Se volete dimenticare tutto il brutto che ci circonda, ascoltate i Volosumarte

Solo la bellezza in musica può salvarci, visto che di salvarci non si occupa più nessuno

Cover album


INTERAZIONI: 245

Il giorno in cui Toni Negri è rientrato dal suo esilio francese, il 2 Luglio 1997, io ero in compagnia di un altro esule da poco rientrato in Italia, Nanni Balestrini. Ero con lui a Venezia, per dare una mano al suo progetto Venezia Poesia, da poco tornato dalla mia partecipazione al Laboratorio di Scritture Ricercare, tenutosi a Reggio Emilia, nel quale, invitato da lui, avevo fatto il mio esordio come narratore, esordio che poi sarebbe arrivato in libreria di lì a qualche mese, tra dicembre 1997 e gennaio 1998, con la raccolta di racconti “Furibonde Giornate Senza Atti d’Amore”, raccolta che conteneva il racconto che avevo letto a Ricercare, “Un Posto Meno Spaventoso”, e che aveva una prefazione scritta dallo stesso Balestrini.

So che parlare di esilio parlando di Toni Negri farà inorridire molti, non importa, le parole sono importanti e uso quelle che, da scrittore, ritengo le parole giuste, se non vi piacciono non leggetele, quello è stato un esilio, senza se e senza ma. Per Balestrini, poi, rientrato e scagionato una volta rientrato di tutte le ridicole accuse cui era stato sottoposto per il suo essere stato parte di Potere Operaio, e per i suoi scritti, evidentemente considerati eversivi salvo poi non essere più considerati tali, parlare di esilio è cassazione, non esiste altra parola ammissibile.

Ma non è di questo che voglio parlare, l’ho già implicitamente fatto.

Mi preme invece raccontare come, il 2 luglio 1997, io fossi con Nanni Balestrini quando gli arrivò una telefonata sul cellulare proprio da parte di Toni Negri, che era appena atterrato a Roma da Parigi.

Così, squilla il telefono, Nanni risponde, siamo non ricordo più bene in che parte di Venezia, Lello Voce da qualche parte, lui molto più coinvolto di me in quell’iniziativa, a cui io partecipavo davvero come occasionale collaboratore, inizia chiacchierare e quando poi riaggancia mi dice, “Era Toni Negri, è appena atterrato a Roma”.

Ora, mettetevi nei miei panni.

Torniamo a quel luglio 1997.

