La nostra prima uscita dopo settantasei giorni di clausura

Sabato è stata la nostra prima uscita di questa Fase 2 e parafrasando il grande immenso Hubert Selby Jr direi Prima uscita Brooklyn

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Alla fine siamo usciti.

Intendo siamo usciti noi, gli altri sembra lo abbiano già fatto tutti, noi, la mia famiglia, quella insieme alla quale ho passato gli ultimi settantotto giorni, 24 ore su 24, uno dopo l’altro, per non dire dei giorni a venire, la Fase 2 ancora identica alla Fase 1, qui in casa nostra, tranne appunto per il fatto che siamo usciti un’oretta e mezza, la Fase 2 uguale alla Fase 1.

O quasi.

Perché siamo appunto usciti, per un’oretta e mezzo di sabato pomeriggio, verso le 18, l’idea di andare a fare due passi, non tanti di più, al Parco Lambro, uno degli spazi più grandi nella fetta di Milano nella quale abbiamo deciso di vivere ventitré anni fa.

Non lo abbiamo detto prima ai nostri figli, Marina e io, nonostante avessimo deciso di farlo già da un paio di giorni, titubanti. E non lo abbiamo fatto, di dirglielo, perché temevamo che per un qualche motivo questa prima cauta passeggiata sarebbe potuta saltare, che ne so?, per pioggia, o per un qualche altro motivo imprevedibile, e non volevamo che in caso loro ci rimanessero male. E non lo abbiamo fatto anche perché, parlo per me ma conosco così bene Marina da poterlo serenamente fare anche per lei, perché questa nostra prima cauta uscita è stato un momento piuttosto forte, emotivamente parlando, di quelli che poi te li ricordi anche a distanza di anni, di decenni.

Pensateci, e so che non faticherete a farlo, visto che avrete vissuto immagino nelle nostre medesime condizioni psicologiche, nelle ultime settimane, quando abbiamo varcato il portone del nostro palazzo, sabato pomeriggio verso le diciotto, Chiara non metteva piede fuori di casa da ottantatré giorni, Marina, Lucia, Tommaso, Francesco e mia suocera da settantasei giorni. Unico a essere uscito nel mentre, già lo sapete, io, per la precisione undici volte in questi settantasei giorni, proprio lo stesso giorno Google Maps mi ha notificato che in aprile ho fatto 6 km in auto,  6 km che si sommano agli altrettanti di marzo, per un totale di 12 km in undici uscite, toh, quindici in totale, se ci mettiamo qualche volta che sono dovuto poi uscire di pomeriggio, nei giorni della spesa, per andare a ritirare qualche medicina prenotata di mattina. Niente, comunque. E mai se non per fare la spesa, al supermercato o in farmacia. Un perimetro circoscritto, senza mai neanche allungare per fare, che so’, il giro dell’isolato.

Al punto che, l’ho realizzato mentre ci siamo salutati, proprio settimana scorsa mi sono ritrovato per la prima volta in oltre settanta giorni a parlare dal vivo con qualcuno che non fosse del mio nucleo familiare, entrambi con la mascherina ben messa sul viso, ma comunque non con un familiare e non al telefono. È successo nella farmacia che si trova vicino a dove abitavamo prima, fino a un paio di anni fa, non più di trecento metri da dove abitiamo ora. Quella che non è più la nostra farmacia di riferimento perché ne abbiamo una proprio sotto casa, ora. Ero andato lì perché in quella sotto casa non funzionavano i computer, e non potevano quindi inserire le prescrizioni del medico curante, ovviamente spediteci via mail. Ho allungato di qualche passo e sono andato nella nostra vecchia farmacia, incoraggiato proprio dalla Fase 2, e così, mentre aspettavo che la farmacista staccasse i bollini tolti con quel cazzetto che sembra un bisturi dal retro delle scatole dei medicinali, allo scopo di appicciacarle nelle prescrizioni, passasse il codice a barre sulle medesime, andasse di volta in volta a prendere i vari medicinali delle prescrizioni successive, ci siamo messi a chiacchierare, come appunto non succedeva da oltre due mesi. Io e una conoscente a chiacchierare dal vivo, roba da lucciconi.

