“Quando giro un film io non sono su un set, sto guardando uno schermo”. Così diceva Alfred Hitchcock, di cui oggi ricorre il quarantennale della morte, essendo il regista britannico trapiantato negli Stati Uniti scomparso a Los Angeles, il 29 aprile del 1980. È una frase che aiuta a capire l’approccio di questo maestro dell’arte cinematografica, che ha sempre fatto dipendere le sue scelte, tanto di ordine narrativo che visivo, dall’effetto che esse dovevano provocare sullo spettatore.
Il cinema per Hitchcock non punta all’espressività autoriale o al capriccio d’artista. È un fenomeno di comunicazione, che passa attraverso quel filo teso tra il film e il suo destinatario, lo spettatore. A raccordarli è il filtro enigmatico dello schermo bianco, su cui si proietta il racconto e, certamente, anche le fantasie, suggestioni, incubi del regista che appone la sua firma su quell’oggetto discorsivo fatto di immagini e parole. Più immagini, a dir la verità, dato che Hitchcock, nato nel 1899 e formatosi con il cinema muto, ha continuato per tutta la vita a prediligere quello, considerandolo il perfetto modello cinematografico. La parola è quasi un inciampo, cui ricorrere solo quando necessario, e sempre in funzione accessoria all’immagine.
Hitchcock è stato un artista e anche, come diceva Truffaut nel suo celebre libro intervista, il più grande genio pubblicitario che si fosse mai visto insieme a Salvador Dalí. L’attenzione al marketing, attestata pure dalla trasformazione di sé stesso in, diremmo oggi, un brand, insieme alla sua predilezione per i divi e Hollywood, gli ha a lungo precluso un autentico apprezzamento critico.
Cosa poi accaduta a partire, come è universalmente noto, dalla generazione dei critici francesi riuniti intorno ai Cahiers Du Cinéma: Truffaut, ma anche Eric Rohmer e Claude Chabrol, autori d’un importante saggio del 1957 che metteva in luce l’importanza della matrice cattolica per la definizone della poetica del regista legata al senso di colpa. Hitchcock però non si perde mai in dichiarazioni d’intenti o messaggi espliciti, il suo discorso passa sempre attraverso una, per usare una formula di Ėjzenštejn, “drammaturgia della forma”, a partire e in funzione della quale si edifica l’universo morale del regista. Per questo, continuano i due autori, Alfred Hitchcock “è uno dei più grandi inventori di forme della storia del cinema”.
È impossibile, per la vastità della materia, soltanto abbozzare un ritratto di Hitchcock. Più modestamente, partendo dall’affermazione dei due critici e poi registi francesi, per celebrarlo in occasione dell’anniversario, proponiamo un piccolo viaggio attraverso dieci sequenze di culto. Scelte non solo per la loro bellezza, ma anche per quel predominio della forma che è la sua cifra stilistica. Forma però non vuol dire mai formalismo, gusto dell’espressività fine a sé stessa, perché a definirla è sempre la funzione che ogni soluzione visiva e narrativa assume all’interno del racconto e l’effetto che deve produrre nel pubblico. Questa attenzione allo spettatore può far sembrare erroneamente che i suoi film siano di gusto facile, semplici congegni spettacolari – in fondo sono quasi sempre thriller –, non marcati dal segno d’una genialità autoriale vistosamente complessa.
Non è così: dietro ogni immagine di Hitchcock c’è una notevole stratificazione di scelte espressive e suggestioni concettuali, mascherate da un’attitudine da puro artigiano del cinema, come Hitchcock, ritroso alle teorizzazioni, amava presentarsi. La critica più avvertita a poco a poco ha sviscerato questo universo di segni ambigui e polimorfi, affrontando il suo cinema con dispositivi analitici disparati, dalla psicoanalisi alle letture femministe. Così per una volta esegeti raffinati e pubblico di massa si sono ritrovati a condividere, magari per ragioni agli antipodi, la stessa passione. Come disse Jean-Luc Godard: “I Cahiers Du Cinéma hanno detto di Hitchcock ‘questo è cinema e gli altri sono cacca’, in un colpo solo i Cahiers e l’uomo del bar accanto erano d’accordo. E questo definisce un’epoca”.
