Vorrei potermene andare sull’astronave di Sun Ra diretto verso Saturno con tutta la mia famiglia

Sun Ra è col tempo diventato famoso più per le sue tesi sul cosmo e la vita che per la sua musica

Photo by Andy Newcombe


INTERAZIONI: 469

Il jazz mi ha sempre fatto cagare.

No, non è vero.

Il fatto è che non ci ho mai capito molto, col jazz, mi è sempre rimasto ostile, come non è mai successo con nessun altro genere, dalla classica, nei confronti della quale ho una sorta di rifiuto dovuto al mio averla troppo studiata da bambino, all’industrial e a tutto quello che ci può stare nel mezzo.

Il jazz mi è sempre rimasto ostile, ostico, e dire che ci ho provato un sacco di volte, a capirlo, a farmelo piacere.

Ci ho provato da solo, studiando ostinatamente, quando ero giovane e avevo la percezione che non capire di jazz fosse qualcosa di cui non andare fiero, nonostante frequentassi punk e rockettari che al jazz guardavano, appunto, come si guarda alla merda. Non mi è mai fregato un cazzo di quello che pensavano gli altri, si sarà intuito, quindi frequentavo i punk e i rockettari continuando a ascoltare quel che volevo, da Baglioni a Charles Mingus, si fottessero, ma trovando Mingus più incomprensibile di Baglioni.

