Da Kathy Acker a me: il corpo e il pudore in questi giorni di quarantena

Voglio parlarvi di corpi e di come i corpi, in questi giorni di autoisolamento, risentano tanto quanto le menti del nostro stare chiusi dentro le case


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Credo sia arrivato il momento, oggi, sessantunesimo giorno di quarantena, sessantunesimo capitolo del mio diario del contagio, di parlare di corpi. Del resto i corpi sono da molto tempo tema centrale dei miei scritti, ci ho fatto su un TedX, ve ne parlavo giusto ieri, ci ho scritto su libri, si ho messo su, almeno inizialmente, il progetto Anatomia Femminile, proprio a partire dai corpi, bizzarro che ci abbia messo tutte queste parole, oltre duecentomila, prima di affrontarlo anche qui.

Sarà che in questi giorni nei quali siamo tutti, chi più chi meno, costretti a vivere una strana e inedita forma di clausura, ci stiamo in qualche modo abituando a esperienze extracorporee, mi sono detto nottetempo, quando insonne ragionavo proprio della assenza del corpo da queste pagine?

Sarà che in questi giorni nei quali siamo tutti, chi più chi meno, costretti a vivere una strana e inedita forma di clausura, stiamo talmente tutti impastando pizze e pani, nonostante la scandalosa scomparsa del lievito di birra dal mercato, che i nostri corpi si stanno tutti trasformando in qualcosa di paragonabile a Stefano Fresi o Bettie Ditto, a seconda che si sia uomo o donna, al punto da non poter essere messi troppo al centro della nostra narrazione, di qui anche un evidente crollo di Instagram che sulle curve ben calibrate dei culi ci ha fatto su bei numeri?

Sarà che in questi giorni nei quali siamo tutti, chi più chi meno, costretti a vivere una strana e inedita forma di clausura, l’idea dei corpi, con l’avvicinarsi del caldo, dell’estate, presumibilmente la nostra prima vera estate senza mare, senza quindi prova bikini, è troppo complicata da affrontare, così, su due piedi?

Io però oggi voglio parlare dei corpi, a partire ovviamente dal mio, quello che ho più alla portata, ci vivo dentro da oltre cinquant’anni.

Lo faccio, e già fare questa premessa in un diario mi fa inorridire, ma lascio qui queste parole come a voler fotografare lo stato mentale in cui verso, e in cui, credo si versi in molti in questi giorni di autoisolamento, perché un diario a questo serve, a fermare l’attimo, esattamente come si fa con le fotografie, solo che più delle fotografie, che tendono più a fermare il visibile che l’invisibile, a meno che non sia una di quelle fotografie che poi le rivedi a distanza di anni, e boom, ti si apre il forziere delle sensazioni e dei ricordi, come del resto succede con certe canzoni, quelle che magari arrivo io a dirti che sono canzoni demmerda, ma a te ricordano un primo bacio, o un dolore tagliente, e pensi che io sia un insensibile, uno che non sente col cuore, e no, infatti, io sento con le orecchie, non col cuore, e il critico musicale non può e non deve ascoltare col cuore, ma mi sto andando a incartare in un discorso lungo e complesso, e oggi non ho proprio né le forze né la voglia per incartarmi in discorsi lunghi e complessi, perché un diario a questo serve, a fermare l’attimo, esattamente come si fa con le fotografie, solo che oltre che l’attimo, nello specifico, il diario, oltre che, cioè, a raccontare quel che si è fatto, si è visto, si è recepito, serve anche a dire quel che si prova, lasciare quindi spazio alle suggestioni, alle emozioni, territorio che ho sempre affrontato con un certo pudore, io che il pudore, almeno a parole, sembrerebbe non abbia mai saputo cosa fosse.

E partirei proprio da qui, dal pudore.

Io, l’ho già detto più volte, nonostante quel che potreste pensare leggendomi, io di mio sarei una persona pudica. Molto pudico.

