Svezia for dummies: la mia guida a quello che dicono sia il paese col più alto tasso di morti di Covid

Sono stato in Svezia qualche anno fa e penso ci siano tanti miti da sfatare

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Nelle ultime ore si è fatto un gran parlare della Svezia. Tutti i giornali italiani hanno riportato la falsa notizia che la Svezia sia il paese col più alto tasso di morti di Covid19 per abitante al mondo. A breve ci arrivo.

Io amo la Svezia. E sono stato un reporter.

Oggi, ottantanovesimo capitolo di questo diario del contagio, ottantanovesimo giorno di clausura, vi dimostrerò entrambe le cose, servisse a qualcosa, approfittandone per evadere per qualche minuto da qui.

Inizio.

Dicono, la Svezia è un paese a portata di bambini, lì se hai meno di tre figli ti guardano male, quasi ti considerano un single. Dicono, in Svezia durante l’inverno la gente neanche ti saluta, ma d’estate, sarà che di colpo torna la luce, sarà che la luce, addirittura, non ti abbandona neanche di notte, diventano tutti molto espansivi, come in certe scene del film girato durante Woodstock. Dicono, eh, ci sarà anche lo stato sociale, quello vero, non quello che canta Mi sono rotto il cazzo o della vecchia che balla, ci sarà pure un’attenzione alle persone che noi ce la sogniamo se abbiamo mangiato la sera l’impepata di cozze, ma in Svezia hanno la monarchia e un tasso di suicidi che Durkheim, fosse vivo, avrebbe dovuto rivedere pesantemente le sue teorie.

La Svezia.

Tutti questi stereotipi e tanti altri ancora, dall’alcolismo alle vichinghe poppute e con le trecce bionde. Ultimo in ordine di arrivo, gli svedesi sono dei cinici che se ne fottono dei vecchi, non hanno fatto il lock down perché la loro morte è considerata un male minore, mica è un caso che sia pieno di nazisti, da queste parti. E via di titoli dei giornali che, usando uno studio irrilevante pubblicato su un blog di un professore di Oxford attesta che ora la Svezia sia il paese messo peggio al mondo, se si fa il computo del rapporto tra morti e numero degli abitanti. Poco importa che siano dati relativi a una singola settimana su tre mesi di gestione della pandemia, e che lì, a differenza dell’Italia, per dire, non essendo cambiato nulla nel corso delle settimane, niente chiusure e quindi niente aperture, star lì a prendere dati a caso è utile quanto pensare di cambiare la testa degli italiani a furia di decreti. Poco importa anche che, a differenza dei quotidiani italiani, a nessun quotidiano svedese è mai passato per la mente di percularci, dicendo che noi siamo messi peggio di loro, pappappero, né, oggi, viene in mente di fare paragoni tra la loro e la nostra situazione.

Tutto nella testa di certi italiani, come sempre.

Forse, appunto, è il caso che parli della Svezia. E di quando con tutta la famiglia, nella versione allargata con la quale sto convivendo da tre mesi, suocera compresa, siamo andati a passarci una vacanza.

Sette persone, alla faccia della famiglia numerosa.

È il 2016.

Siamo in sette e siamo appena arrivati a Stoccolma, intenzionati a starci una settimana. Abbiamo affittato una villetta a Nacka, isola a sud est del centro, ed è li che siamo diretti, appena uno shuttle ci ha depositati alla stazione centrale di Stoccolma.

Per appena si intende ottanta minuti dici che siamo atterrati, minuto più minuto meno, perché Ryan Air ti fa arrivare non esattamente in centro. Quindi siamo arrivati alle 23:35 in Inculandia, abbiamo preso lo shuttle e ora, che sono le 1 e 20 siamo alla stazione centrale. Qui prendiamo un van che funge da taxi, perché siamo in sette. Verso le 2, poco meno, siamo a casa. Mentre il taxi si allontana dal centro dico a mia moglie “Certo che questi svedesi sono proprio organizzati, siccome non è pensabile che uno ti aspetti alle 2 di notte per darti delle chiavi, hanno lasciato una cassettina con un codice di accesso fuori da casa, così possiamo entrare“. Scendiamo dal taxi, e vediamo che la villetta è davvero bella, in legno, con un bel giardino e con tre porte di accesso. Tre porte, non una. Nella mail dicevano che di fianco alla porta c’era la key box con la chiave dentro. Qui ci sono tre porte, ma nessuna key box. È notte fonda. Sono tredici gradi. Io sono vestito come se fossi a Bengasi. Siamo circondati prevalentemente da alberi, tipo bosco, e ogni tanto c’è qualche altra villetta. Poca roba. Prevalentemente alberi. I miei figli sono stanchi, e più mi vedono, letteralmente, brancolare nel buio, più si spaventano. La più grande parla come fosse la protagonista di un film di Dario Argento, dicendo che le è parso di vedere qualcuno all’interno, parla di luci accese, di ombre, di chiavi appoggiate su un tavolino viste da una finestra, perché qui le villette sono tutte finestre. Tommaso e Chiara, la gemella, piangono, un po’ per paura un po’ per stanchezza. Mia suocera, col suo consueto ottimismo, paventa scenari apocalittici. Marina, mia moglie, mi chiede, di punto in bianco: “Sei sicuro che sia questa la casa giusta?”, come se io ci fossi già stato altre volte, di più, come se io fossi un habitué, da queste parti, e, alle due e mezzo di notte, non avessi a mia volta qualche dubbio a riguardo. Il più piccolo, Francesco, suggerisce, pragmatico, di andare in un’altra casa. Forse ha ragione lui.

