Il diario del contagio: come se Jim Carroll mi avesse già detto tutto 25 anni fa

La vita mi ha posto di fronte ad un evento eccezionale che mi ha spinto a prendere la forma di diario e a farla mia


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Non sono mai stato un tipo da diario.

Non ho mai scritto, credo, in vita mia, una sola parola che non fosse destinata alla pubblicazione, parlo ovviamente di quando ho concluso, anzitempo, mi sono ritirato a un esame dalla laurea, gli studi e la scrittura è diventata una scelta, non una necessità.

Ho sempre scritto pensando alla pubblicazione, inizialmente di racconti su riviste, poi di libri, poi di articoli, ora di un po’ tutto questo, e devo dire che non mi è praticamente mai capitato che un mio libro o un mio articolo non fosse pubblicato, o che non fosse quantomeno pagato, perché almeno in un paio di casi l’editore ha poi deciso di non pubblicare il libro che avevo scritto, e in entrambi i casi era il mio Libro nero della musica italiana, il mio Hollywood Babilonia, di cui vi ho parlato oltre un mese fa, e quando invece non mi hanno pubblicato articoli è sempre coinciso col momento in cui ho poi mandato a cagare direttori e giornali, perché non me li pubblicavano, pagandoli, per mere questioni di censura, potrei citare senza problemi il Fatto Quotidiano, Linkiesta o Rolling Stone, a proposito.

Questo, ovviamente, implica che io non abbia praticamente nulla di inedito nei cassetti, ma del resto non è che ci sia questa grande richiesta di miei inediti da tirare fuori dai cassetti, lo confesso, e che in sostanza io sia una infallibile macchina da guerra, in oltre venti anni ho pubblicato a mio nome, anche di questo vi ho parlato, di quando scrivevo i libri che poi firmavano altri, settantotto libri, alcuni usciti anche in diverse edizioni, non so quanti racconti in riviste, qualche migliaio di articoli, tra cartaceo, prima, e online, ora, e se andassi a spulciare nei miei folder non troverei un cazzo di inedito.

Ho, certo, un sacco di agende e quadernetti nei quali ho appuntato idee, scritti, racconti, ma sono sempre parole che in qualche modo sono poi passate dentro uno dei miei computer per finire pubblicate da qualche parte, brutte copie che conservo perché, in fondo, sono davvero il megalomane che mi piace raccontarvi e so che prima o poi ci sarà un museo che esporrà quei quaderni e quelle agende spiegando che era lì che ho appuntato questo o quel reportage prima che uscisse in edicola (ho anche da parte tutte le riviste e i quotidiani dove sono usciti miei articoli, in cantina, raccolti dentro appositi faldoni).

Ricordo che anni fa, quando lui si era già ritirato e io, invece, avevo deciso per tornare a scrivere di musica per quotidiani e magazine, ho intervistato Ivano Fossati, praticamente dal mio punto di vista il Dio della canzone italiana.

Non mi era mai capitato prima, prima, cioè, del mio ritiro momentaneo e prima del suo ritiro, dopo l’uscita dell’album con Mina sarebbe da dire momentaneo anche nel suo caso, ma temo si tratti di una rondine che non fa primavera.

O meglio, mi sarebbe anche potuto capitare, ma mi ero sempre detto che non lo volevo conoscere, perché temevo fosse assai meno interessante delle sue canzoni. Peggio, perché temevo fosse, magari, uno stronzo, e volevo evitare che il conoscere uno stronzo implicasse che mi sarei disaffezionato alle sue canzoni. Mi è successo, nella vita, di conoscere artisti che stimavo che, una volta conosciuti, di colpo si sono ridimensionati ai miei occhi, col risultato che le loro opere hanno perso parte del loro interesse (non del loro valore, ovviamente, ma del loro interesse, perché come tutti uso la pelle, non solo la testa, quando si tratta di decidere). Così come è successo, invece, che alcuni dei miei miti di gioventù, penso a Enrico Ruggeri e Luca Carboni, una volta conosciutili, siano anche meglio di come me li immaginavo, il valore delle loro opere sempre immutato, a mio avviso molto alto. Nel caso di Ruggeri, addirittura, dalla mia stima nei suoi confronti, e immagino anche da quella che nel tempo ha iniziato a avere lui nei miei, è nata una amicizia che ritengo tra le più importanti di questa parte della mia vita.