Ho da qualche tempo deciso di provare a scrivere, diciamo da quando stavo per finire il servizio civile fatto presso un dormitorio per senza fissa dimora. A spingermi a farlo è stato proprio Nanni Balestrini, che ho conosciuto durante una presentazione alla Feltrinelli di Ancona di un libro della sua compagna, la scrittrice Rossana Campo, io che giro per gli scaffali e vedo lui, il mio scrittore preferito, che fa altrettanto, io che lo avvicino, gli chiedo se sia proprio lui, iniziamo a chiacchierare, ho letteralmente divorato i suoi libri, tutti, e lui che mi dà il suo indirizzo di Parigi e quello di Roma, al momento vive in entrambe le città, dicendomi di provare a scrivere le mie idee, quelle che gli ho esposto lì, tra quegli scaffali, sotto forma di racconti, l’inizio del mio lavoro di scrittore, quindi le tante lettere mandate, lettere nel senso di quelle che si scrivevano a penna su fogli di carta, si mettevano dentro buste che si affrancavano e spedivano via posta ordinaria, i racconti che cominciavo a scrivere e mandargli, per poi riceverli  indietro con suggerimenti e indicazioni, l’invito a partecipare a Ricercare 97, la proposta di pubblicare un primo libro di racconti, il mio essere lì a Venezia, con lui, con Paolo Rossi, con Militant A e Lou X, prima il mio appassionarmi degli scritti di Balestrini, comunque, la lotta politica, il mio frequentare il circolo anarchico di Ancona, le manifestazioni antagoniste, quelle contro il primo governo Berlusconi, presto dentro i miei libri, il mio essere uno che pensava, ingenuo, che con le parole si potesse davvero sovvertire il mondo, cambiare lo stato delle cose, il potere eversivo delle parole, quelle scritte come quelle cantate, la poesia che si fonde con il rap, il mio tentativo di trovare un punto di congiungimento tra queste due forme espressive, il postmodernismo, l’avant-pop, l’eversione, sempre e comunque, l’iconoclastia come via all’eversione, una scelta che avrei fatto mia, scelta che mi avrebbe in qualche modo allontanato proprio dal mio maestro Nanni, Nanni che mi ha insegnato tanto, non dico tutto, certo, ma tanto, la letteratura come arma per contrastare il potere, la parola come strumento di lotta sociale, i discorsi fatti coi tanti vecchi partigiani ancora in vita, quelli che avevo modo di frequentare nella mia Ancona, sarei poi partito per Milano, la Milano nella quale Nanni era nato e vissuto prima di partire per Parigi, un giorno di quegli anni Settanta di piombo e fuoco, una delle prime tappe toccate il Bar Jamaica che lo stesso Nanni frequentava in gioventù con Fontana, non Attilio, sia chiaro, e altri artisti e intellettuali, i collettivi, l’antagonismo, i primi racconti, i primi romanzi, le parole scritte che prendevano tutto il posto in precedenza occupato dalle note e dalle parole cantate, Gli invisibili, Una mattina ci siam svegliati, Violenza illustrata, Vogliamo tutto, L’editore, I furiosi, le sue parole, le mie parole, poi quella telefonata, lui che risponde, lui che dice “Ciao Toni, bentornato”, lui che messo giù mi dice, “Era Toni Negri, è appena atterrato a Roma”, con quella discrezione che chi lo conosce ben ricorda, lo sguardo vivido come la sua penna.

Momenti difficili da dimenticare.

Fortunatamente.

Sono un uomo di quasi cinquantuno anni.

Non ho più maestri.

Sicuramente non ho più cattivi maestri, sempre che ne siano mai esistiti, sempre che ne abbia quindi mai avuti.

Qualcuno, ma credo sia stato più per dar fiato alla bocca, per quella aberrante faccenda per cui, da che esistono i social, tutti si sentono autorizzati a dire la propria, avete presente la faccenda dell’uno vale uno, no?, ecco, qualcuno ha azzardato a definire me cattivo maestro, perché sono stato, e immagino sono ancora, irriverente, contro il sistema, a mio modo iconoclasta, appunto, lì a parlare di magheggi e buchi di culo di cavalli, a dire cose sgradevoli, bastian contrario per professione, ha azzardato qualcun altro.

Non credo che esistano cattivi maestri, da Socrate in poi, lì a bere la cicuta.

Non credo siano mai esistiti.

Un maestro è un maestro, non può che essere buono, e lo dico consapevole che oggi, ma questo è altro discorso che porterebbe le mie parole troppo lontane per permettere un subitaneo ritorno, consapevole che in questi giorni oscuri di didattica a distanza ci saranno non pochi genitori pronti a sostenere che non esisteranno magari i cattivi maestri e le cattive maestre, ma esistono eccome i maestri e le maestre incapaci, quelli e quelle che non sanno usare la didattica a distanza, appunto, e magari neanche la didattica e basta, che non hanno neanche voglia di usarla, discorso ovviamente estendibile anche ai professori, seguitemi senza opporre resistenza, non fossilizzatevi sulle singole parole, sui dettagli, esistono gli insegnanti, ecco la parola che include tutti, capaci e volenterosi e quelli capre, il famoso discorso dei lavoratori pubblici che non sono giudicabili e quindi, volendo, fanno cadere la penna sul tavolo, dai, lo abbiamo fatto tutti quel discorso lì, una volta nella vita, magari anche più volte nella vita, a meno che non si sia appunto uno di loro, magari anche uno di loro che però è capace e volenteroso, di quelli che poi sbroccano se si accusa la pubblica amministrazione e certo suo lassismo e incapacità di evolversi, dando vita a una difesa d’ufficio onestamente impraticabile, perché di capre è davvero pieno quel mondo, ma non è di quello che vi stavo parlando, parlavo di maestri e cattivi maestri in senso lato, immagino si sia intuito e ne parlavo oggi, proprio oggi, 3 maggio, per un motivo piuttosto chiaro, credo, e cioè perché negli ultimi giorni, forse dovrei dire nelle ultime settimane, queste pagine del mio diario del contagio, della quarantena, insomma, queste pagine qui, hanno assunto sempre di più l’aspetto di qualcosa che mi riconduce senza passare dal via a quei primi giorni da scrittore, parlo sempre della metà degli anni Novanta, senza l’innocenza che ancora in quei giorni mi albergava nel cuore, parlo dell’innocenza nell’affrontare la parola scritta, l’innocenza tout court l’avevo già persa proprio nei giorni del mio servizio civile presso la Tenda d’Abramo, il dormitorio per senza fissa dimora dove ho passato buona parte del mio periodo di obiezione di coscienza.