Alla fine, dopo circa un’ora, chiamo il padrone di casa, in vacanza in Indonesia, immagino pagato da noi, che mi spiega che quella roba che tutti avevamo confuso con una presa della corrente da giardino è in realtà un key box. Troviamo la chiave e entriamo.

Davvero bella.

Nel mentre, sono quasi le tre, sta cominciando l’alba. In realtà non è mai tramontato il sole, perché c’è sempre stato questo strano chiarore, tipo tramonto in stand-by. D’estate c’è sempre luce e le case svedesi non hanno persiane, né tapparelle né scuri, trova l’errore. Io, che sono pragmatico come mio figlio piccolo, mi sono portato dietro una mascherina per gli occhi tipo quelle che danno sugli aerei. Anzi, proprio una di quelle, rubata non ricordo in che viaggio intercontinentale. Gli altri si arrangiano, chi semplicemente svenendo per la stanchezza, chi indossando una maschera da Darth Vader trovata in casa. Benvenuti a casa Monina.

Mattina dopo.

Ci alziamo con calma, come primo giorno vogliamo ambientarci con la città.

A farci da guida sarà Berarda, Berarda Del Vecchio, vi ho già parlato di lei, Berarda vive a Stoccolma da dodici anni, otto all’epoca del racconto che vi sto facendo, con il marito e i loro due figli, Ludwig e Ofelia.

Ci porta gli abbonamenti settimanali, che hanno costi in effetti molto alti, come da leggenda metropolitana, ci spiega che i bambini non pagano e che anche con un passeggino gemellare, che dei suoi amici ci hanno prestato, si può girare in tutti i mezzi pubblici. Gli adulti in compenso pagano per tutti. Alle fermate del bus ci sono gli scivoli, nei bus ci sono spazi appositi per i passeggini e la gente li lascia liberi, nelle metropolitane, come nei musei e negli altri luoghi pubblici ci sono gli ascensori. Un paese civile, appunto. Civile e incredibilmente bello. Visitiamo, tanto per prendere le misure col luogo, l’isola degli artisti ora riconvertita a luogo abitato da finti poveri in realtà piuttosto chic, Gamla Stan, in pratica la loro Brera o Trastevere. Poi ci addentriamo nel centro storico, incrociando la piazza grande, dove si trova il Museo del Nobel, e poi il cosiddetto Castello, in realtà più un palazzo reale, entriamo nella chiesa dove si sono sposati i reali, molto ma molto bella, infine, costeggiando il mare, passiamo per i giardini del re, ci incamminiamo per una via piena di negozi di grandi firme e finiamo a berci una cosa sul tetto della Kulturhuset. Cos’è una sorta di centro Pompidou dove si possono leggere e prendere libri, vedere film o mostre, con un piano dedicato alle famiglie coi bambini piccoli, uno a quelle con gli adolescenti e in cima un baretto vista Stoccolma. Tutto questo senza mai incappare in inciampi, tutto è dove deve essere, nessuno prova a cambiare le regole a proprio piacimento, e tutto gira come deve girare. Andiamo a fare la spesa per la cena, e i supermercati, per noi, sono un po’ tristi, perché manca un sacco di roba buona, e in genere la roba buona è tutta italiana, con costi ovviamente molto superiori a quelli italiani, ma uno mica può pretendere che anche sul fronte culinario sia tutto perfetto. Stasera ci facciamo pasta al sugo, tutto portato dall’Italia, in questo scambio interculturale, magari, noi porteremo un po’ di civiltà a casa nostra.

