, campanilisti frustrati, noi siamo meglio di voi, voi siete peggio di noi.

Senza star qui a portare esempi, chiaramente lo spirito anti-lombardo, le patenti di immunità, il “non eravate voi l’eccellenza?”, il “pensa se fosse successo a noi cosa avreste detto voi?”, il restatevene a casa vostra è lì, sullo sfondo, ma lo è assai di più l’assenza di empatia, ancora prima che dell’assenza di solidarietà, il godere, in fondo, che stavolta il male abbia colpito altri, misera giustificazione una certa arroganza pregressa, l’empatia è tale se applicata senza distinguo.

Abbiamo un piccolo cuore atrofizzato, questa è la realtà, un piccolo cuore nero, un piccolo cuore che nessuno staff medico potrà trapiantare. Ne siamo usciti cambiati, è chiaro, non basteranno grandi occhiali rosa da mosca per sembrare un po’ meno stronzi.