1. Sabotaggio (1936)
Alfred Hitchcock è attentissimo allo spettatore. Però non ne asseconda mai i gusti. Al contrario, il suo cinema spiazza continuamente gli orizzonti di attesa. Lo dimostra questa giovanile sequenza in un suo film inglese del 1936. Così crudele che il regista si pentì di averla girata. Un individuo trasporta una bomba a orologeria consegnatogli da un sabotatore affinché la recapiti all’obiettivo dell’attentato. È una lezione di suspense nella logica più propriamente hitchcockiana. Perché il trasportatore è completamente ignaro, lo spettatore invece sa tutto, anche l’ora in cui esploderà l’ordigno. Il regista glielo fa vedere con un movimento di macchina che giunge sino al dettaglio dell’oggetto incriminato. Il passare dei minuti è scandito da inquadrature di orologi, mentre il trasportatore bighellona per la città perdendo tempo prezioso. La cosa incredibile è che Hitchcock, contravvenendo a una regola non scritta, come inconsapevole corriere sceglie un ragazzino innocente. Una scelta coraggiosa, innovativa, spietata, che moltiplica l’angoscia del pubblico e spinge un po’ più in là i confini di quel che il cinema può mostrare e non mostrare. Violare l’interdetto etico per ragioni estetiche.
2. Giovane E Innocente (1937)
Come quasi sempre ha fatto nella sua carriera, Alfred Hitchcock racconta la storia di un innocente accusato di omicidio che, per scagionarsi, si mette sulle tracce dell’assassino, aiutato da una donna. Riescono a sapere che si tratta di un tale con un tic agli occhi. Sono certi di trovarlo in una grande sala da ballo piena di gente. Per amplificare la tensione, Hitchcock fa capire al pubblico, ma non ai protagonisti, chi è. Come? Con un lungo, complicato dolly che dal totale della sala plana lentamente verso il primissimo piano del batterista dell’orchestrina jazz, col volto pittato di nero come Al Jolson nel Cantante Di Jazz. L’inquadratura indugia a lungo, finalmente giunge il tic. Non una parola, solo il linguaggio puro dell’immagine e un movimento di macchina senza stacchi a spiegare tutto. È un espediente tipico del cinema di Hitchcock, che ama condurre lo spettatore dove vuole e manipolarne le emozioni. Lo riutilizzerà in una delle sue sequenze più celebri, quella della chiave in Notorius.
3. Strangers on a Train (1951)
Bruno uccide la ex moglie del tennista Guy, e per incolparlo vuole far ritrovare sul luogo del delitto un accendino che appartiene all’atleta. Guy sa che Bruno cercherà di eseguire il suo disegno il giorno in cui deve giocare un match importante. Scatta la corsa contro il tempo. L’accendino cade in un tombino, Bruno deve recuperarlo, mentre Guy s’affretta per vincere velocemente un incontro che diventa interminabile. Il montaggio parallelo passa dalla partita di tennis a Bruno. È una sequenza a due velocità. Da un lato la scansione concitata del match, inquadrature brevi e molteplici angolazioni. Dall’altro il braccio di Bruno lentamente, a fatica, si protende attraverso la grata per raggiungere l’accendino. Lo spettatore, in mezzo, sballottato tra situazioni dai ritmi diversissimi, osserva come stesse guardando una partita di tennis, voltandosi continuamente da un lato all’altro del campo (e dello schermo). Non domina la situazione, è sballottato come una pallina dal demiurgo Alfred Hitchcock, che a suo piacimento lo conduce attraverso le emozioni che vuole fargli provare.