Ci ho provato accompagnato per mano, metaforicamente, da appassionati di jazz, penso a mio zio Giorgio, il solo fratello di mia madre, unico maschio su otto figli, con lui mi sono molto avvicinato, era mio zio, non un mio amico, quando è diventato vedovo, sua moglie Rita morta di infarto ancora troppo giovane, mentre mio cugino Luca, loro figlio, si trovava in Australia per studio, una cosa orribile a pensarci anche ora, a distanza di tanti anni, pensiero che, in un’epoca nella quale tanta gente non ha potuto salutare i propri cari morti dentro gli ospedali, senza neanche il conforto del funerale, e uso la parola conforto sapendo che un funerale non potrà mai essere di alcun conforto, ma che l’assenza di un funerale è sicuramente un dolore che si aggiunge a un dolore, nel pensarlo, nello scriverlo, non posso non pensare ai miei genitori anziani, a oltre quattrocento chilometri di distanza e non posso non pensare al fatto che non li vedo da mesi e che non so neanche se potrò rivederli quest’estate, ancora non ci è stato detto se si potrà lasciare la propria regione di residenza e se, una volta lasciato un posto per un altro posto si dovrà poi stare in quarantena, il che implicherebbe che se a agosto, per dire, con Marina e i figli e mia suocera decidessimo di andare nelle Marche, dovremmo stare dal primo al quattordici agosto in quarantena, potremmo uscire il giorno di Ferragosto, magari a fare gavettoni in spiaggia, ah, no, in spiaggia non sappiamo se e come si potrà andare, potremmo comunque sicuramente uscire, salvo poi dover ripartire l’indomani, costretti poi a stare quattordici giorni in quarantena a Milano, al fine di poter riprendere a uscire il primo settembre, chi per andare al lavoro, nella speranza che la normalità ritrovata preveda il tornare al lavoro, chi a scuola, idem, ma ci arrivo a breve, alla scuola, insomma, non esattamente una situazione praticabile, così a occhio, comunque io e mio zio Giorgio, anche con Marina, ci siamo molto avvicinati dopo la morte di mia zia Rita, io andavo spesso a trovarlo, mentre lui faceva i suoi lavori di bricolage in cantina, con Marina ci si andava a cena, lui è un grandissimo cuoco, faceva sempre ricette strane, tipo la pasta con mascarpone e prosciutto o cioccolato e fragola, ci andavo, io, anche per ascoltare un po’ di musica jazz, appunto, musica della quale lui mi parlava sempre con entusiasmo, fatto che, nel mio immaginario, ben si sposava a quanto avevo letto nei libri della beat generation, Kerouac in testa, lui che scriveva pensando al Be Bop di Charlie Parker, e che proprio in quel periodo avrei visto al cinema incarnato dalla faccia di un ancora giovane Denzel Washington, protagonista del Mo’ Better Blues di Spike Lee, omaggio al mondo del jazz del padre del nuovo cinema black americano, e anche Spike Lee era una di quelle mie passioni del momento, quel suo modo di fare inquadrature sghembe, di procedere a strappi e accelerazioni, con continue deviazioni, quell’uso smodato dei colori, tutto molto rap, ai miei occhi di giovane italiano, erano anni in cui scoprivo e molto amavo il rap e la cultura hip-hop, al punto da proporla come argomento centrale della mia laurea in Storia Contemporanea, al professor Romero di Storia Americana, una tesi dal titolo L’afrocentrismo nella cultura hip-hop, sicuramente interessante per quella disciplina, molto meno per il corso di laurea che stavo seguendo, quello di Storia Moderna, la storia Moderna finisce infatti con la scoperta dell’America, io considerato in dipartimento una sorta di eretico, Michele l’apostata, fatto che comunque non mi aveva affatto frenato, anzi, mi aveva spinto a andare oltre, cioè a mettere nel mio piano di studi, ripeto in Storia Moderna, presso l’Università Alma Mater di Bologna, la prima università al mondo, ci tenevano sempre a sottolineare i professori, a mettere nel mio piano di studi personalizzato anche un esame del DAMS, io che in precedenza mi ero azzardato al massimo a mettere Storia Economica da Economia e Commercio, materia che avevo frequentato in Ancona, con Marina, seguendo le lezioni del professo Amatori, oggi a insegnare alla Bocconi di Milano, e Statistica, presso Matematica, un esame in Storia della musica afroamericana, tenuto dal temutissimo professor Giampiero Cane, uno che aveva scritto diversi libri, tutti adottati dal suo corso, scritti in un italiano molto discutibile e decisamente poco decifrabile, e ve lo dice uno che vi sta propinando da tempo frasi con dentro anche un centinaio di relative, motivo per il quale, magari, il jazz mi ha sempre fatto profondamente cagare, perché lo associo, e come potrei fare altrimenti, alle sue parole volutamente difficili e alle sue frasi incomprensibili, come del resto avrei potuto associarci anche il blues, non fosse che il blues mi piaceva già, lo ascoltavo, lo suonavo pure, a volte, ma il jazz no, era la materia intorno alla quale avevo dovuto studiare i libri ostici del professor Cane, per altro persona di una antipatia disumana, tanto quanto invece mi stava simpatico il professor Romero, col quale avrei però sbroccato durante l’esame di Storia Americana 2, mentre stavo facendo l’obiettore, incartatici a vicenda sulla politica interna di Reagan, fatto che in qualche modo ha segnato il mio abbandono degli studi, mi stava simpatico il professor Romero e soprattutto il suo assistente, il Professor Minganti, uno che flirtava a sua volta coi generi musicali, ricordo che lo ero andato a sentire, con Marina, in quegli anni, nella sua Cesena, durante un incontro nel quale aveva portato a suonare e recitare poesie l’Ed Sanders già anima della band più in voga tra i beatnik, i Fugs, a sua volta autore anche di un gran bel saggio sulla Family di Charles Manson, Minganti che, va detto, in seguito avrei beccato a rifarsi a parte della mia tesi, consegnata ma mai discussa, per alcuni suoi scritti, pratica immagino piuttosto diffusa in ambito accademico, ma che ho sempre trovato piuttosto avvilente, a me era capitato solo che mi si copiasse di sana pianta la trama di un racconto, in passato, da parte di uno scrittore che bazzicava la casa editrice Transeuropa e che non voglio neanche nominare, da tanto tempo non se lo incula più nessuno, tornato a fare quel che meglio gli riesce, il professore di ginnastica, si legga questo ultimo passaggio con spocchia, del resto, nel senso, ho sempre amato a livello teorico, e vi ho raccontato più volte, non so se già in questo diario ma sicuramente altrove, di come io sia più un teorico che un pratico, quando si tratta di critica musicale e di analisi musicale, attitudine che, per dire, ai tempi di Tutto Musica, condividevo con Luca Valtorta, entrambi a parlare ore e ore di album ancora prima che uscissero, ipotizzando traiettorie che poi, una volta ascoltata l’opera di cui avevamo disquisito, non trovavano ragion d’essere nelle tracce, ho sempre amato, a livello teorico, la questione dell’improvvisare, tipica del jazz, e dell’improvvisare a partire da canoni, cosa che in qualche modo ho sempre teso a fare anche io, coi miei scritti, ne siete inconsapevoli vittime, per certi versi, o vittime consapevoli, c’è gente che ama farsi camminare sopra da mistress che indossano tacchi da venti centimetri appuntitissimi, non sarei certo io a giudicarvi, anche fosse, ho cioè molto amato questa peculiarità dei jazzisti di fare arte a partire dall’arte di qualcun altro, chi ha scritto i canoni, ma sempre portando avanti delle proprie versioni, con un particolare occhio di riguardo, parlo sempre di teoria, per il Be Bop, per la faccenda dei beatnik, come per il free jazz, John Coltrane su tutti, non fosse altro perché la parola free è da sempre una delle mie parole preferite al mondo, concettualmente e come suono, vi ho anche già detto di come abbia a lungo cullato l’idea di fare una sorta di cover ambientata nel mondo del djing di Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer, libro che a partire da fotografie famose che immortalavano jazzisti mentre suonavano ne inventava le biografie, e se io pensavo al mondo dei dj, che mi fa ancora più cagare di quello dei jazzisti, è chiaro, era solo perché in passato molto ho studiato il mondo dell’hip-hop, mondo che per tutti è in pratica solo quello del rap, ma che nei fatti ha come altre discipline fondanti l’aerosol art, cioè il mondo dei cosiddetti graffiti e tag, quello della break dance e, appunto, il djing, cioè l’arte di girare i dischi sui piatti, parliamo di un’epoca analogica nella quale c’erano appunto i dischi e le basi per rapparci su le facevano direttamente i dj usando piatti e vinili, a loro modo jazzisti che però non suonavano strumenti, e che usavano non solo i canoni degli altri, ma direttamente i suoni e i brani degli altri, per fare la propria musica.