Ho detto che Stoccolma è città a portata di bambini, bene, vogliamo subito metterla alla prova. Siccome la comitiva di cui faccio parte è composta per quattro settimi da bambini, anche se Lucia ha all’epoca già 14 anni e potrebbe non essere d’accordo che io l’abbia inclusa nel gruppo, decidiamo di recarci senza esitare in quella che è l’isola del capoluogo svedese dedicata al divertimento, Djurgarden. Mentre ci andiamo, avvicinandoci al centro con l’autobus costeggiando il mare, incontriamo il porto turistico, quello dal quale partono e arrivano le mega navi delle crociere. Tra queste, è noto, c’è anche la trombonave, transatlantico che si fa il giro dell’arcipelago in 24 ore durante le quali succede di tutto, come il nome trombonave può far immaginare. Se si è maggiorenni si sale a bordo, e per le 24 ore successive si beve e ci si accoppia selvaggiamente, la nave in questione, che incrociamo mentre stiamo per scendere alla stazione di Slutten, si chiama Amorella. Non credo sia necessario dire altro. Non credo che esista, al momento, la trombonave, va bene scansare il lock down, ma con cautela.

Scendiamo dal bus, passeggiamo verso la partenza del traghetto che ci porterà a Djurgarden e ci imbarchiamo. Stoccolma vista dal mare, se possibile, è ancora più bella. So che mi pentirò di esserci venuto, perché me ne sto innamorando. 

Scendiamo e ci troviamo in una specie di Luna Park. Anzi, togliete la parola specie, è proprio il Luna Park di Stoccolma ed è la porta di ingresso a un’isola in cui sono ammassati un po’ tutti i punti di ritrovo per i bambini, penso, sbagliandomi. E mi sbaglio non perché qui ce ne siano pochi, anzi, è pieno, ma perché anche altrove ci sono parchi, musei, luoghi preposti al divertimento dei più piccoli.

Nostra prima tappa il Museo di Pippi Calzelunghe, Junibacken. L’autrice del best sellers in questione, Astrid Lindgren, qui è vissuta. E qui ha scritto, oltre che Pippi Calzelunghe, tantissimi altri libri dedicati ai bambini di enorme successo in Svezia e nel mondo. Lo scopriamo una volta entrato in quello che è il corrispettivo locale del Paese dei Balocchi. Da noi la tipa è nota solo per Pippi Calzelunghe, anzi, non è nota affatto, da noi è famosa solo la protagonista del suo romanzo.

Si comincia con un giro su un trenino magico, che racconta le storie dei vari libri della Lindgren mentre le scene più significative ci si materializzano sotto gli occhi, con tanto di volo sul cielo (finto) di Stoccolma. Storie, quelle della Lindgren, in verità piuttosto cupe e spaventose, ma che anche i miei piccoli sembrano gradire molto. Ed è solo l’inizio, perché poi ci sono sale e sale piene di quelle medesime location, adibite a parco giochi, alberi i cui rami diventano scivoli, razzi volanti, animali giganti, conchiglie giganti, davvero di tutto. E nel mezzo un teatro, con attori che animano scenette per i più piccoli, e poi una biblioteca, e un ristorante, e un giardino, di cui usufruiamo poco causa lieve pioggia. E quando pensiamo che tutto sua finito, ecco una nuova sala, con tanti altri giochi giganti. Davvero un posto fantastico. Finita questa esperienza incredibile, eccoci diretti al Museo dei Vichinghi. Siamo in piena Scandinavia, qui in giro la maggior parte di quelli che incrociamo sono alti, biondi e con gli occhi azzurri, normale che si vada a vederne la storia in un museo. Peccato che, appena entrati, scopriamo che quello che qui ci dicono essere il prototipo dei vichinghi sia una specie di Senatore Razzi, baffi neri, capelli corti e neri, anche un po’ tarchiato. Valli a capire ‘sti vichinghi. La mostra è molto interessante, se hai meno di dieci anni, e anche la parte esterna, dove c’è una vera nave vichinga, postazioni dove fare gare di tiro con l’arco, tiro alla corda e altre amenità vichinghe merita qualche minuto. Torniamo verso casa facendo a ritroso la strada. Faccio in tempo a vedere un giardino, sulla cui porta di ingresso campeggiano due cervi dorati non proprio elegantissimi, che costeggia il mare. Su un prato vedo oltre un centinaio di strane papere, più simili a pinguini che papere. Non resisto, lascio la famiglia a bordo della strada e corro sul prato verde verso di loro per farmi un selfie circondato da queste strane papere. Strane papere, scopro, che hanno riempito il prato in questione di cagate verdi. Non si finisce mai di imparare qualcosa, ecco spiegato il successo di Piero e Alberto Angela. Arriviamo a casa dove Jonas, il marito svedese di Berarda, la nostra amica scrittrice trasferitasi da anni qui, ci prepara la griglia. Quando siamo andati a fare la spesa abbiamo notato che al supermercato non c’erano alcolici, fatto che stride con la notizia di alta percentuale di alcolisti presenti in Svezia. Jonas ci spiega che qui l’alcol lo puoi comprare solo in un determinato negozio che detiene il monopolio di alcolici, fatto che ovviamente non impedisce a chi vuole bere di comprare quel che vuole, glielo rende solo più scomodo. La carne, quassù è altrettanto buona di come ce l’aspettavamo, forse anche di più. Per oggi è tutto. Domani proviamo a vedere se anche per i più grandi Stoccolma si dimostrerà città piena di meraviglie.