Ma alcuni miti ho sempre avuto paura di incontrarli, vi ho già detto di come, con Cristina Donà, avessi tenuto a debita distanza anche solo l’ipotesi di incontrare a Normal, Illinois, David Foster Wallace, nel nostro coast to coast americano che avrebbe dato vita a God Less America, e dire che lì, a Normal Illinois, c’eravamo andati esattamente per incontrare lui.

Fossati era uno che non volevo incontrare.

Poi lui si è ritirato.

Io mi sono ritirato.

Io sono tornato.

Mi hanno proposto di intervistarlo, per non ricordo quale occasione, comunque era chiaramente un favore personale che mi ha fatto il suo ufficio stampa dell’epoca, sapendo la mia venerazione per lui, e così l’ho conosciuto. Un’intervista per me unica, iniziata per altro con lui che mi viene incontro, per presentarmi, dicendo “Oh, finalmente conosco il temuto Monina”, che è un po’ come se mentre stai lì a palleggiare in un campetto di periferia arriva Ibrahimovic e ti dice, “ah, finalmente posso vedere palleggiare il mio idolo”. Durante quell’intervista, comunque, giunta dopo qualche anno che lui, Fossati, si era ritirato, qualche anno durante il quale aveva tirato fuori tre o quattro canzoni scritte per altri, mi viene in mente Tosca, sicuramente, Noemi e non so chi altro, gli dico, sornione, “immagino che avrai scritto chissà quante altre canzoni in questi anni, canzoni che non hai fatto sentire a nessuno”, frase che lo lascia perplesso.

Perché, qui torno a quel che vi stavo dicendo a proposito dello scrivere pensando solo a qualcosa che venga pubblicato, Fossati mi ha spiegato che lui non ha mai scritto canzoni tanto per scriverle, ha altro da fare nella vita, ricorderete che quando si è ritirato lo ha fatto adducendo come scusa che voleva andare al mare a passeggiare, della serie, doveva fare un album con dieci canzoni?, ne scriveva dieci, qualcuno, o meglio, qualcuna, perché ha sempre scritto prevalentemente per artiste donne, voleva una sua canzone?, scriveva la canzone per l’artista in questione, certo rimanendo con la sua cifra, tutti riconoscono una canzone di Fossati se la sentono, ma scritta proprio per quell’occasione, col risultato che lui, Fossati, ha i cassetti completamente vuoti, giusto un inedito, mi ha detto, ma credo mi prendesse per il culo, per quando sarà il momento di cercare un inedito, facendo riferimento immagino al suo trapasso, niente di più.

Così è per me, con le dovute differenze del caso, anche se onestamente non credo che nel mio campo io sia poi tanto diverso da Fossati, mi faccio i cazzi miei, penso parecchio a vivere, non solo a scrivere, scrivo dannatamente bene, seppur non scriva io canzoni, anche io ho i cassetti vuoti, senza neanche il famoso inedito per quell’occasione lì.

Non ho inediti, quindi, e le pagine di diario, chiamiamole così, che ho mai scritto erano più che altro appunti, quasi sempre presi durante i miei lunghi viaggi, a penna solo perché dietro non avevo il computer, e perché quando viaggiavo non usava ancora quella faccenda dei tablet, perché quando dico che erano appunti presi durante i viaggi intendo durante i miei viaggi fatti per lavoro, da quello fatto in centro America a quelli a Cuba, da quello in Malesia a quello negli States, via via a tutti gli altri, i tanti in Inghilterra, in Europa, in Africa, appunti finalizzati poi a un libro o un articolo, non certo a rimanere lì su fogli di carta.

Ora sono sessantasei giorni che sto scrivendo un diario, lo sapete, lo state leggendo.