Il jazz mi ha sempre fatto cagare, quindi, confermo.

Almeno a livello di ascolto. Meno a livello di attitudine e di poetica.  A mio modo potrei quasi definirmi un jazzista, specie in questi giorni di stanca, sessantanove giorni di clausura, sessantanove capitoli del mio diario del contagio, oltre un milione e quattrocentomila battute di diario, del resto in quegli anni lì, mentre studiavo i libri di Cane, mentre passavo le giornate a cercare di capire cosa dicessero nei loro dischi gente come KRS One o i Digable Planets, magari partendo dai Last Poets, la biografia di Malcolm X sul comodino e i libri Franz Fanon e H. Rap Brown sulla scrivania, mi sentivo un po’ una sorta di Leroi Jones, ormai Amiri Baraka, l’autore del classico Il popolo del blues, poeta, narratore ma anche critico musicale. Mica sarà un caso se quando ho cominciato a scrivere, parlo di circa venticinque anni fa, poco più, l’ho fatto provando a fondere l’arte di Nanni Balestrini, mio maestro metaforico e letterario, con il rap, quei miei primi racconti scritti in lasse senza punti, andando a tempo come un rap, appunto, su musiche che ascoltavo mentre scrivevo, nelle note biografiche del mio primo libro, “Furibonde Giornate Senza Atti d’Amore” c’era pure scritto che ero un dj, e così sono stato citato da Paolo Nori nel libro Gli Scarti, insomma, ero attendibile come uno che si muovesse tra la musica black, il rap e il jazz, e le lettere. Anche lì, nel jazz come nel rap, c’era parecchia droga di mezzo, ma di quello vi ho già detto, non voglio ripetermi, né tanto meno sembrare una sorta di invasato con la mania del controllo.

Mi ha sempre fatto cagare il jazz, diamolo per assodato, ma c’è almeno un jazzista cui ho sempre guardato con una grande ammirazione, addirittura con qualcosa che sarebbe potuto scivolare nell’idolatria.

Non tanto il John Coltrane di cui sopra, anche se a lungo ho cullato, in questo diario sto davvero dando fondo ai miei progetti mai andati a termine, di scrivere un libro dal titolo A Love Supreme, credo di averne proposto una versione a quattro mani anche a Valeria Rusconi, ora a Repubblica un tempo con me a Tutto Musica, quando lavoravamo insieme al magazine della Mondadori, questa cosa mi è tornata in mente solo ora, potrebbe essere solo effetto della clausura prolungata, non ne ho prova, quanto piuttosto Sun Ra e la sua ArkestRa.

Anche lui, Sun Ra, l’ho conosciuto nei giorni nei quali frequentavo mio zio Giorgio, poi ci siamo un po’ allontanati, lui è tornato a essere mio zio e io suo nipote, mentre per qualche tempo siamo stati più che altro due amici, e credo di averlo anche studiato nei libri arcigni di Giampiero Cane.