L’operazione è andata avanti per una ventina di minuti, perché tanti erano i medicinali che dovevo prendere, l’intera scorta mensile di mia suocera, e chiacchierando di questo lock down, di come avevamo vissuto rispettivamente in lock down, di come lo avevano vissuto le nostre famiglie, abbiamo fatto passare il tempo, e proprio quando ci stavamo per salutare ho realizzato che quel semplice gesto, parlare con qualcuno che conosco da circa quindici anni, con cui ho una qualche familiarità, anche se non parlerei di confidenza, aveva in qualche modo scombinato quella che è diventata la mia quotidianità, fatta di famiglia, lavoro e scuola, la maledetta didattica a distanza, telefonate, videochiamate, riunioni sulle varie app, da Zoom a Webex, ma mai neanche una parola detta dal vivo, se non i saluti con le cassiere del supermercato. A pensarci, e ripeto l’ho realizzato quando ci stavamo salutando, ho provato una specie di senso di smarrimento, di vertigine, ma magari era solo la mascherina che ormai avevo addosso da più di un’ora, perché, confesso, quel parlare dal vivo con altri che non fossero i miei familiari, non è che mi fosse poi mancato molto. O almeno quella è stata la mia impressione, impressione figlia, immagino, più di una sorte di sindrome di Stoccolma nei confronti del Coronavirus, che ci ha tenuto in ostaggio per tutti questi giorni, queste settimane, ormai questi mesi.

Non voglio parlare di sindrome della tana, del nido o quelle stronzate lì, figuriamoci, viste le firme che ne hanno parlato sui giornali, dalla Parsi in su, direi che anche solo pensare di farlo mi riempie di imbarazzo e di crolli di autostima, ma sicuramente qualcosa che ha a che fare con la paura del mondo là fuori potrebbe anche aver senso, unito, certo, a quella forma coltivata negli anni di asocialità che mi ha spinto, già sapete, a diventare quello che non c’è, e parlo di lavoro, l’isolato, il cavaliere nero a cui non si deve cagare il cazzo.

Se quindi mi ha spiazzato, quasi emozionato, constatare che avevo parlato per la prima volta con una persona conosciuta dal vivo, figuriamoci l’effetto che può farmi il constatare che da oggi, che è sabato per noi, sabato 9 maggio, sarà immagino lunedì 11 maggio per voi, se leggerete queste mie parole quando usciranno online, o chissà quando se le leggerete poi, il solito gap che la parola scritta pubblicata porta giocoforza con sé, come la musica dal vivo che venga registrata e resa pubblica, figuriamoci quindi l’effetto che può farmi oggi uscire con tutta la mia famiglia, fatto di per sé consueto, talmente consueto che non saprei dire, così, su due piedi, l’ultima volta che è successo con tutti, probabilmente dovrei risalire con la memoria alle feste di Natale.

Sono emozionato.

Marina è emozionata.

Al punto che non lo abbiamo detto ai nostri figli, per non creare eccessive aspettative, per non lasciare che scattasse una qualche forma di euforia e, penso onestamente a Tommaso, anche di panico, parole che, lo vedrete a breve, avrebbero avuto del profetico, non le avessi scritte a fatti avvenuti, della serie “e grazie al cazzo”.

Abbiamo aspettato che si avvicinasse l’ora in cui abbiamo deciso di uscire, le 18, e lo abbiamo annunciato, così, senza caricare troppo di enfasi il tutto, siamo adulti, siamo bravi a dissimulare le emozioni.

Ci siamo preparati, cercando di essere fermi nel ribadire le regole di base, sempre la mascherina in faccia, non toccare nulla, perché di guanti ne abbiamo pochi e li dobbiamo contingentare per quando si fa la spesa, e è impossibile non toccare i prodotti che si devono acquistare, stare lontani dagli altri, alla faccia del divisi ma vicini, poi quando si torna a casa tutti la doccia, subito, le scarpe tolte appena usciti dall’ascensore. Al parco, a passeggio, senza potersi sdraiare nei prati, senza poter giocare a pallone, solo per camminare, e poi a casa, a fare tutti la doccia, ripetere aiuta, la doccia non insieme, ovviamente, non siamo una comune di fricchettoni, e infine la pizza, per cena, come tutti i sabati.