Mi hanno cresciuto così, o magari ero così già geneticamente, sempre che il pudore sia faccenda che concerne il DNA. Ho sempre avuto una certa reticenza a mostrare il mio corpo, per capirsi, non sono certo il Gino con le Mutande che circa un anno fa, proprio di queste settimane, elevavo al ruolo di figura mitologica, ma non sono mai stato di quelli che stavano a proprio agio nelle docce degli spogliatoi, non per questioni di dimensioni, credo di essere cautamente nella media e onestamente non mi è mai interessato più che tanto indire indagini a riguardo, proprio per una questione di imprinting, mi è stata passata da piccolo l’informazione, che essendomi stata passata da piccolo ho sempre data per buona, che il corpo fosse qualcosa da custodire con cura, ovviamente, ma da tenere possibilmente per me, e così ho provato a fare, certo non per questo rimanendo a lato quando si trattava, che so?, di andare al mare, di stare quindi in costume, o, anche lì, di mettersi a fare la doccia in uno spogliatoio. Per contro, ma non credo che l’espressione per contro sia esattamente la più pertinente in apertura di questa frase, ho sempre pensato che i corpi fossero destinati a rimanere in parte celati, perché sono nato e cresciuto in una famiglia piccolo borghese di forte matrice cattolica, perché, soprattutto, sono nato e cresciuto in provincia negli anni Settanta, e anche perché di corpi, almeno in casa, non se ne è mai parlato, né si sono mai mostrati, una volta varcata l’età adulta, e fino a un certo punto della mia vita, come per tutti, la casa è stata il solo mondo dal quale potevo trarre informazioni, figuriamoci se nelle scuole elementari o medie che ho frequentato io, nato nel 1969, si parlava di corpi…