Personaggio alquanto bizzarro, sempre che essere jazzista potesse o possa contemplare non essere bizzarri, Sun Ra è col tempo diventato famoso più per le sue tesi sul cosmo e la vita che per la sua musica, il che, magari, potrebbe non essere il massimo per un musicista, non fosse che se ritieni di essere un angelo che arriva da un altro pianeta, Saturno nello specifico, fatto che in qualche modo, dici, riguarda tutto il popolo afroamericano, come te proveniente da altrove, alieno, di qui l’afro-futurismo, corrente di pensiero che dovrebbe portare prima o poi alla liberazione di quel popolo, se quindi decidi di farti chiamare usando due termini entrambi rappresentanti il sole, Sun, appunto, sole in inglese, e Ra, il dio del sole della religione egiziana antica, e se infine decidi di chiamare l’ensemble che ti accompagna ARkestRA, , aggiungendoci di volta in volta suffissi fantascientifici e esoterici, da Astro Infinity Arkestra a Myth Science Arkestra, passando Solar Arkestra, o anche solo Sun Ra Arkestra, converrete, magari che ti si ricordi per certe estrose teorie evoluzioniste che prendono spunti apparentemente a caso da culture differenti, dallo zen alla kaballah, passando per la numerologia, non deve suonare, scusate se uso impropriamente questo verbo parlando di un signor musicista, così strano.

E dire che strano è appunto l’aggettivo che Sun Ra più di chiunque altro meglio incarna nel mondo del jazz, al punto da essere divenuto poi modello e ispirazione per artisti che col jazz in sé nulla hanno a che fare, o poco, dal Jerry Garcia coi suoi Grateful Dead a George Clinton, re assoluto del P-Funk che coi suoi Parlamient e i suoi Funkadelic porterà avanti la teoria dell’afrofuturismo, pensiamo a lavori come Mothership Connection o Cosmic Slop, tanto per citarne due tra i tanti.

Perché io oggi, sessantanove giorni di clausura stia qui, nel sessantanovesimo capitolo di questo diario del contagio, a parlarvi di afrofuturismo, Sun Ra e George Clinton potrebbe non suonarvi chiarissimo.

E in effetti, dovessi fermarmi e provare a spiegarlo in due parole a un passante, sempre che invece che in casa io fossi per strada, esperienza che ormai mi risulta più estranea del salire a bordo di un’astronave proveniente da un qualche punto imprecisato dell’East Village e diretta su Saturno, faticherei un pochino a addentrarmi in spiegazioni che, confesso, finirebbero per diventare una clamorosa supercazzola, di quelle degne di una scena inedita di Amici Miei, perché da bravo jazzista sono partito per una delle mie improvvisazioni, quanto di più simile a un flusso di coscienza proprio di epoca beat, ma siccome sono stanco c’è una buona probabilità che il mio flusso di coscienza, questa lunga e quasi estenuante improvvisazione jazz, debba finire così, di colpo, o con una brusca interruzione, o, fossimo su un vinile, sfumando le ultime note.

Scherzavo, so esattamente qual è il finale di questa improvvisazione.

So perché sono partito parlando cioè di jazz, ovviamente divagando e perdendomi come è mio uso, ogni jazzista nell’improvvisare su canoni noti ha una serie di note che sa dove lo possono portare, non fatemi svelare i miei trucchi del mestiere, e so perché sono passato a parlare di Sun Ra e la sua Arkestra, buttando lì anche la mia passione per il rap e per il P-Funk di George Clinton, quello di “Liberate le vostre menti, i vostri culi le seguiranno”, buttando lì un po’ di classici della controcultura, Ed Sanders, Amiri Baraka, come di classici tout court, Jack Kerouac e Charlie Parker, citando i miei studi accademici, da Cane all’afrocentrismo studiato col professor Romero, giusto un pizzico di Spike Lee per poi tornare a parlare di Sun Ra e del suo teorizzare pescando qua e là.