Abbiamo preso l’ascensore, mentre Marina è scesa a piedi, oggi per uscire ha saltato la sua lezione di ginnastica online, e ho ovviamente premuto io il pulsante del piano terra, per non doverlo far fare a nessuno di loro, senza guanti, siamo usciti, come in iperventilazione, disabituati a stare fuori e a stare fuori insieme, la fatica indubbia dell’indossare le mascherine con questo caldo primaverile, e abbiamo attraversato la piazza, in verità piena di gente, come sempre da che è iniziata la Fase 2, gente a piedi, non sempre con la mascherina, tante auto, nonostante di sabato non ci sia tutta questa gente che deve andare al lavoro, immagino. Insieme, perché questo prevede il decreto, e amen se qualcuno avrà pensato a un assembramento, noi viviamo insieme, siamo sette, viviamo da settantasei giorni in un perenne assembramento.

Il fatto che non abbia raccontato subito questa cosa della prima uscita, perché sono passati due giorni, giorni nei quali ho comunque scritto il mio diario, è dovuto a un semplice motivo specifico, che ho già per altro enunciato in altre pagine, semplice, di facile fruizione e comprensione, ho un certo pudore verso me stesso, e ho già spiegato come il pudore riguardi certi aspetti, che non sono ovviamente il raccontare che ho cagato in strada a pochi passi dalla piazza principale della mia città natale, ma che riguarda più aspetti intimi della mia vita, e, di conseguenza, perché per affrontare certi aspetti intimi della mia vita ho necessità, necessità fisica, da autore concreto, di mettere dei giorni tra me e i fatti che in qualche modo travalicano il rapporto intimo, certo, ma pur sempre regolato dal vettore autore-lettore, unidirezionale e anche sufficientemente protetto, come dire, devo prendere le distanze, metabolizzare, affrontare senza correre rischi per la mia intimità, e solo dopo scrivere quel che devo scrivere. Era già avvenuto parlando della morte di mia zia Teresa, la sorella di mia madre, succede anche oggi.

Poi, ma questa è più una notazione di colore, quasi folkloristica, il fatto che lo stesso giorno in cui siamo usciti, quello per intenderci in cui vi parlavo del mio dissenso totale e rabbioso nei confronti della didattica a distanza, quella didattica a distanza che ci ha impedito, per altro, per tutti i primi cinque primi giorni della Fase 2 di portare fuori i nostri figli, ostaggio della prassi scuola-lavoro, il fatto che lo stesso giorno in cui siamo usciti, quindi, quello per intenderci in cui vi parlavo del mio dissenso totale e rabbioso nei confronti della didattica a distanza, e quello subito dopo aver ipotizzato una ripartenza, certo ancora lontana ma quantomeno speranzosa, a partire dal rock’n’roll, tirando in ballo i The Cramps, ovvio, ma andando a vedere nel rock’n’roll la perfetta colonna sonora delle ripartenze, come in quel dopoguerra che da noi ha avuto la voce di Carosone, o come negli anni del Boom economico, e lì parlavo di Celentano, avendo anche voluto citare i veri nomi del rock’n’roll del dopoguerra e del boom, Elvis e Jerry Lee Lewis, due nomi che ovviamente dovevano rappresentare anche gli altri, Little Richard, Chuck Berry, certo con menzione alla scena di Ritorno al futuro che tutti conosciamo e tutti abbiamo amato, e Buddy Holly e al suo aereo caduto, il fatto che lo stesso giorno in cui siamo usciti, quindi, quello per intenderci in cui vi parlavo del mio dissenso totale e rabbioso nei confronti della didattica a distanza, e quello subito dopo aver ipotizzato una ripartenza, certo ancora lontana ma quantomeno speranzosa, a partire dal rock’n’roll sia anche il giorno in cui è morto proprio Little Richard, ennesimo epigone della musica che così tanto ho amato e di cui in questi giorni di pandemia, di clausura, di contagio sono tornato a scrivere, per certi versi ho iniziato proprio a scrivere, penso anche a Tony Allen, forse il più grande batterista black di tutti i tempi, e non solo black, si pensi a cosa ha fatto per l’Afrobeat con Fela Kuti, a Florian Schneider dei Kraftwerk, oltre a quelli di cui vi ho parlato in queste pagine o di cui non ho parlato anche per non trasformare queste pagine in un lungo necrologio, da Zagor dei Camillas a Dave Greenfield degli Stranglers, passando per Lee Konitz, John Prine, Manu Dibango e gli altri, il fatto che lo stesso giorno in cui siamo usciti, quindi, quello per intenderci in cui vi parlavo del mio dissenso totale e rabbioso nei confronti della didattica a distanza, e quello subito dopo aver ipotizzato una ripartenza, certo ancora lontana ma quantomeno speranzosa, a partire dal rock’n’roll sia anche il giorno in cui è morto proprio Little Richard, beh, dà al tutto un tocco di emotività quasi incontrollabile, come se proprio oggi, e per oggi intendo sabato 9 maggio, non oggi che mi leggete, vai a sapere quando, o l’oggi in cui scrivo, che è lunedì 11 maggio, come se proprio oggi Dio si fosse divertito a metterci di fronte a un plotone di esecuzione, piccolo insignificante uomo, tu mi parli di rock’n’roll, e io chiamo in cielo l’ultimo eroe di quell’epoca magica e incredibile, mettendo in qualche modo la parola fine a una generazione e a quello che quella generazione non solo ha vissuto e quindi fatto, ma anche rappresentato per le generazioni a venire, certo, Jerry Lee Lewis è ancora vivo, ma tutti abbiamo visto quella foto agghiacciante di come è ridotto ora l’uomo famoso per aver infiammato, non solo metaforicamente, il perbenismo americano, meglio ricordarlo da vivo, anche lui.