Come se di colpo tutto quel che c’è stato nel mentre, e a livello nazionale quel che c’è stato nel mentre sono questi ultimi venticinque anni di abbruttimento culturale, abbruttimento iniziato in realtà almeno dieci anni prima, anche di più, con l’arrivo delle televisioni commerciali, con un tentativo, riuscito, di farci passare dalla forma cittadino alla forma acquirente, una analfabetizzazione cui siamo stati sottoposti con costanza e dedizione, anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo mese, analfabetizzazione che, ovviamente, ha per contro coinciso con un ulteriore svilimento dell’idea di politica, divenuta in toto gestione personalistica della cosa pubblica, non fatemi citare proprio Berlusconi, non in questi giorni, vi prego, la politica oggi diventata la politica dell’uno vale uno parte da lì, come da lì parte la politica dello slogan da social, degli incompetenti allo sbaraglio, del meno peggio che spesso è peggio del peggio, il veloce e mesto passaggio dal compromesso storico, dal turarsi il naso al compromesso e basta, come se di colpo tutto quel che c’è stato nel mentre, a livello personale la vita vissuta, le esperienze fatte, i libri scritti, le parole scritte, le parole dette, tutto fosse annullato, azzerato, un ritorno al passato degno di una puntata di Doctor Who, e confesso che proprio negli ultimi giorni vedere la reunion di tutti gli attori che nel corso degli anni hanno interpretato lo scienziato pazzo che si aggira a bordo del Tardis, reuniuon pensata come tributo agli operatori sanitari inglesi, un sentito grazie dal Dottore dei dottori, mi ha fatto uno strano effetto, quasi commosso, seppure io sia nel mentre riuscito nell’operazione difficilissima di scampare il dovermi vedere i nuovi episodi in compagnia dei gemelli, perché nel mentre sono passato a Netlflix e a serie come Tredici o After Life, che mi frega di Doctor Who, un brutto ritorno al passato, a un passato che speravo, così funziona il diventare adulti, invecchiare, anche, di non trovarmi più tra i piedi.

Non che abbia mai abbandonato quello spirito di rivolta che animava quei miei primi anni da scrittore, intendiamoci, ho semplicemente provato, col tempo, a canalizzare quell’energia a volte anche distruttiva, moralizzatrice, anche, verso il sistema musica, quello il campo di gioco che ho deciso di frequentare, andando quindi a colpire a colpi di clava e molotov quelli che ai miei occhi apparivano, apparirebbero ancora, non li vedessi definitivamente agonizzanti, come i padroni, quelli sì cattivi, incapaci di interessarsi di altro che del proprio profitto, con buona pace del pubblico e dell’idea stessa di cultura.

Un brutto trip, avrebbero detto i beatnik o i rockettari di cui tante volte vi ho parlato in questi giorni, nel mio tentativo, evidentemente malriuscito, di trovare nei libri e nei dischi che ho amato rifugio rispetto a una realtà che mi sembra se possibile ancora più orribile di quanto già di suoi la pandemia non sia.

Un incubo da svegli, sempre che usare la parola svegli per descrivere chi da due mesi subisce passivamente un premier che si permette di usare parole come “vi concediamo”, “se amate l’Italia” etc etc, sia pertinente.