So perché sono andato a suonare quelle note su quei canoni, e il motivo è meno astruso di quanto l’aver parlato di jazz e astronavi da Saturno potrebbe indurvi a pensare, e volendo anche indurmi a pensare, è proprio che in giorni come questi, il lock down sul punto di schiudersi, le continue incertezze sul futuro prossimo, la paura per un virus che fino a ieri ci teneva impietriti al grido di “iorestoacasa” e che da domani potrebbe di nuovo assalirci al grido di “produci, consuma e crepa”, la totale sfiducia nei confronti di chi ci guida, la diffidenza nei confronti di quegli altri cui ho sempre per altro guardato con poca amorevole empatia, parlo del mio personaggio pubblico, e cui comincio davvero a guardare con poca amore empatia, parlo del me stesso reale, è proprio in giorni come questi, infatti, che mi ritrovo a guardare a quei mondi colorati e bizzarri, quelli di Sun Ra come quelli di George Clinton, vorrei citare, che so?, anche un Afrika Bambaataa, non ci fossero state ombre sull’ex capo della Zulu Nation, tutti ritmi e suoni sintetici, astronavi e divinità antiche, con un pizzico di nostalgia. Niente di paragonabile, per dire, a quella infusa a piene mani in Stranger Things, poi qualcuno mi dovrà spiegare perché per anni ne avete tutti parlato come fosse un capolavoro, a me sembra davvero una robetta di plastica, spielberghiana più nei risultati che negli intenti, e non è un complimento, solo quella nostalgia che si prova ripensando a qualcosa che magari ci ha anche fatto sorridere per la sua ingenuità, ma che oggi, se solo fosse possibile, abbracceremmo senza se e senza ma, così, senza neanche star lì a fare le valigie, tutti imbarcati sull’astronave diretta su Saturno, poco importa che al timone di comando ci sia Sun Ra o George coi suoi lunghi dreadlocks e le sue mise coloratissime e fluo.

Voglio, o meglio vorrei, andarmene via, lontano.

Non solo lontano da questo che stiamo vivendo, ovvio che è quello la causa scatenante, ma anche nello specifico lontano dall’Italia e da Milano, città che per ventitré anni è stata la città nella quale ho più o meno scelto di abitare, e che ora sta presentando una serie di proposte per ripartire che incarnano, se possibile, tutto ciò che ho sempre disprezzato proprio della mentalità milanese, molto più delle cazzate da milanese imbruttito tutte “fatturato e figa”, la totale mancanza di senso pratico, per altro messa in atto da un popolo che sulla faccenda di essere laborioso e molto pratico ci ha fatto su anche un lavoro di marketing piuttosto aggressivo, il tutto misto a quel senso di naivete che vuole la gente molto indaffarata a non fare un cazzo, quindi nella possibilità di non farlo, il cazzo, andando a zonzo in bicicletta, passeggiando per i parchi, adesso anche coi monopattini, dopo che per mesi ci hanno cagato il cazzo che non si dovevano usare, e uso la prima persona plurale perché sono padre di un adolescente con un monopattino elettrico, fino a ieri fuorilegge, gente in fissa col bike sharing e le piste ciclabili, e chi se ne frega e poi aumentano i biglietti degli autobus, tanto noi si va a spasso, gente, penso a Sala, il sindaco, che ha fatto del romanizzarsi il proprio punto di forza, lì a parlare di empatia, di bello, di rapporti tra umani, a Milano?, rapporti tra umani a Milano?, salvo poi sputtanare tutto con il famoso hashtag che non voglio citare per l’ennesima volta, e ora con questa immane puttanata dei mezzi da usare poco, degli incentivi su bici e monopattini, della città da vivere nel proprio quartiere, manco fossimo appunto a Roma o in provincia.

Cioè, faccio per dire, se volevo godermi il passeggio e il quartiere, magari, rimanevo in un posto col mare, o quantomeno apprezzabile da un punto estetico, e magari con un tasso di polveri sottili appena più basso del buco del culo di un cane morto, perché ricordiamo che Milano non è esattamente il luogo nel quale negli ultimi anni si sia respirata l’aria più buona, anche prima dell’arrivo del Coronavirus, non venivo certo a Milano.