Comunque sia, quando mancava un’oretta scarsa alle 18 lo abbiamo detto, insieme, io e Marina, ai nostri figli, mia suocera già lo sapeva, lei è grande, poteva dissimulare emozioni come noi.

Prima lo abbiamo detto a Lucia, che ha ovviamente polemizzato sullo stare fuori troppo poco, ma che ha ovviamente molto apprezzato la proposta, gli occhi raggianti come mai le avevo visto in questi giorni.

Poi siamo passati da Tommaso, che nonostante fosse sabato pomeriggio, stava facendo i compiti, non fatemi tornare a dire cosa penso della didattica a distanza. Tommaso ha inizialmente pensato scherzassimo, come se ormai l’idea di uscire fosse qualcosa, appunto, di talmente impossibile da essere oggetto di battute. Quando poi ha realizzato che eravamo seri ha detto “No, grazie”, chiudendosi la porta alle spalle e rimettendosi a fare i compiti. Non è uscito neanche per salutarci, come a voler mettere una porta di legno tra sé e l’ipotesi di uscire fuori, in mezzo al mondo impestato e pestilenziale. Ero abbastanza convinto di questa sua reazione, perché è mio figlio e lo conosco bene. Lui è così, si fida poco o niente degli altri, e ha anche una certa paura di tutto quel che sta succedendo, è stato per giorni il portavoce della Protezione Civile in casa nostra, alle 18 a farci il bollettino di morti e contagiati, e credo non uscirà di casa neanche quando noi saremo nella Fase 6, chissà quando. A quel punto anche mia suocera, che spesso lamenta l’essere rimasta in casa così a lungo, ha deciso di restare con Tommaso. Del resto ha settantaquattro anni, ancora non compiuti, direi che un po’ di prudenza non le farà male.

Quando però siamo andati in sala a dirlo ai gemelli, al momento impegnati in una lunga maratona tv, la mattinata passata come sempre a fare i compiti con me e Marina, non mi fate dire cosa penso della didattica a distanza, proprio sabato ne ho appunto scritto, la reazione è stata incredibile.

Chiara è caduta, letteralmente, dal divano, gli occhi, già grandi di suo, sgranati come fosse Oriella Dorella, Francesco ha iniziato a correre come un pazzo intorno ai due divani, le braccia aperte come gli ho visto fare quando segna un goal durante le partite di pallone, lui che gli amici chiamano Bomberito, presto raggiunto da Chiara e da Lucia.