4. L’Uomo Che Sapeva Troppo (1934 e 1956)
L’Uomo Che Sapeva Troppo è il “film che visse due volte”, chiosa Gianni Amelio. È l’unica volta in cui Alfred Hitchcock ha fatto un remake di un suo stesso film, rendendo palese come tutto il suo cinema consista di una sola storia continuamente variata. Il confronto tra le due versioni, quella inglese giovanile e quella americana, permette di entrare nel laboratorio del regista e comprenderne il modo di ragionare. I due film sono abbastanza simili, alcune sequenze ricorrono quasi identiche. Su tutte il pezzo di bravura della Royal Albert Hall. I protagonisti, una tranquilla coppia di coniugi trascinata involontariamente in un caso di spionaggio, va alla sala da concerto dove verrà ucciso un ambasciatore straniero. Per ricattarli ed evitare che cerchino di sventare l’attentato, le spie hanno rapito il loro bambino (una bambina nella prima versione). L’assassino sparerà all’unico tocco di cembali della sinfonia. Il grande semplificatore Hitchcock s’è peritato di spiegare in ogni modo allo spettatore cosa sono i cembali e quando precisamente suoneranno.
La sequenza della Royal Albert Hall è non solo un magistrale gioco di suspense, ma la dimostrazione pratica e teorica di come il cinema di Hitchcock tenda a una purezza musicale, in cui montaggio, scansione delle inquadrature, movimenti degli attori seguono una logica ritmata dal suono, come in una grandiosa partitura visuale. Un effetto ancora più chiaro nella versione del 1956, cui partecipa anche il marito, James Stewart, mentre la moglie è Doris Day. Non solo l’insieme è coreograficamente concertato al millimetro. Sotto la struttura visuale scorrono emozioni diverse grazie a una tastiera espressiva ricchissima, che fonde diversi generi. C’è il thriller che tiene col fiato sospeso: morirà l’ambasciatore? Arriveranno in tempo gli eroi? C’è il melodramma, perché la coppia vive l’angoscia per il destino del figlio rapito, che li obbligherebbe a non intervenire. C’è, infine, persino un tocco di commedia, perché nella pantomima vediamo Stewart continuamente rimandato dai poliziotti a uno più alto in grado. Ecco cos’è una partitura alla Hitchcock.
5. Intrigo internazionale (1959)
Intrigo Internazionale è una delle pietre miliari del cinema di Hitchcock, che sovverte le regole consolidate del genere cui il film appartiene. L’innocente accusato di omicidio Roger Thornill per scagionarsi deve incontrare il misterioso Kaplan. L’appuntamento non è nel solito sottoscala buio o in un locale affollato. No, siamo in un deserto, nessuno all’orizzonte, solo un aereo che sorvola dei campi. Compare un’automobile, scende un campagnolo che attende la corriera. Sarà Kaplan? Hitchcock depura le inquadrature, svuota lo spazio, rallenta il ritmo in maniera estenuante. La sequenza dura minuti lunghissimi, la tensione si liquefa al caldo del sole del deserto, il thriller scivola nell’astrazione visiva. Fino a quando i pochi elementi, Thornill, l’altro tizio, l’aereo, acquistano coerenza e un’accelerazione brutale fa ripartire l’azione. Cinema in purezza e, inutile dirlo, praticamente muto.
6. Psycho (1960)
Il finale di Psycho è una sequenza di sconcertante modernità formale. L’inquadratura mostra Norman Bates. Lo spettatore però sente la voce di una donna:
“È sempre stato cattivo. E ora aveva intenzione di dire che ero stata io a uccidere quelle ragazze e quell’uomo. Come se io potessi fare un’altra cosa all’infuori di star seduta, immobile e guardar fisso come uno di quei suoi uccellacci impagliati. Loro sanno che io non posso alzare neppure un dito e non mi muoverò. Resterò seduta qui tranquilla nel caso che loro sospettassero di me. Probabilmente ora mi stanno sorvegliando. Beh lasciamoli fare, farò vedere loro che specie di persona sono. Non scaccerò nemmeno quella mosca. Spero che mi stiano osservando, così vedranno e sapranno e diranno tutti: ‘Ma se non farebbe male neppure ad una mosca’”.