In realtà, e so che aver detto che la casa è stata a lungo il solo luogo in cui il concetto di corpo poteva trovare la sola via d’uscita, via d’uscita evidentemente negata, oggi, suona come quantomeno sinistro, perché oggi la casa rappresenta, non tanto o non solo metaforicamente, il solo mondo che abbiamo a disposizione, suona strano, stride, per usare una figura retorica piuttosto fisica, quel passaggio, come tutti gli altri, non si trova mica lì per caso, in realtà, quindi, è stato proprio alle medie, cioè quando l’adolescenza ha fatto irruzione armata nella mia vita, come in quella dei miei compagni e di tutti gli adolescenti da che mondo è mondo, con le dovute differenze temporali e cronologiche, succede sempre così, immagino, ricordo che il primo giorno di scuola media, io al banco con Mirko Bugari detto Cipolla, per la sua pettinatura coi capelli a caschetto che gli faceva sembrare la testa una grande cipolla, io e lui abbiamo a lungo parlato di cartoni animati, eravamo la generazione di Goldrake, Mazinga Z e Jeeg Robot d’Acciaio, mentre chiaramente c’erano altri nostri compagni, non ne conoscevo quasi nessuno, ma li potevo vedere diversi da me, altri provenienti come lui, Cipolla, dalla zona delle case popolari che si trovano dalle parti del parco della Cittadella, lo dico per gli anconetani in ascolto, assai più svegli e scafati di noi, me e il loro vicino Cipolla, ma brillato particolarmente per arguzia, gente che, questo lo avrei scoperto nei tre anni successivi, alle medie sapeva cose che con buona probabilità io ancora non so oggi, figuriamoci se stava a parlare di Goldrake, ricordo, per dire, di come una delle nostre compagne di classe, non faccio il nome tanto per evitare, magari, di ferirla, lei che ora è diventata una fervente credente, lo vedo sui social e lo so perché l’ho incontrata una volta alla messa alla Cattedrale di San Ciriaco, per altro con sua figlia, identica a come era lei quando era piccola, una delle nostre compagne di classe che aveva deciso di svezzare, passatemi questo termine, il mio compagno di classe e amico Luca, e per farlo utilizzava metodi quantomeno fantasiosi, come l’infilarsi il suo astuccio, suo di Luca, dentro la minigonna di jeans, suo di lei, Luca non portava minigonne di jeans, invitando Luca a andarla a recuperare, Goldrake levate, senza voler essere pasoliniano è evidente come certe conoscenze arrivassero alle diverse fasce sociali con un gap temporale piuttosto netto, e io, che come ho più volte raccontato, ero incluso mio malgrado in una fascia più alta di quella di appartenenza, la mia famiglia a abitare nell’appartamento del Prefetto di Macerata, casa che il Prefetto di Macerata aveva messo a disposizione del Comune di Ancona e che il Comune di Ancona aveva messo a disposizione della mia famiglia, altrimenti sempre vissuta in quartieri più popolari, in seguito alla inagibilità del nostro appartamento dopo il terremoto del 1972, ero decisamente più coerente con la fascia più alta, tonto tra i tonti, è stato comunque ai tempi delle medie che ho iniziato a sentire parlare di corpi, anche perché quelli erano gli anni del referendum sull’aborto, e io ero figlio, sono figlio, di una delle promotrici anconetane del Movimento per la Vita, mia madre lo è tutt’ora, anche se ormai da mesi non può frequentare il Centro per la Vita di Ancona, col tempo divenuto credo più che altro un luogo che dà aiuti concreti alle famiglie con figli che si trovino in difficoltà economiche, si tratti di fornire passeggini, vestitini, pannolini o di pagare le bollette, e in classe mi ero fatto portavoce di quelle idee, non mie di prima mano ma che comunque mi sembravano pertinenti, andando a scontrarmi, in termini puramente dialettici, sia chiaro, con quelli del nostro professore di italiano, il professor Di Francia, professore di italiano non vedente, per questo accompagnato da un militare, lui diventato cieco per aver giocato con un ordigno esplosivo residuo della seconda guerra mondiale, un professore che talmente tanto era aperto di idee da dedicare una bella porzione delle lezioni a un dibattito infinito, la mia cara amica Nadia, che faceva le medie con me e che è la sola mia compagna di classe che ancora frequento, una delle mie più care amiche, mi dice ancora oggi che già all’epoca manifestavo una certa verve polemica, ponendosi per altro da pari a pari, il professor Di Francia, pensateci, un professore che parla di vita e di corpi e di diritto alla gestione del proprio corpo con un ragazzino di dodici anni, commuove anche solo pensarlo, è stato alle medie che ho cominciato a sentir parlare per la prima volta di corpi, e credo anche sia stato alle medie, è noto che ho ricordi frammentati, che ho una serie difficoltà con la memoria, al punto di ricorrere spesso alla scrittura per andare a cavare ricordi fuori dal mio cervello evidentemente con problemi di RAM, credo anche sia stato alle medie che mi sono cominciato a interessarmi ai corpi, il mio e quello delle ragazze, immagino a partire proprio dalle ragazze della mia classe.