Un incubo che mi ha spinto, capitolo dopo capitolo di questo mio diario della quarantena, a invitarvi a andare a rapinare banche indossando la maschera di plastica del premier Conte, di scendere in strada armati di mazze da baseball, di osteggiare, giusto l’altroieri, i padroni al suono dei Devo e dei Residents, ambendo, quindi a una qualche forma di rivoluzione, non necessariamente pacifica.

Discorsi che un tempo, parlo di quel tempo lì, quello raccontato dai libri che mi avevano fatto innamorare della letteratura di Nanni Balestrini e quindi dell’idea stessa di letteratura, quei libri che mi avrebbero portato a fare della scrittura la mia forma d’arte, il mio lavoro, avrebbero portato l’opinione pubblica a indicare chi li faceva, io nello specifico, come un cattivo maestro.

Non sono un cattivo maestro.

Non sono un maestro.

Non credo neanche di essere cattivo, a dirla tutta, nonostante gli ultimi sei anni, quelli passati cioè a scrivere prevalentemente di musica, e di musica demmerda raccontandola come musica demmerda e raccontando il sistema che su quella musica ambiva a prosperare come un sistema demmerda gestito da incompetenti, nonostante gli ultimi sei anni io sia passato prevalentemente per uno cattivo, per il critico musicale cattivo, per quello presentato sempre e comunque come quello cattivo, certo, in parte anche per colpa mia, che su quell’essere identificato come quello cattivo ci ho anche un po’ marciato su, dando roncolate evidenti e spettacolari al fine di rendere il crollo del castello di sabbia plateale, posto come l’ho sotto gli occhi di tutti, e con la mia voce di conseguenza divenuta più alta, ascoltabile da più gente, e anche al fine di provare a indicare poi le ipotesi di ricostruzione, il famoso bello da contrapporre al brutto, come altrettanto evidenti, se dico che “Tizio fa cagare” mi si noterà parecchio e mi si noterà anche quando dirò che “Sempronio è Dio”, lo so bene, ma non sono cattivo come sembro, mi dipingo e mi dipingono così, come Jessica Rabbit.

Proprio perché non sono cattivo credo che la sola possibilità che ci sia oggi per non uscire di senno come l’Orlando Furioso, per non lasciarsi andare, quindi, alla disperazione cieca, col rischio che poi qualcuno scenda davvero in strada armato di mazza da baseball, o si presenti in banca nascosto dietro una maschera di plastica del premier Conte, perché la misura è colma e sentirci ancora trattare come dementi dopo oltre settanta giorni di clausura, tutti ligi al dovere ma comunque sempre additati come possibili furbetti o indisciplinati, fumo venduto al posto di certezze, droni e autocertificazioni a gravare anche solo sulle nostre speranze, proprio perché non sono cattivo credo che la sola possibilità che ci sia oggi per non uscire di senno come l’Orlando Furioso, per non lasciarsi andare, quindi, alla disperazione cieca sia concentrarsi in maniera ferma, come quando proviamo a non farci distrarre da tutto quello che ci sta intorno, tenendo sguardo e orecchi fissi a qualcosa che riteniamo fondamentale, su qualcosa di incredibilmente bello.

Sì, in epoca di slogan, perché da Andrà tutto bene in poi questi sono stati momenti solo di slogan, quasi sempre sprovvisti di profondità e soprattutto di contenuti, direi che ritirare fuori il classico “la bellezza ci salverà” potrebbe avere più di un senso.

Non fosse che la bellezza, al momento, è meno visibile di quanto già non sia visibile in genere, nascosta agli occhi perché i nostri occhi sono chiusi dal perimetro delle nostre case o filtrati da quel che gli schermi dei nostri device di concedono, questo sì, di vedere e sentire, e perché l’abbruttimento di cui vi parlavo prima è appunto termine che parte da brutto.