Chi sta parlando? Come in Viale Del Tramonto, è la voce di una morta, la madre di Norman Bates. Certo, è una sua fantasia proiettiva dato che, arrestato, crede ancora di essere lei. Che è una defunta consapevole di essere guardata. Dai poliziotti e dalla macchina da presa, in un film che è un trattato sul voyerismo: sin dalla prima scena, una panoramica in cui la camera s’intrufola in un appartamento per frugare nell’intimità di due amanti; e poi nello sguardo perverso di Norman Bates, che spia Marion farsi la doccia. Anche lo sguardo del finale è indagatore, indecente, scabroso: ed è lo sguardo della macchina da presa che accede alla stanza proibita della psiche del personaggio. Infatti non è un’inquadratura realista, ma una visione mentale che in una sovrapposizione subliminale condensa, come nel processo onirico, tre immagini in una: Norman Bates, lo scheletro della madre, l’auto rinvenuta nel lago.
Quello della donna, poi, sembra un monologo alla Samuel Beckett, pensiamo solo al riferimento straniante alla mosca. È geniale che un thriller orrifico invece di concludersi con una scena ad alta tensione finisca in una sequenza che ritrae uno spazio vuoto, col protagonista schiacciato sullo sfondo anonimo d’una parete nuda. Inquadratura da film d’autore, c’è qualcosa di simile nel Dreyer di Gertrud. Estetica da stile trascendentale, per usare la celebre definizione di Paul Schrader. O, appunto, da Beckett. Se c’è qualcosa infatti a cui fa pensare il finale di Psycho, è Film, del 1965, l’unico esperimento cinematografico del drammaturgo irlandese.
7. Gli Uccelli (1963)
Ne Gli Uccelli c’è una domanda che resta senza risposta: perché i pennuti attaccano l’uomo? I b-movies di solito offrono sempre una tranquillizzante spiegazione parascientifica delle azioni violente dei nemici, qui la ferocia degli animali resta priva di significato. C’è una sequenza però che, senza sciogliere l’ambiguità di fondo, schiude orizzonti di senso ampi e inquietanti. È quella in cui gli uccelli, per la prima volta, sferrano un attacco all’intero villaggio. È una escalation di atrocità, fino al momento in cui, enigmaticamente, l’azione si sospende e, per 25 secondi, Alfred Hitchcock s’inventa un’inquadratura da un’altezza siderale, con i pennuti che, a poco a poco, planano sul paesino. Di quale punto di vista si tratta? Quello degli uccelli? Quello di Dio? Non c’è una risposta. L’espediente puramente formale suggerisce l’idea di un’apocalisse, che questa sia una sorta di punizione che un Dio da Antico Testamento infligge a un mondo irrimediabilmente corrotto. Infatti è appena scoppiato un incendio, il paesino sta bruciando tra le fiamme dell’inferno. Così il film acquista una dimensione di grandiosità metafisica. Hitchcock, come sempre, non ci ha detto nulla, si è limitato a mostrare, impiegando strumenti meramente visivi.
8. Il sipario strappato (1966)
Una scena che è la quintessenza della logica con cui Alfred Hitchcock tratta la violenza al cinema. Ricordiamo l’affermazione da cui siamo partiti: “Quando giro un film io non sono su un set, sto guardando uno schermo”. Hitchcock pensa sempre in termini cinematografici, all’effetto visivo che vuole raggiungere. Il film deve produrre un’impressione di realtà: che non si ottiene attraverso l’imitazione, chiedendo cioè agli attori di ripetere naturalisticamente gesti esemplati su quelli reali, ma attraverso una composizione che usa il linguaggio cinematografico, fatta di tagli di montaggio e movimenti accennati.