Tommaso, ovviamente, non si è unito al gruppo festante, lui non è voluto uscire, anzi, ci ha tenuto a farci sapere che al Parco Lambro c’è tutta Milano, citando una serie di nomi di suoi amici, a suo dire, lì sul luogo con le famiglie.

Fatto, per altro, che abbiamo potuto constatare di persona, una volta arrivati. Cioè, non abbiamo visto i suoi amici, almeno credo, le mascherine impediscono in effetti di riconoscere tutti quelli che abbiamo davanti, ma che tutta Milano fosse lì, beh, credo di poterlo dire senza paura di essere smentito.

Un numero impressionante di persone, e non si legga queste parole con intenti sceriffeschi, più come di chi vuole fare mera cronaca, almeno una volta nella vita.

Tornando al momento dei festeggiamenti. Li abbiamo interrotti e ci siamo preparati per uscire, nel mentre abbiamo ancora una volta scandito le regole con toni persuasivi e anche vagamente minatori “Non si può correre lontani da noi, non ci si può stendere sui prati, non si può giocare nelle aree per bambini, che saranno chiusi, non si può giocare a calcio, in pratica si può solo camminare mano nella mano con noi”, frasi talmente efficaci che Francesco, il vichingo, per intendersi, ha contrappuntato con una domanda secca, “Il pallone quindi lo posso portare?”.

Ci siamo messi le mascherine, e ho dovuto fare nodi agli elastici di quelle dei bambini, perché troppo grandi per loro.

Ci siamo fatti qualche foto ricordo, perché immagino che questo sarà un momento che ci ricorderemo a lungo e le foto, a volte, servono anche a conservare meglio i dettagli dei ricordi.

Poi siamo scesi. Altre foto, respiri a pieni polmoni, per quanto siano possibili, appunto, attraverso le mascherine, e via.

Abbiamo attraversato la piazza sotto casa nostra, siamo saliti in auto e siamo andati verso il Parco Lambro, senza tenere le distanze di sicurezza, siamo un nucleo familiare, viviamo insieme, non è necessario, dicono le FAQ di Palazzo Chigi.

Abbiamo parcheggiato senza fatica, un posto vuoto proprio davanti all’ingresso del parco, mentre avvicinarsi all’ingresso del parco in auto è stato complicato, diverse auto in giro, ma soprattutto biciclette. Come del resto abbiamo trovato un sacco di biciclette dentro il parco. Pieno di biciclette, di gente che corre, di gente a piedi, di gente stesa e seduta sui prati, cani ovunque, senza guinzaglio, una macchina dei vigili a fare la ronda.

Tantissima gente. Come raramente capita di vedere a Milano, tranne forse in quei rari giorni in cui il caldo gioca d’anticipo sul calendario, e la gente non è pronta a scapparsene altrove, al lago, al mare, ovunque sia questo altrove.

Oggi la gente è qui, al Parco Lambro, e immagino sia un po’ in tutti i parchi di Milano, un po’ ovunque in giro per Milano.

E ci siamo anche noi, non tutti e sette, peccato, ma noi cinque sì, e ci godiamo ogni singolo secondo di questa nostra passeggiata, ogni passo, ogni respiro, ogni cagnolino che abbiamo incontrato, per la gioia di Chiara, che ama gli animali, chissà da chi ha ripreso, ogni persona che abbiamo incontrato con indosso una mascherina buffa, con le risate e le battute di Francesco, sempre lì a fare l’istrione. Lucia è forse quella che mi ha colpito di più, in questo contesto, perché di solito, negli ultimi anni, ha sempre sofferto il dover andare in giro con il resto della famiglia, noi compresi, mentre oggi è davvero affettuosa con i gemelli e anche con me e Marina. Fa foto, lei è brava a farle, le fa a noi come agli altri che vede in giro, come a voler immortalare il tutto, a imprimerlo su pellicola, anche se le sue sono foto digitali.