Chiaro, in questi giorni oscuri, provo a spostare ancora una volta il discorso sul terreno amico della musica, non è che uno sia portato a mettersi a ascoltare, che so?, del reggaeton, o una di quelle tante stupide canzoncine estive che negli ultimi anni ci hanno accompagnato, anche contro il nostro volere, proprio da questo periodo dell’anno fino al ritorno delle vacanze, e magari questo potrebbe essere letto come un chiaro segno di bellezza, ma per contro il fatto che io, parlo per me, questo è il mio diario della quarantena, per contro il fatto che io sia per mia natura portato a ascoltarmi Unknown Pleasures dei Joy Division, confesso ascolto indotto proprio dalla visione di Tredici, pensa a te come va a volte la vita, o Children of God e White Light from the Mouth of Infinity degli Swans, io che mi sento esattamente come Michael Gira in questi giorni di reclusione forzata, o ancora Night Time dei Killing Joke di Jaz Coleman, sicuramente non aiuta, non perché la musica contenuta in questi lavori non sia esattamente un distillato di dolorosa bellezza di cui parlavo prima, tutt’altro, intendiamoci, ma perché, appunto, di bellezza dolorosa si tratta, qualcosa che ci pone di fronte all’abisso che culliamo con dedizione in tempi di pace, figuriamoci come diventano profondi in tempi di emergenza come questi.

No, in questi giorni ho bisogno d’altro, di bellezza che non derivi dal gettare lo sguardo dentro quelle profondità oscure, non credo reggerei e reggereste.

Certo, neanche una bellezza solamente estetica, non è il mio terreno di gioco, e l’estetica, temo, è in tutti i casi un terreno scivoloso, ambiguo, non delimitato da confini certi, seppur, lo confesso, perdermi in un questo terreno, oggi come oggi, non mi dispiacerebbe affatto, anzi, lo vivrei con un certo sollievo.

Parliamo di bellezza, allora.

Cerchiamola, questa bellezza, in fondo è sempre stata lì, giusto occultata alla vista da tutta l’immondizia di cui sopra, svilita anche da tutta quella immondizia, immondizia alla quale, per motivi che per anni mi hanno spinto a fare la Cassandra, si è sempre voluto dare tutta quella rilevanza immotivata solo per la meschina volontà di fare cassa facilmente, puntando a un pubblico lobotomizzato cresciuto, appunto, a analfabetismo e barbarie, e non si provi neanche vagamente a accusarmi di spocchia o intellettualismo, che tutto quel teatrino fosse costruito sul nulla e pronto a crollare al primo refolo di vento è ormai sotto gli occhi di tutti, e poco importa se a averlo fatto implodere non sia stato un refolo di vento ma un vero e proprio tornado, nei fatti streaming, giochetti radiofonici e editoriali, talent senza talento e ormai anche senza pubblico, live gonfiati per dar vita a giochetti da libro contabile, live che a dirla tutta non dovrebbero affatto soffrire dell’ormai consueto e abusato concetto di distanza sociale, perché con tutti i biglietti regalati che ci hanno spacciato per biglietti venduti ci possono comunque stare dentro, senza colpo ferire, non procuravano guadagno prima e non lo procurerebbero ora, tutto è crollato a terra come un Cristo, il sangue a ettolitri, e lo si pensi detto con la voce alta e rauca del Mario Brega di Borotocalco, giusto il tempo di esalare l’ultimo respiro e, si spera, uscire definitivamente di scena.

Ora, potrei a questo punto andare sul sicuro, come di chi sa di avere un colpo di comprovata efficacia in canna e decida, nel momento in cui deve portare a casa il miglior risultato col minimo sforzo, perché siamo a casa da settanta giorni, mica pretenderete pure che ci si sforzi parecchio, di andare a pescare proprio in quel laghetto dal panorama familiare.

Potrei, per citare situazioni calcistiche note a tutti gli appassionati del pallone, gli unici, in buona sostanza, che abbiano ricevuto parole rassicuranti dal premier, più interessato a parlarci dello stato dell’arte riguardo allenamenti singoli e di squadra degli atleti che dirci quando riapriranno scuole e università, tirare in ballo quel particolare momento del nostro calcio recente nel quale Francesco Totti, detto Er Pupone, era solito deliziarci col colpo cosiddetto del cucchiaio, cioè un colpo lieve, appena liftato, che tendeva a produrre una parabola non troppo alta, soffice, parabola atta a superare il portiere avversario, spesso spiazzato da una mossa del corpo prodotta dal medesimo Francesco Totti detto Er Pupone, il tutto con non poco sfoggio di classe e cinismo.