Dico questo non perché voglia andare a fare un racconto morettiano dei miei giorni adolescenziali, mia madre che una sera, abitavamo ancora lì, nell’appartamento del Prefetto di Macerata in via Vittorio Veneto numero 1, la camera da letto di fianco alla sala, proprio davanti all’ingresso, mi chiede se ho qualche simpatia, proprio così, usando esattamente queste parole qui, “hai qualche simpatia?”, io che non rispondo, perché non riesco a associare la parola simpatia a quello tsunami, all’epoca non sapevo cosa fosse uno tsunami, chiaramente, non avevo visto i famosi quadri di Katshushika Hokusai, ora ho il catalogo della sua mostra milanese lì, nella libreria, e non avevo ancora memoria di tsunami come quello del 2004, quello che avrebbe ispirato al mio amico Renga la canzone Angelo, canzone nel cui video, lo dico così, tanto per sdrammatizzare questo momento drammatico, compaio io, assai più magro, vedi a parlare di corpi?, nei panni di un angelo, guarda te, mia madre che, a letto, mia madre è sempre andata a letto presto, prestissimo, mi chiede “hai qualche simpatia?”, intendendo con questo, “ti piace qualche ragazza?”, l’ipotesi che mi piacessero i ragazzi immagino non fosse mai stata presa in considerazione, non perché in effetti mi piacevano le ragazze, sono etero, ma perché anche non lo fossi stato nessuno avrebbe aperto spiragli a un eventuale mio coming out, intendendo con questo, “ti piace qualche ragazza?”, io che non rispondo, avrei potuto rispondere proprio Nadia, la Nadia su citata sopra, ma non rispondo, perché non riesco a associare la parola simpatia a quello tsunami di sensazioni che mi stanno tormentando il corpo, le prime polluzioni notturne, lasciatemi nascondere, pudico, dietro una terminologia meccanica, asettica, scambiate per me che mi ero pisciato a letto, le mutande cambiate di nascosto, nascoste in fondo al cesto dei panni sporchi, un panno umido passato sulle lenzuola, che vita di merda l’adolescenza, il corpo delle ragazze, delle donne, in realtà, perché erano donne quelle che si vedevano, scoperti attraverso giornaletti porno che qualche ragazzo più grande comprava, non c’era internet, nei primi anni Ottanta, in televisione si vedeva giusto Minnie Minoprio o Nadia Cassini, a smuoverci gli ormoni e decidere se da adulti avremmo fatto parte tra quanti apprezzavano più tette o culi, siamo esseri elementari, perdonateci, io ho sempre tifato per Nadia Cassini e per il culo, sia messo agli atti, Sidney Rome che cantava le sue canzoni, male, indossando costantemente magliette bagnate senza reggiseno, quella roba lì, il corpo delle ragazze, delle donne, in realtà, perché erano donne quelle che si vedevano, scoperti attraverso giornaletti porno che qualche ragazzo più grande comprava, non c’era internet, e nascondeva non troppo bene tra i mattoni di quella che per noi era la porta della piazzetta, un sottoscala che utilizzavamo come porta nei nostri infiniti pomeriggi a giocare in strada alla tedesca, donne che avevano facce che non mi piacevano, perché dovevano simulare un piacere forzato dentro una fotografia, mentre facendo mosse atletiche e anche piuttosto improbabili, ospitavano cazzi assai più grossi di quelli che chiunque di noi si sarebbero mai trovato nelle mutande, che adolescenza di merda si faceva nei primi anni Ottanta, e quindi le prime cotte, i primi tormenti, non è di me adolescente che voglio parlarvi, non è la mia biografia, questo diario del contagio.

Voglio parlarvi di corpi e di come i corpi, in questi giorni di autoisolamento risentano tanto quanto le menti del nostro stare chiusi dentro case che in passato abbiamo sì frequentato, sono le nostre case, e io ci lavoro pure, a casa, ma non con questa frequenza, non tutti insieme, non senza avere la possibilità di uscire, volendo.

E voglio farlo partendo dal pudore, perché lavorare sul pudore, sul mio pudore, ma su un pudore che in qualche modo è anche il pudore di tanti miei coetanei, parte fondante della nostra cultura cattolica, e più in generale il pudore di chi è cresciuto con un tipo di educazione simile alla mia, è un buon modo, penso, per affrontare l’argomento corpo.