Magari non vi sarà chiaro che state leggendo un diario, perché è un diario che state leggendo, ora, su un sito, sito nel quale di solito scrivo articoli di musica, e anche perché non c’è scritto nel titolo che è un diario, che questo è il sessantaseiesimo capitolo di un diario, di una raccolta di novelle decameroniane, così lo avevo presentato inizialmente, quando pensavo sarebbe durato poco più che un cazzo, magari, quindi, non vi sarà chiaro che state leggendo un diario, o non vi sarà stato chiaro fino a qualche riga fa, visto che ve lo sto ripetendo ossessivamente e lo avrebbe capito anche un sasso, e voi non siete sassi, ma così è, questo è il mio diario del contagio, della quarantena, della clausura, ancora non ho capito quale di queste espressioni sia la più azzeccata, forse diario del contagio, anche se io non mi sono contagiato, che io sappia, a meno che non sia stato di quelli asintomatici, per dire, a Sanremo, durante il Festival, uno dei tecnici che ha lavorato inizialmente a Attico Monina aveva chiaramente qualcosa di più di una semplice influenza, oltre quaranta di febbre, al punto che lo hanno fatto rientrare in ambulanza, a Bergamo, capiamoci, quindi che io abbia avuto il Coronavirus da asintomatico non è poi così fantasiosa, come idea, e in caso, immagino, siano stati asintomatici anche i miei familiari, quelli che sono finiti giocoforza dentro queste pagine, o che io non mi sia contagiato alla mia ultima uscita per fare la spesa, uniche occasioni in questi giorni di quarantena, clausura o quella roba lì, in cui esco e quindi io possa in qualche modo entrare in contatto con qualcuno o qualcosa che mi possa infettare, e in caso o potrei portare avanti la cosa da asintomatico o ammalarmi, ma mentre scrivo queste parole, sappiatelo, ho momentaneamente infilato una penna in bocca, ho già più volte citato il Daniel Day Lewis de Il mio piede sinistro, e sto scrivendo attraverso quella, picchiettando i tasti con la penna, avendo io le mani chiuse a coppa sulle palle, in un gesto scaramantico basico, di quelli che capirebbe anche, immagino, uno straniero che nulla sa della nostra cultura e delle nostre tradizioni, questo è quindi il mio diario del contagio, lo chiamo spavaldamente così, e quindi sì, state leggendo un diario, un diario, però, ancora una volta, scritto con l’idea di essere pubblicato, lo state leggendo perché è appunto stato pubblicato, un diario che molto probabilmente poi diventerà un libro, un libro anche parecchio lungo, a oggi sarebbe di oltre ottocento pagine, il mio diario del contagio.

Resta che non sono mai stato un tipo da diario.

Non ne ho mai scritti, neanche da adolescente, e soprattutto non ne ho mai letti. Non mi interessa questa forma, anche se so perfettamente che, come per i romanzi epistolari, di forma letteraria, di genere, in alcuni casi si tratta.

Non sempre, intendiamoci, per dire, nel caso de Il diario di Anna Frank o de La tregua di Primo Levi, libri che ovviamente ho letto, e che ho letto per i motivi per cui tutti leggono e hanno letto il Diario di Anna Frank e La tregua di Primo Levi, per l’immenso valore storico di quelle opere, si trattava di veri e propri diari, scritti come diari e poi divenuti libri, nel caso di Anna Frank uscito ovviamente postumo, nel caso di Levi rielaborato dall’autore in vita, letterariamente, ma in altri casi la letterarietà dell’opera appare evidente, è dichiarata dall’autore stesso, penso alla Coscienza di Zeno di Svevo o a Morfina di Bulgakov, come a Tabucchi e al suo Notturno indiano o al Giornalino di Gianburrasca di Vamba, per tornare a quando si è piccoli, passando per libri che ho letteralmente divorato, penso a Microservi di Douglas Coupland, dove però era la geniale penna di Coupland a avermi attirato, non certo l’idea del diario, o al doloroso Il mestiere di vivere di Cesare Pavese, qui confesso che molto ha pesato il fatto che me lo avesse consigliato Marina, quando ancora non eravamo fidanzati, Pavese il suo scrittore preferito dell’epoca, voglio sperare che ora sia io, il suo autore preferito, o presumibilmente uno dei diari più famosi della letteratura mondiale, Le avventure di Robinson Crusoe di Daniel Defoe, uscito inizialmente spacciandolo per un vero diario del vero Robinson Crusoe, e divenuto il primo best seller in versione economica della storia dell’editoria.

