In morte di Bob Marley, le ultime parole del re del reggae a suo figlio Ziggy

L'11 maggio 1981 moriva Bob Marley: aveva perso la battaglia contro il melanoma ma aveva regalato al mondo la sua Redemption Song


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Il giorno della morte di Bob Marley è oggi, 11 maggio, e il 2020 ci ricorda che sono passati 39 anni dall’ultimo respiro di un poeta dell’amore, della libertà e dell’uguaglianza.

Un ultimo respiro, quello della voce di No Woman No Cry, che forse echeggia ancora tra i reparti del Cedar of Lebanon Hospital di Miami, dove Marley era stato trasportato mentre ritornava da quella Germania in cui si era sottoposto all’ultimo trattamento per quel melanoma sotto il dottor Josef Issels.

La malattia

La malattia di Bob Marley lo aveva ridotto ad uno stato terminale che lo aveva costretto a prendere una decisione talmente sofferta e definitiva che diede un taglio alla sua identità: eliminare i dreadlock, che per lui non erano semplicemente delle trecce molto in voga in Jamaica. I dreadlock erano un simbolo, uno stato spirituale.

Mentre quei ciuffi rovinavano sul pavimento Bob Marley lesse alcuni passi della Bibbia, quasi a voler recitare un requiem, quasi a volersi dare da solo un’estrema unzione dal momento che in quel momento perdeva per sempre la sua battaglia e la sua consapevolezza.

Quella mattina dell’11 maggio 1981 al Cedar of Lebanon Hospita di Miami c’erano anche i suoi figli. C’era anche il rumore di quel palco a Pittsburgh, allo Stanley Theater dove pose fine alle date dell’Uprising Tour il 23 settembre 1980. Nel suo cuore, Bob, poteva essere orgoglioso di aver inventato un uomo nuovo, un mondo che ora aveva Redemption Song.

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L’importanza di essere Bob Marley

Fu proprio lui, inoltre, ad aver cambiato per sempre il pubblico italiano con lo storico concerto allo Stadio Meazza di San Siro, Milano, il 29 giugno 1980, che trasformò l’impianto sportivo in una piccola Woodstock, uno spaccato generazionale.

Una giornalista lo intervistò e gli domandò perché l’avesse tanto con i soldi se lui comunque ne guadagnava tanti: I soldi non devono condizionarti la vita, rispose Bob Marley, e aggiunse: “Le cose importanti sono Dio, la natura, il mondo. Non i soldi”.

Fu lui a ottenere una stretta di mano tra Michael Manley ed Edward Seaga, rispettivamente del People’s National Party e del Jamaican Labour Party, che alla fine degli anni ’70 avevano aizzato forti attacchi da parte di gangster per condizionare il popolo. Era guerra politica e quell’orrore doveva finire. La stretta di mano non pose fine alle ostilità, ma con quel tentativo Bob Marley fece conoscere al mondo il suo forte desiderio di pace.

Era il 22 aprile 1978 e solamente due anni prima un tentativo simile rischiò di finire nel sangue: Bob, sua moglie Rita e il manager Don Taylor subirono un attacco da parte di un gruppo armato e rimasero feriti.

Bob Marley volle esibirsi lo stesso: “Le persone che cercano di far diventare peggiore questo mondo non si concedono un giorno libero. Come potrei farlo io?.

In morte di Bob Marley

Erano le sue ultime ore di vita e Bob Marley, su quel letto dell’ospedale di Miami, aveva detto, fatto, cantato e teorizzato tanto. Non soltanto I Shot The Sheriff: il suo messaggio aveva stimolato l’autodeterminazione mentale e spirituale dei popoli oppressi. Non un invito a imbracciare i bastoni e a rompere le barriere. Bob Marley aveva trascorso l’intera vita a ricordare che la prima indipendenza è quella mentale anche quando hai il portafoglio pieno, perché probabilmente quei soldi ti hanno vinto e non liberato.

Per questo quella mattina, prima della sua ascesa, Bob Marley osservò suo figlio Ziggy e gli disse: I soldi non possono comprare la vita. Lo aveva già detto al mondo, ora toccava a suo figlio continuare su quella strada. La morte di Bob Marley fu scandita da quella frase, un eterno gong suonato in levare.