In realtà il primo selfie che abbiamo fatto, in casa, lo ha fatto con la sua polaroid, e ci ha anche scritto su Quarantena 2020, non so se per scaramanzia, perché a me non sarebbe mai venuto in mente di metterci l’anno, ipotizzando, sarò un incredibile ottimista, che questa sia la sola pandemia e quindi quarantena che vivrò nella mia vita, poi l’ha appesa alla sua bacheca, insieme alle foto importanti, quelle della vita, dove quasi mai ci siamo noi della famiglia.

È stata talmente contenta, Lucia, da aver insistito con Tommaso, col quale di solito intrattiene più che altro rapporti tipo cane e gatto, dispiaciuta come tutti per il suo non voler venire con noi, nel volersene rimanere al sicuro in casa.

Ho passato così tanti giorni a pensare al giorno in cui saremmo usciti, in verità ipotizzando che sarebbe stata una uscita definitiva, tipo, per dirla con parole ormai abusate e diventate di triste uso comune, “liberi tutti”, un giorno che immaginavo, quindi, senza mascherine, senza orari, senza il nostro continuo ripetere non toccate niente, stai lontano da quella balaustra, il nostro essere sempre vigili per paura che qualcuno si avvicinasse troppo, paura, forse pure paranoia, ma comunque paura rivolta più ai figli, ovviamente, che a noi, io sono già andato in luoghi chiusi assai più pericolosi di un parco, ho passato così tanti giorni a pensare al giorno in cui quindi saremmo usciti che provo anche fatica a trovare le parole giuste per descrivere le tante, troppe sensazioni che ho provato.

Per questo neanche ci provo, mi arrendo in partenza, senza opporre resistenza di fronte all’evidenza.

Passeggiando per Parco Lambro, io e Marina ci siamo chiesti, a voce alta, se sarà questa l’estate che ci aspetta. Marina, che lavora in un team internazionale, e che quindi non solo sente i discorsi che la task force dedicata al Covid-19 della sua azienda settimanalmente fa, ma ha anche modo di confrontarsi con quel che succede all’estero, sostiene che questa situazione andrà avanti ancora per un po’, lei dice a lungo, e sostiene anche che, non essendoci un vaccino, certe abitudini anche avvilenti che stiamo assumendo, la cosiddetta distanza sociale, diventerà per qualche tempo consueta, ci faremo l’abitudine, come a convivere con le mascherine, coi guanti, con tutto ciò.

Per questo, camminando per Parco Lambro, nel mentre è arrivata la bella notizia della liberazione di Silvia Romano, in Somalia, anche lei del nostro quartiere, della nostra fetta di Milano, comunque, io e Marina, camminando per Parco Lambro, non dimentichiamolo, il parco che per chi come me si occupa di musica è quello del Festival Re Nudo, di Finardi e gli Area, delle foto in bianco e nero dei fricchettoni nudi che fumano le canne, la nostra Woodkstock, e che oggi è invece un florilegio di mascherine, spesso portate a cazzo, va detto, ma comunque presenti e di gente che evita di fare assembramenti, con le solite stupide eccezioni, eccezioni comunque molto circoscritte, per questo, camminando per Parco Lambro ci siamo raccontati una estate fatta di scampagnate, di gite per le colline, prima in Lombardia, magari intorno a qualche lago, e poi, a agosto, nelle nostre Marche, lontani comunque dal mare che, stando a quel che si legge sui giornali, le regole che tenderebbero a contingentare gli ingressi, gli orari del bagno prenotati online, gli ombrelloni troppo distanti, mare che sarebbe comunque assai diverso da come lo abbiamo imparato a vivere, poco godibile, se non addirittura fastidioso e ostile.

La cosa, seppur nella felicità di essere a spasso con i nostri figli per la prima volta dopo due mesi e mezzo, ci ha immalinconito, anche se con la mascherina ho visto gli occhi di Marina, quei bellissimi occhi tra il celeste e il grigio dentro i quali mi sono perso già la prima volta che l’ho vista, il primo giorno di scuola del settembre 1986, farsi più piccoli, tristi, come si sono intristiti quando abbiamo dovuto dire ai nostri tre figli, uno rimasto in casa, che saremmo dovuti rientrare, di già, perché si è fatto tardi, perché respirare con le mascherine è faticoso, perché tornati avremmo dovuto fare tutti le docce, lavarci bene, per evitare rischi che, magari, immagino, non abbiamo neanche corso.