Perché parlare di corpi, di sessualità, di sessualizzazione nella musica, questo ho fatto nel TedX già citato ieri e nel libro e negli articoli che quel TedX hanno influenzato e permesso, non è esattamente argomento che mi sarebbe venuto naturale, non avessi intrapreso gli studi che ho fatto, studi, intendiamoci, paralleli a quelli scolastici e accademici, parlo dei tanti e tanti e tanti libri letti di mio, su tutti quelli di Kathy Acker, certo, una che ha dedicato al corpo e ai cambiamenti strutturali del corpo, quelli dettati dal progresso come quelli che la sua vita personale le ha imposto, anche violentemente, lei che a un certo punto si è trovata, malata di cancro, a doversi sottoporre a due mastectomie, le sue foto in topless senza seni sono quanto di più rock io abbia mai visto, lei che ha anche praticato l’arte della coverizzazione di classici della letteratura, penso al suo Don Chisciotte, idea geniale che in passato ho provato a ripercorrere suggerendo a amici scrittori di dar vita a una antologia che fosse, come le antologie musicali, una sorta di tributi a racconti altrui, via alla cover percorribile per noi scrittori, idea abortita sul nascere, e anche sull’aborto Kathy Acker ha scritto pagine talmente dense da essere tangibili, su tutti quelli di Kathy Acker, quindi, ma anche di Shelley Jackson, il suo La melancolia del corpo è, in assoluto, il testo che più mi ha spinto a intraprendere l’avventura di Anatomia Femminile, parte fondamentale della mia opera, e non fosse stato per i suoi lavori multimediali quali Skin, un racconto scritto attraverso parole che la Shelley ha chiesto a sconosciuti di tatuarsi sulla pelle, prima forma di racconto che cambia col morire di chi ospita quelle parole, e, soprattutto, The Patchwork Girl, metatesto che intorno alle parti del corpo si sviluppa, ancora starei qui a occuparmi di canzonette, passando per il grandi classici quali Manifesto Cyborg di Donna Haraway o L’eunuco femmina di Germaine Greer. Studi che, in qualche modo, hanno cambiato il mio modo di pensare il corpo, di pensare quindi al corpo, e voi sapete, come me, quanto sia difficile cambiare una mentalità, il Piero Pelù di Apapaia canterebbe che si può vincere una guerra in due, a volte anche da soli, ma è più difficile cambiare un’idea, scardinando quelle che credevo essere certezze inespugnabili, forse addirittura dogmi da accettare così, senza farsi domande, per passare a vagliare altre ipotesi, con la curiosità di chi sa di non sapere, ma soprattutto con la consapevolezza che negare la presenza del nostro corpo, questo un pochino intendeva fare quel tipo di imprinting, non è esattamente qualcosa di ascrivibile al novero del naturale.

Ho quindi intrapreso un cammino, parlo di cammino intellettuale, non fisico, ovviamente, ma neanche spirituale, che in qualche modo mi portasse a guardare ai corpi in maniera differente, sto parlando di sguardo teorico, provate a seguirmi nonostante la stanchezza che la clausura ci impone di default.

Un lavoro per affrontare il quale ho dovuto fare sforzi fisici, perché abbattere il proprio pudore nell’affrontare certi argomenti è un duro lavoro di cesello sui propri istinti, normale che io lo abbia fatto alla mia maniera, punk, andando quindi a volte a scivolare nella provocazione, sempre intellettuale, penso alla mia iniziativa #LaFigaLaPortoIo o alle mie interviste in costume alle Terme di Milano, ma superare il mio pudore fisico, fidatevi, è stato ancora più difficile, perché se le parole sono la materia che con gli anni ho imparato a manipolare, è il mio mestiere, il mio rifugio, il mio corpo resta il mio corpo, quello nel quale spesso la ragione arriva seconda dopo l’istinto, le automazioni che gli anni vissuti ci hanno in qualche modo imposto.

Quando, per dire, anni fa io e Marina siamo andati per la prima volta alle terme di Merano, in uno di quei rari momenti che ci regaliamo, soli io e lei, perché siamo sì i genitori di quattro figli, ma siamo anche una coppia e ogni tanto è bene ricordarselo anche mettendo dei chilometri tra noi e i quattro figli, e anche qui, so che dire questo oggi, tutti in casa da due mesi, suona straniante, quasi sarcastico, quando anni fa io e Marina siamo andati per la prima volta alle terme di Merano, un weekend in solitaria per festeggiare il suo compleanno lasciandoci un po’ coccolare da quella che sapevamo essere una delle più belle strutture in Italia per quel che riguarda le terme e le SPA, il dover abbattere di colpo, zac, il mio pudore non è stato facile, anche se lo zac di cui sopra, la guerra lampo cui mi sono sottoposto, magari, ha impedito che facessi in tempo a erigere barriere e barricate, che pensassi a una qualche strategia difensiva consona.