Dici Svezia e dici acqua, tanta acqua. In realtà dici anche birra, e volendo anche vodka, ma qui si intendeva acqua di mare. E di lago. Stoccolma è una città circondata dall’acqua, piena di isole, di ponti, con un arcipelago molto esteso, appoggiato sul mar Baltico, non esattamente un mare caldo in cui andare a fare il bagno, quindi.

Stoccolma vista dal mare, va detto, è uno spettacolo, e anche tornare sugli stessi luoghi nel corso della giornata regala spettacoli diversi, perché la luce, che in estate è sempre presente, anche di notte, offre angolazioni diverse, colori diversi. Se anche voi siete tra quanti pensano che, salvo rare eccezioni, non esistono metropoli importanti affacciate sul mare, ecco, di fronte a Stoccolma troverete una di quelle eccezioni.

Siccome, però, è luglio, luglio 2016, ripeto, e anche in Scandinavia è estate, decidiamo di provare l’esperienza di una giornata al mare. Proprio come fossimo in Italia. Del resto qui, a Ferragosto, saranno già ricominciate le scuole, e sarà anche tornato il fresco, quindi quale momento migliore per dimostrare ai vichinghi che noi mediterranei siamo da par loro? Fresco. Ecco, diciamo che, fossimo dotati di un minimo di razionalità potremmo dire che i diciassette gradi che ci accolgono in mattinata non sono abbastanza per andare al mare, ma siamo in Svezia, paese che vai usanza che trovi. Quindi ci armiamo di costumi e teli da mare, deposti rigorosamente nelle borse, e ci incamminiamo a prendere la nave che ci porterà nell’isola che la solita Berarda ci ha indicato come la più adatta alla nostra esperienza marittima: Voxholms. La nave, o meglio, il traghetto parte davanti al Grand Hotel di Stoccolma, che offre una bellissima panoramica sul Palazzo reale e sul Municipio, un tempo residenza privata di uno dei principi. Questa faccenda della monarchia, qui, è presa molto sul serio, ci racconta Berarda, mentre con il traghetto usciamo da Stoccolma, accompagnati da una serie di isole e isolette davvero strabiliante. L’attuale monarca, Oscar, ha tre figli, due femmine e un maschio e tutti e tre hanno optato per accasarsi con non nobili, fatto che ha destato non poco scalpore. Quando subito dopo la cerimonia di matrimonio di una delle figlie, questa, affacciatasi al balcone del Palazzo Reale, ha ringraziato il popolo per averle donato il marito e si è inchinata, ci ha raccontato, è come se avesse regalato alla monarchia un altro secolo di vita, perché tutti i sudditi hanno visto quel gesto come un atto d’amore che prontamente hanno ricambiato.

Arriviamo a Voxholms. Proprio di fronte, tra le tante isolette, c’è quella che ospita il castello locale, oggi adibito a location per cerimonie. Non a caso, subito dopo il nostro pranzo a base di aringhe e pesci vari, mentre ci incamminiamo alla ricerca della nostra spiaggia, incrociamo una sposa con le damigelle. Alle due di pomeriggio. Strane usanze, da queste parti. Il villaggio di Voxholms sembra vagamente quello della Signora in Giallo. Casette in legno affacciate sul mare. Sentirei tutti molto belli e curati. Giardinetti e localini dove prendere il sole bevendo una birra.

Arriviamo alla spiaggia.

Spiaggia, parliamone.

È una calettina in roccia, dove si trovano una ventina di bagnanti. Anche qui, bagnanti per modo di dire, visto che quando arriviamo nessuno fa il bagno. Non ci sono ovviamente, strutture preposte ai bagnanti, come nelle nostre spiagge, e anche noi, come gli autoctoni, ci spogliamo e cambiamo in spiaggia, vi ho già detto a riguardo quando ho messo in piazza il mio pudore.

Gli uomini coperti dai teli, le donne usando a mo di spogliatoio i vestiti lunghi. Durante le ore che passeremo qui faranno tutti così, e se volete un pezzo sulle usanze di depilazione delle donne svedesi non avete che da chiedere.