Guardate, in Intrigo Internazionale, James Mason dare un pugno a Martin Landau. Un altro regista risolverebbe con un totale in cui un personaggio sferra il cazzotto all’antagonista. Hitchcock fa un campo/controcampo in cui il pugno nemmeno si vede: sono il montaggio e i gesti abbozzati a produrre un’impressione cinematografica di realtà. Lo spettatore vede sullo schermo un cazzotto che nessuno ha dato. La sequenza dell’omicidio di Gromek ne Il Sipario Strappato è l’apoteosi di questo approccio. Un’altra scena praticamente muta. E un omicidio efferato, agghiacciante, estenuante. Se lo guardate fotogramma per fotogramma, vi renderete conto che non succede quasi nulla, che i movimenti sono pochissimi e quasi tutto è ottenuto attraverso pose plastiche dei tre personaggi aggrovigliati. L’effetto finale però, grazie a una scansione di montaggio ricchissima di inquadrature e dettagli, è una delle più raccapriccianti, dolorose sequenze di violenza che si siano mai viste sullo schermo. Il massimo dell’astrazione compositiva produce il massimo realismo possibile.
9. Frenzy (1972)
Il regista che ha sempre amato guidare lo spettatore, obbligandolo a fissarsi sui dettagli che lui gli indicava, inquadrando maniglie, chiavi, bicchieri di latte, tic oculari, per una volta propende per una clamorosa ellissi. E lo fa quando, dopo trent’anni, torna a casa, in Gran Bretagna, per realizzare un film, Frenzy, che sin dall’ambientazione dimessa e quotidiana è inequivocabilmente inglese. Aria nuova e nuove sorprendenti soluzioni visive da parte di un regista ormai settantenne ma ancora capace di sorprendere, e sorprendersi. Per raccontare un omicidio stavolta Alfred Hitchcock, come fosse Ernst Lubitsch, lascia lo spettatore fuori dalla porta. Ma poiché è il maestro del brivido, fa parlare la scena, come sempre senza dialogo, imprimendo la sua firma con una soluzione puramente visiva. Un movimento di macchina inaudito, complicatissimo, con la camera che, quasi torcendosi su sé stessa – come lo strangolatore che starà torcendo il collo alla malcapitata – si allontana dalla porta e scende lentamente per le scale. Si allontana, come farebbe una persona spaventata da una visione terrificante. L’efferatezza di un delitto restituita attraverso la sua totale cancellazione.
10. Le 36 apparizioni di Hitchcock
Il solo fatto che in questa breve lista non abbia citato titoli imprescindibili come Il Pensionante, Il Club Dei 39, L’Ombra Del Dubbio, il rivoluzionario film in piano sequenza Nodo Alla Gola, La Finestra Sul Cortile, La Donna Che Visse Due Volte (spesso segnalato dai critici come il film più bello della storia del cinema), la dice lunga sull’eccezionalità della filmografia di Alfred Hitchcock. Però mi piace finire questo percorso direttamente con lui, citando quella macrosequenza ideale composta dalle sue celebri 36 apparizioni. Alfred Hitchcock ha detto che cominciò a comparire nei film per necessità, perché essendo pochi gli attori lui stesso s’adattava a fare da comparsa. Non sarà il caso di credergli troppo. Il maestro appone la sua firma, mascherando il suo titanismo d’autore sotto la patina dell’ironia. Le sue sono spesso minuscole gag visuali: Cary Grant lo guarda negli occhi e pare chiedersi dove ha già incontrato quel signore paffuto; le porte dell’autobus gli si chiudono in faccia; litiga con un monello che vuole sfilargli il cappello; è un giocatore di carte fortunatissimo con in mano una scala reale; in una pubblicità sul giornale fa da testimonial a una miracolosa cura dimagrante.
In quest’ultima, ingegnosa apparizione lo si vede di profilo, con la silhouette divenuta marchio di fabbrica del brand Hitchcock. Che in questi 36 cameo lascia un ulteriore segno stratificato: il cinema si fa indovinello (perché era diventato un gioco che il pubblico attendeva); enigma, nella moltiplicazione di sé stesso un film dopo l’altro; e forse ulteriore dimostrazione dell’ossessione per il controllo di un artista che avrebbe desiderato essere contemporaneamente da entrambi i lati della macchina da presa, regista e attore. E magari anche da entrambi i lati dello schermo, sostituendo persino gli spettatori, coi quali ha sempre giocato al gatto col topo, programmando certosinamente le loro reazioni.