Perché alle terme di Merano, nella parte delle saune, dei bagni turchi, non in quella comune delle piscine termali, si può accedere solo senza costume, e si è senza costume in ambienti in cui si è tutti insieme, uomini e donne. Aspetto, questo, che né io né Marina conoscevamo, ma che, io e Marina abbiamo un imprinting evidentemente differente, ha colpito come un colpo di accetta solo me. In pratica è andata così, superiamo i tornelli che dividono la parte delle piscine, piscine bellissime, alcune anche all’aperto, con le montagne di fronte e quel freddo pungente, il compleanno di Marina è in novembre, che contrasta con l’acqua calda delle piscine, superiamo i tornelli e accediamo alla zona delle saune. Appoggiamo gli accappatoi agli appositi ganci appesi ai muri, lasciamo le ciabatte fuori dalla sauna, entriamo, e ci troviamo di fronte una quindicina di persone nude, appoggiate con naturalezza, cosa c’è di più naturale di un corpo, ai propri asciugamani. Tutti nudi, uomini e donne. Tutti. Ci mettiamo qualche secondo a capire, ma forse anche qualche frazione di secondo. Usciamo, e mentre Marina si sfila il costume e lo appoggia in una delle tante mensole che si trovano di fianco ai ganci su cui si infilano gli accappatoi, io resto impietrito, immobile. Parliamo sempre di frazioni di secondo, lassi di tempo che probabilmente non sono neanche state già decodificate e cui quindi nessuno ha ancora dato un nome specifico. Resto pietrificato, immobile, poi, ho tanto letto e tanto studiato, sono un adulto occidentale dotato di raziocinio, faccio lo stesso anche io, e passo le restanti tre, quattro ore così, nudo tra i nudi, ma vi giuro che è stata esperienza per certi versi difficile da gestire, per tutto quanto detto sopra, pensate solo, per dire, al trovare la giusta posa mentre ci si siede sulle assi calde della sauna svedese, o come atteggiarsi mentre, in piedi, si mangia una fetta di arancio o di ananas al buffet, con a fianco sconosciuti che esibiscono piselli, tette e passere, il pisello che ovviamente al solo pensarsi lì, davanti a tutti, diventa ogni minuto più piccolo, ma questo è altro discorso, che esce dall’idea di pudore e finisce con le scarpe e tutto, le infradito delle terme nello specifico, nel machismo più o meno portato con agio, per non dire della faccenda della gelosia, gelosia ovviamente malriposta, perché qui siamo tutti nudi e tutti nudi per goderci le terme, non per guardare o metterci in posa, nudi perché le saune e le terme si affrontano nudi, così hanno ben pensato i popoli che le hanno inventate, popoli che evidentemente pensano ai corpi senza tutte quelle menate lì.

Non per nulla Merano è in Italia, certo, ma appartiene a una cultura diversa dalla nostra, quella tedesca, e i paesi del nord Europa, è noto, hanno un approccio al corpo differente dal nostro, ricordo quando, sempre anni fa, in vacanza a Stoccolma con la famiglia, siamo andati un pomeriggio al mare, con i nostri amici Berarda, Jonas e i loro figli Ludwig e Ofelia, ricordo come l’idea di andare al mare a Stoccolma, il mare del nord lì a aspettarci coi suoi pochi, pochissimi gradi ci incuriosisse, ma ricordo più la meraviglia nel constatare come nelle spiagge svedesi, almeno in quelle a Stoccolma, in una delle tante isolette del caso, non ci fossero lidi, i nostri bagni, per capirsi, e di come, quindi, la gente si cambiasse direttamente in spiaggia, togliendosi i vestiti, mutande e reggiseni compresi, per infilarsi i costumi, si trattasse di boxer o dei bikini, senza star lì a coprirsi coi teli, come noi abitualmente facciamo anche coi bambini, quando facciamo mettere loro i costumi asciutti prima di tornare a casa, a giornata al mare finita, il tutto, però, senza quella neanche troppo velata voglia di esibirsi che capita a volte di constatare in chi, da noi, sta in topless o, per chi capita in quelle spiagge deserte come da noi potrebbe essere Mezzavalle, vi ho parlato anche di quella, quando vi ho raccontato del sogno nel quale espugnavo la Torre di Portonovo, da parte di chi vuole praticare il naturismo, finendo spesso per mettersi in mostra più che per godersi la natura. Pratica, quella del cambiarsi all’aria aperta, che ovviamente abbiamo faticato a attuare, c’erano i nostri figli, e per quanto si lavori di raziocinio siamo pur sempre nati e cresciuti così. Ma ci stiamo lavorando, caspita se ci stiamo lavorando. O meglio, ci sto lavorando, Marina è molto più avanti di me.