Chiariamo invece la faccenda del mare Baltico freddo e inaccessibile una volta per tutte. È verissimo. L’acqua è ghiacciata, praticamente, e l’aria fuori dall’acqua altrettanto. Anzi, l’acqua è addirittura più fredda dell’esterno, al punto che, una volta fatto il bagno si sta meglio fuori che dentro, senza bisogno di asciugarsi coi teli. Perché sì, ovviamente, abbiamo fatto il bagno. Tutti tranne mia suocera, che non ha voluto. E Berarda, che abita qui da otto anni e per principio rifiuta di farlo. I primi a entrare sono stati bambini, senza nessuna remora. Noi adulti ci abbiamo pensato un po’, perché immaginavamo a cosa saremmo andati incontro, anche se in realtà è molto peggio. Dovrei dire che dopo un po’ ci si abitua, che il freddo è uno stato mentale, ma in realtà no, è freddo e basta. Però abbiamo fatto il bagno, io personalmente due volte, abbiamo visto scandinavi cambiari all’aria aperta, ci siamo divertiti. Poi ci siamo vestiti e abbiamo fatto un salto in un’isola senza ponti, Rindoe. Il fatto di essere un’isola senza ponti, qui, ci ha spiegato Berarda, fa la differenza, perché da una parte hai la pace assoluta, dall’altra la scomodità di dover sempre prendere i traghetti. Cosa che facciamo, usufruendo del servizio di sponda che un traghetto offre a tutte le ore del giorno. Seduti a un bar di Rindoe, Jonas, il marito di Berarda, mi istruisce sui kebabbari di Stoccolma, e domani vedremo di provare anche quelli. Quando una volta tornato in Italia vedrò un nordico bruciato dal sole, rosso tendente al viola, penserò a quando ho fatto il bagno in un mare Baltico ghiacciato senza colpo ferire, alla faccia della superiorità fisica dei vichinghi.

La mia Svezia è differente. O meglio, la Svezia nella quale io e la mia famiglia ci troviamo è differente. E nel dire che è differente, in realtà, voglio dire che non guarda alle differenze, che non distingue tra chi è più uguale degli altri e chi no, e in questo è si differente alla società per come la conosciamo noi.

Però, chiaramente, tocca mettere tutti i tasselli del puzzle al posto giusto, perché alcuni dettagli potrebbero non combaciare con quanto della Svezia conosciamo. Cosa? Certi trascorsi lievemente vicini al nazismo, per dire. Certi presenti lievemente vicini al nazismo, e senza bisogno di citare la trilogia di Stieg Larsson, uno degli svedesi più famosi al mondo, basterebbe vedere il numero di voti che il partito di estrema destra, dichiaratamente xenofobo ha preso nelle ultime elezioni. Certa iconografia a base di divinità superpotenti e vagamente superomistiche, non a caso finite dritte dritte nelle opere di autori come Wagner o incarnate da personaggi non famosi per il proprio acume e visione del mondo come Thor, figlio di Odino. Tutto vero, ci mancherebbe. Ma di fatto, di questo si meraviglia giustamente Lucia, mentre andiamo a spasso per le vie del centro, diretti al solito battello per Djurgarden, l’isola dei divertimenti. Si meraviglia di cose che, in effetti, dovrebbero meravigliare chi proviene da una cultura così poco laica come la nostra. Si meraviglia di vedere ovunque bandiere arcobaleno, ma fin qui, volendo, potremmo anche essere a Milano.

Si meraviglia di vedere gente coi capelli di tutti i colori, con le orecchie addobbate da dilatatori e orecchini di varia natura. Si meraviglia di vedere, nonostante una forte preponderanza di ragazze tutte bionde e con gli occhi celesti e vestite di nero, di incrociare ovunque gente vestita senza seguire una determinata moda, e non per questioni di scarso gusto estetico, ma per libertà nella scelta dell’abbigliamento. Libertà, appunto. Nonostante ci abbiamo raccontato per decenni che le svedesi sono tutte bellissime, e per bellissime, ahinoi, si intende rispondenti a dei canoni precisi a metà strada tra la Top model e la pornostar, in realtà le ragazze locali rispondono molto spesso ai canoni della ragazza piuttosto in carne, tornita, per dirla come si dice oggi, curvy ma senza essere necessariamente giunoniche. Alte, quindi, con gambe muscolose, senza eccessivo seno. Bene, la stragrande maggioranza indossa shorts o minigonne, fregandosene di esibire gambe non esilissime. E fanno benissimo. È estate, fa caldo, se sei svedese, e giustamente si va in giro un po’ leggere. Di questo si meraviglia Lucia, con i suoi neanche quindici anni, del fregarsene dei canoni imposti da altri. Si meraviglia anche dell’autista del bus coi dreadlocks, o della cassiera del museo col hijab. Ma siamo a Stoccolma, in Svezia, e oggi lo svedese più famoso è Zlatan Ibrahimovic, arrivato a essere il miglior calciatore svedese e forse anche del mondo dopo Heinrik Larrson, cognome svedesissimo, ma pelle color marrone. Siamo in un posto dove si trovano kebab squisiti. Dove le coppie inter-etniche sono frequentissime, etero o omo. Siamo in una nazione cresciuta sì col mito dei vichinghi, ma profondamente laica e quindi aperta. Una nazione differente perché non vede differenze. Mi piace, non so se si nota.