Non ho mai particolarmente amato i diari, ma c’è un diario, letterario, che fa parte sicuramente della mia formazione culturale, occupando un posto anche piuttosto importante I diari del basket di Jim Carroll.

Ho incontrato quel testo tanti anni fa, col titolo di Jim entra nel campo di basket, quando, cioè, Frassinelli l’ha ripubblicato in Italia, in occasione dell’uscita del film da quel libro tratto e da Leonardo Di Caprio interpretato che portava come titolo Ritorno dal nulla, film decisamente bruttino, va detto. Conoscevo Jim Carroll per i suoi dischi, la Jim Carroll Band uno degli ensemble punk americani che più avevo apprezzato, Catholic Boy, del 1980, una vera rasoiata che conoscevo all’epoca a memoria, pur non capendo tutte le parole, ce l’avevo in audiocassetta, così come i successivi I Write your Name e Pools of Mercury, e sapevo che anche lui, come Jello Biafra, aveva una grande produzione di album recitati, non esattamente spoken words alla Jello Biafra, a dirla tutta, più qualcosa che lo portava dalle parti di Burroughs, lui che era sì un punk armato di microfono e chitarra elettrica, ma prevalentemente un poeta e romanziere.

Un enfant prodige, Jim Carroll, come sottolineava in quarta di copertina il qot firmato da Jack Kerouac, perché i suoi diari li aveva scritti a tredici anni, un’età nella quale, in genere, la gente tende a fare altro che scrivere classici della letteratura, io ero campione assoluto di Subbuteo, per dire, ma del resto la storia che in quelle pagine raccontava erano tutto fuorché comune, la storia di un ragazzino allampanato, l’aggettivo allampanato per me è da quel momento legata a doppio filo a Jim Carroll, promessa del basket con la passione per la poesia e, soprattutto, per l’eroina.

Pagine lancinanti, sporche, vivide, dolorose, quelle di Carroll, esattamente come le sue canzoni.

Pagine disturbanti, seppur liriche, che mi hanno messo di fronte a una realtà che ho sempre faticato a decifrare, parlo del me stesso giovane e curioso del mondo, come cioè grandi artisti, dotati di un talento per me chiarissimo, dovessero ricorrere all’eroina o all’alcool per mettersi a scrivere o suonare, effetto disturbante che provavo anche leggendo Kerouac o Bukowksi, per dire, e che in musica mi ha costantemente fatto porre domande simili rispetto alle opere di quasi tutti quelli che amavo.

Io non bevo.

O meglio, posso bere in compagnia, posso bere e difficilmente mi ubriaco, chi ha avuto modo, qualche Festival di Sanremo fa di venire ospite della nostra Casa Piceno ha potuto constatare come io regga bene, trentasei pranzi a base di specialità marchigiane e abbondantemente annaffiati di vino rosso, il Rosso Piceno di cui sopra, mio sponsor e mai una parola fuori posto, una lettera biascicata, sobrio dal primo all’ultimo minuto, perché non bevo ma reggo, anche se, abitualmente, non sono uno che beve.

Certo, vi ho raccontato del Gruppo Etilico, certo, ma parliamo di un passato lontanissimo, che ho comunque arginato e dal quale ho preso le distanze nel momento in cui ho deciso, senza neanche saperlo, di diventare Straight Edge, un Henry Rollins meno muscoloso o un Ian MacKey con molti più capelli, Marina e il mio non volermi mostrare a Marina, ancora non la mia compagna, come uno che passava le sere con gli amici a bere, causa scatenante della mia svolta radicale.

Non bevo, quindi, e non mi sono mai drogato.

Neanche una canna.

Neanche per curiosità.

Non scambiate queste mie parole per quello che non sono, non sto aprendo un discorso su droghe leggere e droghe pesanti, su liberalizzazione o legalizzazione, non mi interessa affrontarlo in tempo di pace, figuriamoci adesso.