Alla fine, quindi, seppur nella consapevolezza che è una prima volta che, come tutte le prime volte, ricorderemo ma non sarà all’altezza delle successive, senza queste stesse ansie, spero, senza queste emozioni contrastanti, alla fine, quindi, siamo usciti, e siamo andati a fare una passeggiata al Parco Lambro, io, Marina, e tre dei nostri quattro figli.

Poi siamo tornati a casa dicendoci che, se tutto va bene, riusciremo di nuovo sabato prossimo, perché questa situazione non è ancora finita, non è mica un caso che sono ancora qui a scriverne, Fase 2 sì, ma fino a un certo punto.

Siamo usciti lo stesso giorno in cui è stata liberata Silvia Romano, evviva, ma anche nello stesso giorno in cui è morto Little Richard, quello di Tutti frutti, canzone che ero solito cantare una vita fa, quando cantavo in una band in cui suonavano i miei amici di gioventù Simone, al basso, Alessandro, alla batteria, e Gianmarco, alla chitarra, tutti ancora nei miei affetti, Simone uno dei miei migliori amici in assoluto. La cantavo, Tutti Frutti, e non conoscendone il testo, mica c’era internet a quei tempi, testo che del resto come molti classici del rock’n’roll usava uno slang onomatopeico, fatto di parole che non significavano nulla, non credo serva tirare in ballo un altro brano che suonavamo allora, Be Bop A Lula, la cantavo, Tutti Frutti, e non conoscendone il testo me lo inventavo di sana pianta, spesso andando a riproporre quello di un altro dei brani che avevamo in repertorio, With or Without You degli U2. Ci stava alla perfezione, provateci a casa, non correte rischi, stessa metrica, e dove non ci stava lo cambiavo, ero un performer di un certo livello, io, molte delle ragazze della nostra compagnia mi svenivano dietro, ma io ero follemente innamorato di Marina, come oggi.

L’ho cantata, Tutti Frutti, anche al suo diciottesimo compleanno, il 14 novembre, suo di Marina, nell’oratorio della sua parrocchia, una festa clamorosa, che ancora oggi è oggetto di ricordi e aneddoti quando ci si vede con gli amici di allora, spesso al mare, quel mare in cui quest’anno non andremo, con ogni probabilità.

All’epoca io e Marina non stavamo ancora insieme, ci saremmo fidanzati due mesi e mezzo dopo, l’8 febbraio 1988, ma io ero già follemente innamorato di lei, per questo mi piace raccontare, forzando un po’ la mano ai fatti, che l’ho fatta capitolare proprio in quell’occasione, dopo una corte durata tanti e tanti mesi. Ho cantato Tutti Frutti di Little Richard, e tante altre canzoni, da Teorema di quel Marco Ferradini che poi sarebbe diventato mio buon amico a Hotel California, e no, Don Henley non è mio amico, da Guantanamera a Tanta voglia di lei dei Pooh, un repertorio da festa, potevamo suonare per tre, quattro ore come se niente fosse.

Non so perché vi sto raccontando questa cosa oggi, non credo ci sia un nesso con la nostra prima uscita, come non credo ci sia un nesso con la liberazione di Silvia Romano, anzi ne sono sicuro, né con la morte di Little Richard.

Oggi è stata la nostra prima uscita, parafrasando il grande, grandissimo, immenso Hubert Selby Jr, Prima uscita Brooklin, senza neanche un Tralalà a animare la scena. Sono felice per Silvia Romano, mi spiace per Little Richard, ma oggi è stata la nostra prima uscita dopo settantasei giorni di clausura. Così, senza altro da aggiungere, senza morali da poter trarre, non c’è, una morale, non statela a cercare in queste mie parole.

Prendetele semmai solo per quel che sono, il confuso ciarlare di un padre che oggi ha vissuto coi suoi figli, tre su quattro, e sua moglie un momento degno di finire nella bacheca di sua figlia più grande, la scritta Quarantena 2020 a fare da monito.