Poi è la volta di Skansen, un parco tematico che si trova appunto a Djurgarden. Un parco il cui tema, e qui potrebbe sembrare che io incappi in un clamoroso controsenso, è la tradizione svedese nel corso dei secoli. Però, qui sta il punto, conoscere le proprie radici non significa necessariamente usarle per contrapporle agli altri. Anzi. Skansen è un luogo magnifico, dove si può passare una intera giornata in famiglia senza correre il minimo rischio di annoiarsi. Si trovano, lungo il percorso del parco, decine e decine di insediamenti svedesi ricreati fedelmente, con persone che indossano i vestiti delle varie epoche e animano le scene. Si passa, quindi, dalle capanne alle fattorie, passando per i villaggi Sami, cioè dei lapponi, fino alle villette dei possidenti terrieri locali. Su tutto un panorama mozzafiato, sulla città e sul mare, e anche tutta una serie di recinti dedicati agli animali, sia quelli da allevamento che quelli tipicamente scandinavi, come le alci, le renne, gli orsi e i lupi. Una cosa gigantesca e accuratissima, a cui si accede pagando un biglietto di neanche venti euro, davvero poca cosa considerando di cosa stiamo parlando. Bello per i bambini, anzi, bellissimo, e bello per gli adulti. Il tutto al centro della città. Dopo aver visitato in lungo e in largo Skansen ci siamo recati in centro, lungo Västerlånggatan, per fare un salto nei negozi che vendono souvenir. Proprio perché nel nostro sentirci diversi dagli altri, siamo in realtà ugualissimi, abbiamo comprato una t-shirt della nazionale svedese con su scritto Ibrahimovic per Tommaso, la scimmietta di Pippi Calzelunghe di pelouche per Chiara, elmo, spada e scudo da vichingo per Francesco, ve l’ho detto giorni fa che si era vestito da vichingo, magari ricorderete, due calamite, una come una renna e una con una nave vichinga da attaccare alla cappa del forno, io mi sono preso una felpa coi colori della bandiera, azzurra con rifiniture gialle, quella che indosso nelle occasioni importanti, anche di quella vi ho raccontato.

Souvenir. Proprio come tutti gli altri turisti.

Certo, nel mentre ci siamo soffermati a lungo nella Science Fiction Bokhandeln e nella vicina Rock Town, persi tra libri e pupazzi di alieni e t-shirt e capelli di gruppi heavy metal, musica che da queste parti va ancora fortissimo, ma quanto a souvenir siamo restati sul classico. Unico rimpianto, mio, il non aver comprato una calamità che rappresentativa una donna vichinga con le tette piuttosto prosperose attaccate al corpo tramite una molla, che se uno le tocca si muovono sballonzolando.

Marina ha detto che non era il caso. Del resto, l’ho detto, di maggiorate da queste parti se ne vedono poche, meglio restare sul realistico omaggiando Ibra e Vicky il vichingo.

Dice, in Svezia si vive bene, perché hanno risorse naturali e sono pochi milioni, poco più di dieci, come la Lombardia, questo è noto anche ai sassi, ormai.

Tutto vero. Ma non basta.

Nel senso che questa è una lettura troppo banale e semplificata della realtà. Neanche buona per uno che si trova a passare da queste parti per pochi giorni, in vacanza, come me e la mia famiglia. Perché, parlando con gli svedesi, come a noi è cantato in questi giorni con Jonas, il marito di Berarda, o anche solo scambiando due battute con chi ci è capitato di incrociare, è evidente che qui si sta bene, almeno da un punto di vista di benessere e di tenere di vita non solo per un dono di natura, ma per un’ attitudine. Qui la gente pianifica, si organizza, non lascia che sia il caso a decidere per se’, rispetta le regole perché sa che rispettandole tutti tutti se ne avvantaggeranno. È una nazione che deve fronteggiare lunghi inverni, e che sa come farlo senza rimanerne prigioniera. Non è un caso che Ikea e H&M siano due marchi che, seguendo due idee sulla carta banali, ma mai praticate prima, hanno conquistato il mondo. Mobili per la casa da montarsi da soli, e quindi venduti a prezzi accessibili, uguali in tutti i negozi in ogni angolo del mondo, vestiti alla moda venduti per uomini e donne nei medesimi negozi. Su tutto una logistica studiata nei minimi dettagli, nel caso di H&M senza neanche avere i magazzini.

