Dunkirk, Christopher Nolan riscrive le regole del film bellico

Su Canale 5 alle 21.20 la storia dell’Operazione Dynamo nel giugno del 1940. Un film ambizioso, in cui Nolan racconta la guerra come un trauma che modifica il modo in cui l'uomo percepisce la realtà

Dunkirk

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In occasione degli ottant’anni dell’Operazione Dynamo, ossia il salvataggio di trecentomila soldati britannici intrappolati dai nazisti sulla sponda francese della Manica, avvenuto tra il 27 maggio e il 4 giugno 1940, Canale 5 trasmette stasera in prima tv alle 21.20 Dunkirk di Christopher Nolan, che ricostruisce questo evento fondamentale della Seconda guerra mondiale.

“Ricostruisce” non pare il termine esatto. Chi infatti s’aspetta una puntuale resa del fatto storico, con in primo piano gli eroi che fecero l’impresa, resterà deluso. È più una decostruzione quella di Nolan. Il regista racconta tre vicende: Il Molo, che dura una settimana, in cui i soldati, sulla spiaggia di Dunkerque, attendono l’arrivo delle navi che li riporteranno a casa. Il Mare, durata un giorno, focalizzata su un privato cittadino (Mark Rylance), che insieme al figlio parte alla volta della costa francese per portare soccorso. Il Cielo, un’ora soltanto, con l’aviatore Tom Hardy che dà supporto aereo all’evacuazione dei soldati.

Le tre storie sono montate e incastrate una nell’altra, così che la differente durata di ognuna di esse scompare completamente. E allo spettatore, privo di coordinate intelligibili, sembra che un’ora duri un giorno o una settimana, e viceversa. Non si tratta d’un semplice vezzo narrativo modernista. C’è una ragione ben precisa alla base di questa scelta, che apparenta Dunkirk, in particolar modo, a Memento, il film che rivelò Nolan.

Lì il protagonista, in seguito a un grave trauma è affetto da un disturbo della memoria che gli impedisce di ricordare gli avvenimenti recenti. Ciò lo obbliga a un faticosissimo processo di catalogazione in tempo reale di tutto ciò che gli accade, per cercare di mantenerne traccia all’interno di un flusso ordinato di passato e presente. Tutto ciò conduce a una narrazione straniante, in cui lo spettatore s’aggira disorientato come il protagonista in un flusso di eventi che galleggiano nel vuoto di una temporalità incoerente, senza che si riesca a capire cosa è accaduto prima e cosa dopo.

In Dunkirk, la logica è la stessa. E il trauma che sconvolge la lucidità del pensiero è la guerra. Nolan racconta un evento specifico nel quale, grazie a precisi riferimenti storici (il celebre discorso di Winston Churchill,“We shall fight on the beaches”), riesce a stabilire una cornice riconoscibile, che costituisce per lo spettatore un appiglio tanto narrativo quanto emotivo e ideale (il tono patriottico del film).

Al di là dell’evento specifico, però, Nolan ha l’ambizione di descrivere quel che la guerra in sé fa all’uomo, come lo stravolge e disorienta, lasciandolo in balia di eventi nei quali diventano imperscrutabili le coordinate temporali e spaziali, ma anche le leggi della fisica e della narrazione. La prima sequenza ritrae un soldato che s’aggira lungo strade deserte schivando pallottole sparate non si sa da dove e da chi: non c’è logica, non c’è strategia che possano assicurargli salvezza. Gli resta solo l’istinto di sopravvivenza, asfissiato da una paura che toglie lucidità e rende il mondo un caos percettivo privo di senso.

Il tempo, come abbiamo già visto, non rispetta più una durata lineare progressiva scandita da secondi, minuti e ore. Lo stesso è per lo spazio: la spiaggia su cui i poveri soldati sono ammassati è d’una vastità quasi metafisica, completamente astratta. E dalla visuale del pilota Tom Hardy la linea dell’orizzonte che divide cielo e mare traballa fino a ribaltarsi. Pure le leggi della fisica non valgono più: l’acqua che invade una nave in avaria non va verso l’alto, ma si muove dalla sinistra dello schermo verso destra, e un aereo senza più benzina continua imperterrito, quasi miracolosamente, a volare. Come una stregoneria pare essere quella per cui l’acqua del mare prende fuoco e si trasforma nel suo esatto contrario.

Christopher Nolan sul set di Dunkirk

In Dunkirk il dispositivo razionale attraverso cui solitamente l’io ordina il mondo, distinguendo prima e dopo, sopra e sotto, causa ed effetto, si dissolve per effetto della paura, oppresso da una violenza asfissiante. La quale è perfettamente resa da una colonna sonora geniale di Hans Zimmer, composta solo di clangori che subissano i personaggi, disorientati.

Christopher Nolan traduce l’esperienza della guerra in un fatto puramente fisico, che mette a dura prova gli uomini. Perciò, coerentemente, questo è un film senza personaggi. Certo, ci sono Rylance, Kenneth Branagh, Harry Styles, Hardy, ma nessuno di loro può essere definito un protagonista di una vicenda in cui sono solo pedine, non più grandi dei soldati ritratti come formiche in campo lunghissimo sulla spiaggia di Dunkerque. La spersonalizzazione è il primo effetto che produce la guerra, riducendo gli uomini a comparse e numeri. Tra le tante certezze che scompaiono in questo film quindi, insieme al tempo e allo spazio c’è anche la soggettività. L’unica cosa che resta in grado di dare una struttura, per quanto labile, all’insieme, è proprio il cinema. Non in quanto arte del racconto, ma come pura immagine, capace di registrare, mantenere una traccia, di quel che è impossibile capire.