Non mi sono mai drogato, è un fatto.

Non ne ho mai capito molto il senso, a dirla tutta, quindi non l’ho mai fatto, pur avendo passato una parte della mia vita in una compagnia in cui tutti o quasi lo facevano, e pur avendo scelto di lavorare in un settore in cui, suppongo, molti lo continuano a fare. Non ho mai capito il senso del drogarsi, e so di suonare bizzarro, forse anche naif, specie se chi mi legge ha presente la mia faccia, il mio look.

Non bevo e non mi drogo, quindi, ma la stragrande maggioranza degli artisti che amo o ho amato bevevano o bevono e si drogavano o si drogano, e se parto usando il passato è perché, ormai lo sapete bene, visto che è nel mio passato che mi sto rifugiando sempre più spesso, la stragrande maggioranza dell’arte, si intenda con arte musica, cinema e letteratura, che amo è arte che affonda nel passato le proprie radici.

Spiego meglio, sapendo che probabilmente non ci riuscirò, amen, leggendo le pagine di Jim Carroll, pagine capaci davvero di diventare carne, sangue, piscio, sperma, alcool, rumore, distorsione, rock ‘n’ roll, punkitudine, narrazione, poesia, ho sempre provato una piccola forma di disagio, credo fosse esattamente quella la sua intenzione, proprio per quel suo vivere una vita che io, in assenza del suo stesso talento, non avrei mai vissuto, e si leggano queste parole provando a togliere ogni refolo di giudizio morale, non è di questo che sto parlando, non mi interessa.

Avendolo poi letto nel periodo in cui stavo cominciando a scrivere, la metà degli anni Novanta, mentre, in pratica, ero una specie di spugna che cercava in tutti i modi di accalappiare da qualche parte ispirazione, esempi, lezioni, cifre stilistiche, lingue praticabili, stilemi, canoni, insomma, ci siamo capiti, siete gente sveglia, voi, finire costantemente in estasi di fronte alla storia di un ragazzino che per farsi di eroina era disposto a mandare a puttane una promettente carriera da cestista, finendo per fare pompini a vecchi pedofili dentro cessi maleodoranti mi metteva in difficoltà, come se per provare a scrivere pagine altrettanto vivide dovessi per forza percorrere una strada simile o limitrofa. Chiaramente la faccenda era letta con una certa banalità, perché non è che, cito sempre libri letti nello stesso periodo, per scrivere come il Bret Easton Ellis di American Psycho mi dovesse toccare di diventare un colletto bianco e di fare a pezzi chiunque incrociasse la mia strada, ma l’idea di andare a attingere nel mio vissuto mi ha sempre affascinato, non tanto per una forma di pigrizia che non mi faceva vedere al di là del mio pur abbondante naso, né per una assenza di fantasia che in qualche modo mi costringesse a dover costantemente fare i conti con la lanuggine del mio ombelico, il fatto è che ho iniziato a scrivere negli anni Novanta, quando l’io ha fatto irruzione armata nella letteratura di mezzo mondo, sicuramente in quella italiana e, ancor più, in quella cui guardavo con particolare attenzione, la letteratura americana, quindi sì, l’idea di andare a attingere nel mio vissuto mi ha sempre affascinato, pur non avendo all’epoca e con buona probabilità io vissuto neanche un giorno che meritasse di finire dentro una pagina.