Hai voglia a parlare di risorse a disposizione, questa è attitudine, voglia di sopravvivere e di conquistare.

Tutto questo ci è evidente nella mattinata della nostra quinta giornata a Stoccolma, quando visitiamo il Museo del Vasa. Il Vasa è un enorme vascello affondato nel seicento, il giorno del varo, e ripescato a circa un chilometro da Stoccolma per essere collocato dentro un museo. Si, al Museo del Vasa si trova un intero gigantesco vascello, con due ponti di cannoni, tre pennoni per le vele, i rostri e tutto quanto, ricostruito con il 98% dei pezzi originali, se così si può dire di un vascello ripescato trecento e passa anni dopo essere affondato. Un caso archeologico unico al mondo. Come ci ha fatto notare la guida, una vera fortuna che il Vasa sia affondato, perché altrimenti nessun museo avrebbe potuto mostrarlo nella sua interezza. In realtà la storia del Vasa è la storia di un misero fallimento. Il re di Svezia, che si vedeva come un moderno imperatore Augusto e che morì giovanissimo durante la guerra dei trenta anni, fece costruire a un armatore olandese un vascello gigantesco, agile, capace di difendere l’onore svedese sul mar Baltico. Una nave talmente ambiziosa, alta assai più di quanto una nave non dovrebbe essere, da affondare il giorno stesso del varo, a un chilometro dal porto di partenza. Come dire, voglio dimostrare a tutti che sono un grande re e mentre provo a dimostrarlo il segno della mia grandezza cola a picco. Essendo ancora in vigore la monarchia, meraviglia che, quando nel 1956 un archeologo scoprì il relitto del vascello, si sia pensato di recuperarlo e di esibirlo, invece di tenerlo nascosto come un’onta. Invece subito iniziarono le operazioni di recupero e un lavoro di restauro che ancora dura, a distanza di decenni. Vedere questo vascello è un’esperienza incredibile. Per i piccoli, che riescono a avere sotto gli occhi una vera nave del seicento riassemblata un pezzo alla volta, e per i grandi che capiscono come da un fallimento clamoroso si può ricavare un’occasione per imparare e far imparare. Applausi a scena aperta.

Niente di meglio che andare a festeggiare mangiando il famoso kebab più buono di Stoccolma, quello di Adima al numero 76 di Folkungagata. Siamo nella parte sud di Stoccolma, nell’isola chiamata Sodermalm. Questa è la parte a sud di Slussen, che è la fermata dei bus che abbiamo frequentato in tutti questi giorni, ed è l’isola un tempo frequentata prevalentemente dai poveri e oggi rivalutata da ricchi e artisti, una sorta di Brera o Trastevere locale, come si diceva. Il kebab è stellare, con sapori completamente diversi da quelli dei nostri kebabbari. Carne macinata di agnello cotta sul grill, niente girarrosti, e salse che da noi non si usano. Tutto buonissimo. Poi ci incamminiamo verso il cosiddetto SoFo, la Soho locale che prende il nome appunto dalla via Folkungagata. Appena ci incamminiamo incrociamo una celebrità locale, Ola Salo, ex cantante dei The Ark, famosi anche da noi per la megahit mondiale It Takes a Fool to Remain Sane, del 2000. Il tipo è serenamente in giro con le buste della spesa e un bebè nel marsupio, indisturbato. Fossimo in Italia gli chiederei un selfie o lo stroncherei. Proseguiamo, rivolti verso una zona di piccole casette in legno, molto vecchie e suggestive, tipo casette di marzapane delle fiabe. Si trovano in una piazza di una zona molto frequentata da hipster e poi salgono lungo una collina che porta alla chiesa di Santa Sofia, e proprio Sofia è il nome di questa zona. Anche qui, queste piccole casette che un tempo erano abitate da poveri, spesso oggetto di incendi, visto che fatte tutte di legno e scaldate da stufe, oggi sono patrimonio culturale locale, ambitissime da chi se le può permettere. Vorrei tirare su una morale spiccia, ma credo di aver già dato del mio, a che oggi. Andiamo a cena a casa di Berarda e Jonas, nella parte ancora più a sud di Stoccolma, e tornando verso Nacka, alle 23 circa, vediamo il profilo della città che, complice una straordinaria luce rossastra offerta dal sole a mezzanotte, poco prima, si specchia sul mare. D’improvviso, lì, seduti sul bus, capiamo cos’è la sindrome di Stoccolma, e ci chiediamo se sarà facile uscirne fuori.