Se volevo godermi gli spazi intorno a me stavo in un posto piacevole, non in uno che ha fatto dell’essere sempre in movimento la propria ragion d’essere, in assenza di alternativa, per altro, il tutto per bocca del tipo coi calzini arcobaleno che ancora durante la pandemia menava il torrone, milanesismo che, come tutti i milanesismi, mi fa cagare, con i cantieri della metropolitana della linea M4 ancora al lavoro, con le giuste cautele del caso. Apprezzo, certo, che l’Assessore Maran sia venuto a confortarmi sui social, quando lamentavo appunto l’idea dei  monopattini e le bici a sostituire le auto, io che abito lontano da scuola dei miei figli e che faticherei a portare due bambini a scuola coi monopattini, quasi tre chilometri da fare, lo apprezzo perché denota una attenzione che non sempre è così scontata, ma questo è il momento del mio sfogo giornaliero, non posso mica farmi intenerire dalle attenzioni di un giovane politico che, in quanto politico, sa bene che rispondere ai commenti di un nome in qualche modo influente fa parte del suo mestiere. Milano, seppur ferita a morte, e quindi oggetto della mia compassione, in questi giorni mi sta particolarmente sul cazzo, portate pazienza.

Ma Milano è Milano, la locomotiva, al momento rotta, dell’Italia, e l’Italia la momento non mi sta meno sul cazzo di Milano, l’Italia guidata da un governo che nel mentre sta ragionando su come far ripartire il commercio, faccio sempre per dire, ideando la genialata di far sanificare tutti gli abiti indossati nei camerini durante lo shopping, pensateci, entri a provare tre quattro paia di pantaloni, di misure diverse, e tutti quelli che non compri andranno sanificati prima di essere riesposti al pubblico, quindi i negozianti te ne faranno provare il minimo indispensabile, sempre che alla gente al momento interessi spendere soldi che non ha guadagnato comprando vestiti, scarpe o altro che magari non sono proprio necessari, per non dire dei parrucchieri e estetisti, con un solo cliente alla volta, o degli eventi culturali da riproporre più volte al giorno, tipo faccio una conferenza per dieci persone, poi la ripeto per altre dieci, una all’ora, magari sarà così anche per i piccoli concerti, o i ristoranti e i bar con i divisori di plastica, roba che neanche a raccontarla come frutto del sogno acido di uno particolarmente disturbato sarebbe proponibile.

Niente di particolarmente invitante, il mondo là fuori, converrete con me, con la variabile che la ripartenza, quella ripartenza lì, non fatemi ripetere, porti a una ricaduta, questo ci avevano detto gli scienziati quando ancora gli scienziati parlavano, altri tempi, ormai, e che quindi qualcuno non si debba trovare nelle condizioni improponibili di dirci “scusate, ci siamo sbagliati, tutti di nuovo a casa” o che, più presumibilmente, a breve faremo tutti finta di niente, i morti che torneranno a non essere raccontati, come era del resto consuetudine prima del Coronavirus, quando non è che sapessimo quanti morti di influenza c’erano ogni anno, e che quindi la prossima estate tutti al mare, tutti al mare, uno sopra l’altro, e non ci cagassero il cazzo, scenario forse ancora più inquietante.

Ecco, in tutto questo se proprio devo pensare a qualcosa che mi faccia non dico sperare, ma quantomeno non annegare, che non mi lasci sprofondare nella cupezza più oscura, un Batman che si incammina a larghe falcate verso la sua grotta senza manco Robin o Alfred a fianco, è a bordo dell’astronave celeste di Sun Ra, con la sua Arkestra e anche George Clinton che mi voglio trovare. Adesso.

Subito.

Zac.

Perché, lo dicevo parlando di Saul Williams, giorni fa, che certa fantascienza sia in effetti stata la sola letteratura capace di anticipare davvero l’oggi, certo infarcendo il tutto di dettagli obsoleti e non pertinenti, ma comunque decifrando il corpo grosso della faccenda è una tale ovvietà da non meritare neanche troppe righe di spiegazione, non deve quindi sorprendere che a adattarla come terreno di gioco, scenografia del proprio storytelling, o più semplicemente parte della propria poetica siano stati artisti, come Saul Williams, certo, ma anche Sun Ra e George Clinton, capaci di superare i generi per dar vita a una pan-musica che di tutti i generi è figlia, sorella e madre.

Sono stanco, è vero, si sente, me lo sento addosso.

Sessantanove giorni di clausura sono tanti. Troppi.

Domani è il primo passo deciso verso la fine di questo, e lo si legga come questo momento ma anche come questo diario.

Il mondo può riprendere a correre sui soliti vecchi binari, o può implodere per lasciare spazio alle ruspe dei Vogan.

Staremo a vedere.

Starete a vedere.

Io sarò infatti a bordo di una astronave diretto verso Saturno con tutta la mia famiglia. Aprite il vostro culo, la vostra mente lo seguirà.