Per questo non ho mai scritto diari, credo, anche se la mia biografia è entrata sin da subito nella mia narrativa, l’idea distorta di fare mia la nota massima di Ernst Hemingway, dobbiamo scrivere solo di ciò che conosciamo, per altro il Pietro citato in Per chi suona la campana, era una vita che ci tenevo a scriverlo da qualche parte, ecco arrivato finalmente il momento, il Pietro citato in Per chi suona la campana, anarchico italiano giunto in Spagna per combattere a fianco degli anarchici spagnoli, maledetti comunisti di merda, è un mio parente, cugino di mio nonno, strana condizione, essere anarchici in una famiglia notoriamente di repubblicani, chi è di Ancona ben sa che la famiglia Monina è storicamente legata a quello che è stato il partito di La Malfa, senior, e Spadolini, Guido, cugino buono di mio padre, sindaco durante la ricostruzione post terremoto del 1972, uno dei sindaci più amati in città, al punto che ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla sua morte, se dico di chiamarmi Monina, in Ancona, mi si chiede se sono “parente del sindaco”, sindaco che per altro non ho mai conosciuto, perché mio padre non voleva frequentarlo per non dare a intendere che la cosa in qualche modo potesse avvantaggiarci in qualche modo, vi ho già detto di come io sia finito a fare l’obiettore nel posto peggiore perché lui, ex direttore della Caritas, non voleva avvantaggiare suo figlio, mio nonno, Mario, repubblicano al punto da non entrare in chiesa il giorno del matrimonio dei miei, lui che aveva combattuto la prima guerra mondiale negli arditi, unico momento in cui anarchici e repubblicani erano stati fianco a fianco, credo, mio nonno cugino del Pietro anarchico comparso nelle pagine di Per chi suona la campana di Hemingway, quell’Hemingway che diceva che si deve scrivere solo di ciò che si conosce, finalmente l’ho detto. Anche Hemingway, a dirla tutta, non è che fosse esattamente uno che non amasse bere, come il Kerouac che, all’epoca, ho letteralmente divorato, On the road letto credo quattro o cinque volte di seguito, per capire la faccenda del flusso di coscienza, e se non sapete cos’è il flusso di coscienza ma siete arrivati fin qui, beh, sappiate che non sapete di sapere, rovescio la massima socratica, ma soprattutto Doctor Sax amato alla follia, al pari di Big Sur, al punto che Big Sur è diventato, anche prima di andarci, poi, durante sempre il famoso coast to coast con Cristina Donà, a quel punto anche Marina giunta da noi, uno dei miei luoghi del cuore, del resto di Big Sur avrebbero scritto, anzi, avevano già scritto, ma io li avrei letti dopo, altri due autori che ho molto amato e studiato, Henry Miller, ho letteralmente consumato la sua trilogia Crocifissione in rosa, Sexus, Nexus, Plexus, a mio avviso di gran lunga migliori dei più noti Tropici, Henry Miller che lì ci ha a lungo vissuto e che lì ha ambientato il romanzo Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch, e Richard Brautigan, autore mai abbastanza citato e celebrato, che a Big Sur ha ambientato il romanzo Il generale immaginario, in origine intitolato A Confederate General from Big Sur, suo libro d’esordio, Richard Brautigan di cui ovviamente ho letto per primo Pesca alla trota in America, strampalato romanzo cui ho poi reso omaggio col mio racconto lungo Lo zen e l’arte della manutenzione della vespa 125 Primavera, ovvero La pesca del guatto in Ancona, contenuto nell’omonima raccolta di racconti, a sua volta omaggio al classico di Robert Pirsig Lo zen e la manutenzione della moto, col guatto, pesce stupido e assai poco commestibile, pieno di spine com’è, molto abbondante nelle acque che bagnano Ancona, a sostituire la trota brautiganiana, e tra i quali il mio libro preferito è Zucchero di cocomero.

Ho iniziato a prendere la mia vita, quella di chi viveva intorno a me, dai familiari agli amici, e ne ho fatto oggetto di finzione, in questi giorni ne ho a lungo parlato, non serve torni a sottolinearlo. Sono andato oltre, andando a vivere situazioni delle quali volevo scrivere, di questo invece mi sa che vi parlerò domani, o nei prossimi giorni.

Non sono finito a fare pompini a vecchi pedofili nei cessi, come Jim Carroll, questo no, ma superati i cinquant’anni la vita mi ha posto di fronte a un evento eccezionale che mi ha spinto a prendere la forma diario e farla mia, del resto sono sempre stato un Catholic Boy, mio nonno era un repubblicano che non ha messo piede in chiesa neanche per il matrimonio del figlio, ma suo figlio, mio padre, è poi diventato un diacono, quindi sì, sono decisamente un Catholic Boy, toh, al limite un Catholic Man, come quello cantato dall’allampanato Jim nel suo eponimo disco d’esordio. Tutto torna.