Lucia mi fa notare che parlare indistintamente bene di qualcosa non è da me, che infrange la mia poetica. E del resto, sempre lei, mi fa notare che non è possibile guardare alla Svezia, a Stoccolma nello specifico, come al paradiso terrestre. Ci sono anche i contro, non solo i pro.

E il primo contro, che in questi giorni si manifesta solo con repentini cambiamenti di meteo, con relativo abbassamento improvviso della temperatura, un po’ come da noi, con la differenza che qui invece di fenomeni caraibici, con acquazzoni torrenziali e afa seguente, il tutto si manifesta con pioggia gelide e temperature che di colpo scendono intorno ai dieci gradi, e vi garantisco che se siete in giro in t-shirt e canzoni corti la cosa non vi lascerà indifferenti. Il clima, quindi, questo è un contro, perché qui l’inverno è inverno serio, ci dice Berarda e le fa eco Jonas, con anche venti gradi sotto zero. E soprattutto niente luce, se non per poche ore al giorno. Anche questo nella settimana che stiamo passando qui, io e la mia famiglia, lo possiamo solo immaginare. Perché d’estate c’è invece sempre il sole, anche di notte. Si fa giusto scuro qualche ora, tra le undici di sera e le due, poi arriva l’alba e alle quattro è già giorno pieno. Ecco, a voler essere pignoli, a me il fatto che in un paese in cui in estate è giorno anche di notte nessuno abbia pensato a montare nelle case le tapparelle sembra cosa da pazzi. Se non avete il sonno profondo non c’è modo di dormire, anche se, come me, vi siete portati la mascherina per gli occhi. Quindi il tempo, che però ci grazia, regalandoci cieli spettacolari e giochi di luce e nuvole mozzafiato, e poi questa faccenda delle tapparelle. A voler andare sul personale, anche il fatto che la gente, non la gente preposta a stare al pubblico, come i commercianti o i camerieri, sono piuttosto antipatici e maleducati. Se li incroci per strada devi essere lesto a spostarti, perché tirano dritto, venendoti a sbattere. Se poi commetti lo sbaglio di andare a piedi in una pista ciclabile, beh, è tanto se non ti arrotano, ma sicuramente ti mandano a quel paese.

Non mi sembra ce ne sia abbastanza per parlare male di Stoccolma, direi.

Infatti ne parlo bene.

Di tutto tranne che di questa cosa della monarchia, perché, diciamocelo, di re, regine e principi, noi, non riusciamo a sentirne parlare. Ove per noi intendo io e la mia famiglia. Che pure ci abbiamo provato a andare al cambio della guardia, dietro al palazzo reale. Coi gemelli in prima fila e noi dietro, a seconda di età e altezza. Ma niente. Appena hanno iniziato a camminare con passo marziale, appena è arrivata la banda militare, tutti vestiti di bianco come camerieri, abbiamo iniziato a ridacchiare. Sarà che siamo marchigiani, quindi di sporto anarchico, sarà che la musica che la banda ha eseguito sembra pari pari quella del circo, ma proprio non abbiamo retto. Ci siamo immaginati, e poi detto a voce alta, tra le lacrime, che da un momento all’altro saltassero fuori un elefante su una palla o le scimmiette che fanno gli altri animali coi palloncini, invece era una parata militare seria. Seria come può esserlo una parata militare, appunto.

Scappati prima della fine siamo andati a fare un giro nel quartiere sopra i giardini del re, sempre lui. Una zona, questa, di griffe ma anche di immancabili negozi H&M, qui anche presente con i marchi affiliati di Cos e di And other stories. Una specie di zona dedicata allo shopping, ma sempre a un tiro di scoppio dal centro e dal mare. E il mare è stato protagonista della seconda parte della giornata, che ha definitivamente scacciato ogni tentativo, mio, di dire qualcosa di male su questo posto. Perché abbiamo preso l’ennesimo battello e siamo andati a farci una passeggiata in un’isoletta vicina a Nacka, Fjaederholmarna. Un posto incantevole, con giusto undici casette abitate, tante erano le cassette della posta di fronte al porticciolo, qualche bar, un paio di negozietti e per il resto natura, anse dove andare a fare il bagno o rimirare paesaggi e cigni, e soprattutto rilassarsi. Rilassarsi e piangere come vitelli, come nella pubblicità di una nota compagnia di crociere, pensando a quando faremo ritorno a casa. Ecco, da pensionati vorremo venire qui, ci siamo detti io e Marina, ben sapendo entrambi che nessuno dei due andrà mai in pensione.