Non è mica un caso che, proprio perché lavoro sull’idea di pudore, e sull’idea di corpo in quanto corpo, quindi da provare a riportare su un piano di naturalezza, provando cioè a abbattere le sovrastrutture che abitano intorno all’idea di corpo, sovrastrutture culturali, certo, intellettuali, poi, con lo scivoloso tema della sessualità lì, perché privare i corpi di valenza sessuale equivarrebbe a negare un’evidenza, siamo animali che si riproducono sessualmente, abbiamo impulsi, non solo raziocinio, mica siamo degli automi, ma caricare di troppe valenze sessuali i corpi spesso implica guardare ai corpi solo da quel punto di vista lì, rischiando anche di scivolare nel campo del senso di colpa cattolico, dell’ipersessualizzazione, non è mica un caso che, proprio perché lavoro sull’idea di pudore, e sull’idea di corpo in quanto corpo, io mi ritrovi ora qui a parlarvene, mentre potrei stare comodamente steso sul divano a guardare una serie su Netflix o su Amazon Prime Tv.

Scrivo tutto questo, oggi, perché è evidente che in questi giorni dobbiamo tutti giocoforza rivedere, almeno momentaneamente, il nostro rapporto col nostro stesso corpo.

Abbiamo dovuto rinunciare alle attività fisiche, non fatemi ritirare fuori la faccenda dei runner, già è nota. Abbiamo dovuto mettere da parte l’idea di camminare. In alcuni casi si è dovuto pure rinunciare alla sessualità, la distanza tra amanti, intesi come persone che si amano, a volte, tra amanti intesi come persone che si amano extraconiugalmente, in altri casi, per non dire di quanti hanno dovuto anche rinunciare a avere spazi per sé perché in casa spazi magari non ce ne sono, troppi in troppi pochi metri quadri, penso a quanti hanno piccole case, o addirittura hanno solo stanze. Abbiamo dovuto abituarci all’immobilismo, spesso accompagnato dall’inedia o dalla bulimia, lungi da me aprire il file dei disturbi alimentari, disturbi alimentari che in una condizione di clausura forzata immagino saranno degenerati. Ci stiamo cominciando a rassegnare, ma sarà una guerra lunga che combatteremo con tutte le nostre forze, a un’idea di futuro distopico nel quale i corpi saranno negati, il contatto tra corpi sarà negato, i corridoi nei bar, i cubi di plexiglas nelle spiagge, le mascherine onnipresenti, i distanziamenti sociali, i tutorial per fare l’amore alla doggy style per non infettarsi, per dirla col Prince di Sign ‘O the Times già citato, l’idea di convivere con una Big Disease with a long name che giorno dopo giorno diventa sempre più concreta, per quanto la narrazione di chi ci guida si sfumi per lasciare spazio a una ripresa economica.

Il corpo è stato per tutti questi giorni, queste settimane, a questo punto anche questi mesi, sessantuno giorni si allunga già su febbraio, marzo e aprile, indicato come fragile, mostrato con tubi che escono dalla bocca, coperto da scafandri, indicato come fonte di pericolo. Ci è stata negata anche la primavera, ve ne parlavo sotto Pasqua, il tutto mentre magari mettevamo su chili e perdevamo atleticità. Ma se ripartenza deve essere, che parta proprio dai corpi, il solo modo che abbiamo, per ora, di essere al mondo.