Ricorderete tutti il rigore agli Europei del 2000, contro l’Olanda, Van Der Saar a terra, il pallone poco sopra le sue mani, impossibilitate a fermarne la corsa fin dentro la porta. Qualcosa di bello a vedersi, esteticamente perfetto, qualcosa di bello a vedersi che però, dopo un po’, ha anche rotto i coglioni, perché a un certo punto un po’ di movimento non guasta e avremmo preferito vedere anche un goal di punta, e chiunque abbia giocato a calcio sa come colpire di punta il pallone sia gesto da brocchi, non certo da campioni, qualcosa comunque capace di sorprenderci, e vaffanculo i virtuosismi, il punk non muore, Pink Floyd merda. 

Ora, potrei a questo punto andare sul sicuro, come di chi sa di avere un colpo di comprovata efficacia in canna e decida, nel momento in cui deve portare a casa il miglior risultato col minimo sforzo, perché siamo a casa da settanta giorni, mica pretenderete pure che ci si sforzi parecchio, di andare a fare un cucchiaio alla Francesco Totti, citando quindi una qualche opera di una qualche cantautrice, bellezza artistica, chiunque abbia frequentato i lidi di Anatomia Femminile sa quanta bellezza è nascosta nelle produzioni spesso indipendenti delle nostre cantautrici italiane, unita a bellezza estetica, e non voglio star qui a aggiungere parole superflue.

Potrei, perché in fondo ho sempre stigmatizzato l’immondizia contrapponendole quasi sempre proprio la bellezza dell’arte al femminile, da anni, con una costanza degna di uno di quei calciatori, torno a quell’Italia-Olanda degli Europei del 2000, alla Jaap Stam, uno che non mollava l’osso neanche a preda morta, oltre l’attitudine dello squalo tigre o del pitbull, ben lo sanno quanti se lo ricordano a bordo campo mentre si faceva cucire alla meno peggio il sopracciglio dal medico sportivo dell’Olanda, pur di poter tornare in campo dopo aver preso una brutta botta sul viso.

Potrei, e seppur abbia appunto fatto l’apologia del tiro di punta, punk, contrapposto al cucchiaio alla Pink Floyd, quello era il ragionamento, tanto per dimostrare che anche la coerenza, in questi giorni, è andata a puttane, come tutto il resto, in effetti è quello che andrò a fare.

A poche ore dall’inizio della Fase 2, a poche ore quindi dalla fine del lock down, che sarebbe come dire a poche ore dal nulla, perché non esiste in realtà tra Fase 1 e Fase 2, lo abbiamo capito bene noi mortali, e perché non esiste differenza tra lock down e assenza di lock down, tutti in casa tranne chi deve andare a produrre in fabbrica o ufficio, mi ritrovo qui, su queste pagine del mio diario della quarantena a dirvi quanto segue: provateci voi a ascoltare Mia Madre Dice che Sono Pazza dei Volosumarte senza riuscire almeno per i minuti a dimenticarvi di tutto quanto il brutto che ci circonda, provateci voi a ascoltare Volosumarte dei Volosumarte senza provare quel senso d’estasi che l’arte dovrebbe sempre portare con sé. Perché Martina Catalfamo e Francesco Santalucia, loro i due componenti di questa band che fonde elettronica e rock, psichedelia e pop, il tutto in un giusto mix di sensualità, cavoli la voce di Martina e la sua presenza scenica dovrebbero essere accompagnate da una qualche forma di “alert”, come i partental advisory dei testi rap, e onirismo, spaesamento e concretezza, graffi e carezze, musica d’oggi che punta a rimanere nel tempo. Bellezza, per tornare a quanto dicevo prima, bellezza in musica, quella che può salvarci, che deve salvarci, visto che di salvarci non si occupa nessun altro.