Quando dai mass media arriva la notizia della morte di Bob Marley un Paese intero si ferma. Uno Stato, un modo di essere che in Robert Nesta Marley hanno trovato un portavoce. Bob ha scritto un capitolo importantissimo per la storia della musica e dell’uomo.
L’11 maggio 1980 Bob Marley esala l’ultimo respiro. Muore a 36 anni in un letto d’ospedale, al Cedar Of Lebanon Hospital di Miami, ucciso da quel cancro che non gli ha mai dato tregua. Prima di spegnersi rivolge a suo figlio Ziggy le sue ultime parole: “I soldi non possono comprare la vita”. Riceve i funerali di Stato con due confessioni coniugate per l’evento, quella dell’ortodossia etiopica e quella dei Rastafari. Nella sua tomba, insieme al suo corpo, porta con sé la sua Gibson Les Paul Solid Body, una pianta di marijuana con dei semi, un pallone da calcio e un anello.
La morte di Bob Marley inizia lentamente, nel luglio 1977. Dopo una partita a calcio Bob nota una ferita all’alluce destro, circostanza che inizialmente viene attribuita allo sport. Così la voce di Jammin’ gioca un’altra gara, e questa volta l’unghia si stacca. La diagnosi ora è chiara: melanoma maligno sotto l’unghia dell’alluce. Può amputare il ditone o estrarre il letto dell’unghia, secondo due pareri clinici discordanti. Bob sceglie la seconda opzione, e il tumore non passa. Si estende fino al cervello, la bestia, e si diverte a divorarlo di anno in anno.
Dopo la tappa newyorkese dell’Uprising Tour Bob Marley collassa a Central Park. A Monaco gli dicono che la malattia non si può più curare. I suoi dreadlocks sono troppo pesanti. Li taglia, e mentre le ciocche rovinano al suolo legge i passi della Bibbia. La morte di Bob Marley, tuttavia, non ha impedito la realizzazione degli ultimi brani come Redemption Song, perché si può essere rivoluzionari anche quando la morte fa capolino di giorno in giorno.