Wish You Were Here è la canzone che suonavo a mia figlia neonata per convincerla a mangiare

Nella clausura da Coronavirus, rimpiango finanche il tempo trascorso a suonare il successo dei Pink Floyd a mia figlia, durante il quale mi annoiavo tanto

Frame by Pink Floyd: Live at Pompeii


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Sono padre di quattro figli, credo di averlo ripetuto quel mezzo centinaio di volte in questo diario, forse anche di più. E con l’esperienza tutta personale di avere quattro figli, perché suppongo che la paternità, come la maternità, abbia sì tratti comuni, parecchi, ma sia soprattutto fatta di personali letture della quotidianità così come degli eventi speciali che l’essere padre comporta, con l’esperienza tutta personale di avere quattro figli posso confermarvi che con il crescere dell’età anagrafica, mia, di padre, e con l’arrivo di nuovi figli, nel nostro caso ci sono stati due momenti specifici in cui ciò è avvenuto, l’arrivo del secondogenito Tommaso, quando la primogenita Lucia aveva quattro anni ancora da compiere, e l’arrivo dei gemelli Francesco e Chiara quando Lucia aveva compiuto dieci anni, appena iniziata la quinta elementare, giusto da una settimana, e Tommaso sei, prima elementare iniziata da una settimana, appunto,  con il crescere dell’età anagrafica, la mia, di padre, e l’arrivo di nuovi figli, ovviamente le dinamiche del rapporto padre-figli muta, e neanche poco. Intendiamoci, sto parlando di dinamiche comportamentali, non certo di quelle affettive. O meglio, immagino cambino anche quelle, ma non è di questo che intendo parlarvi, sono padre di quattro figli, li amo tutti allo stesso modo, pur avendo tratti di compatibilità comportamentale che combaciano più con alcuni che con altri, che poi non è neanche del tutto vero, perché il rapporto padre-figlio, almeno per come lo vedo io e per come lo sviluppo io, coi miei figli, tende a basculare, per cui ho alcuni tratti che combaciano più con qualcuno dei miei figli su certi aspetti, penso all’approccio allo studio, e quindi a quella macrocategoria che si potrebbe includere sotto il nome “dovere”, e ho alcuni tratti che combaciano più con qualcun altro dei miei figli su altri aspetti, penso all’approccio al divertimento, per dire, e per contiguità anche a quello che è il mio lavoro di uomo che lavora nel campo della cultura e dello spettacolo. Sempre per aggiungere ingredienti al piatto che intendo presentarvi oggi, cinquantunesimo giorno di clausura, cinquantunesimo capitolo del mio diario della quarantena, il fatto che ci siano evidenti tratti accomunabili tra il mio carattere e quello di qualcuno dei miei figli, ne parlavo anche giorni fa a proposito del nervosismo di Francesco, e il fatto che ci siano altrettanto evidenti tratti accomunabili tra il carattere di qualcuno dei miei figli e quello di mia moglie Marina, evidentemente persona il cui carattere mi è congeniale, sicuramente più del mio, comporta ulteriori dinamiche interne alla nostra famiglia, e fortuna che ho lasciato da parte la fisiognomica, perché altrimenti non ne uscivamo prima di cento giorni, un po’ come temo capiterà a noi qui chiusi in un continuo lock down che si allunga di due settimane in due settimane.

Vado nello specifico, tanto per non continuare a giocare con le parole, non sono mica un bambino che scopre che si può portare i piedi alla bocca e non fa che portarsi i piedi alla bocca, io, per non dire di quando poi scopre di avere il pisello. Quando Lucia è nata, prima figlia di una coppia, io e Marina, o Marina e io, vedetela come meglio preferite, una coppia che stava insieme già da tredici anni, direi piuttosto rodata, diciotto anni lei, quando ci siamo messi insieme, diciotto io, ancora per qualche mese, quattro anni di convivenza insieme, due di matrimonio, tanto per essere esaustivi, ovviamente lei, Lucia, ci ha sconvolto la vita. È arrivata e di colpo ha occupato militarmente le nostre vite, ma questo suppongo che non sia una notizia di quelle che fanno cascare chi le legge dalla sedia. Di colpo c’è stata per un po’ solo lei, tutto ha cominciato a ruotare solo e esclusivamente intorno a lei, per certi versi dando vita anche a altre dinamiche, che in alcuni casi hanno dovuto vedere miei interventi anche perentori, come quando mia suocera, Lucia è nata l’8 agosto in Ancona, perché ovviamente all’epoca era ancora la nostra città, nonostante vivessimo già da quattro anni a Milano e perché l’8 agosto allora come oggi cade in estate, e noi non abbiamo mai passato l’estate a Milano, e nello scrivere queste parole, pensando al lock down di cui sopra, lo giuro, mi si è serrato ermeticamente il buco del culo, ora non ci passerebbe uno spillo, sempre che avessi ragioni improrogabili per provare a farmi passare uno spillo nel buco del culo, come in effetti non è, come quando mia suocera, quindi, nella cui casa vivevamo e viviamo quando siamo in Ancona, chissà quando potremo tornarci?, ci aveva indotto alla doppia pesata, su suggerimento della pediatra che l’ha seguita nei primi mesi di vita, sorella dell’ostetrica che l’aveva fatta nascere, all’ospedale Salesi, coadiuvata dalla ginecologa di Marina, la dottoressa Cornacchia, a sua volta moglie, ex moglie all’epoca dei fatti, di colui che è stato a lungo il medico di famiglia della mia famiglia, vedi a vivere in provincia, e sul fatto che a far nascere bambini fosse la Cornacchia invece che la cicogna, ve lo dico, ne abbiamo sentite anche troppe, figuriamoci lei, comunque la pediatra di Lucia, sorella dell’ostetrica che l’aveva fatta nascere, pediatra che stava a Jesi e per andare dalla quale impiegavamo un tempo lunghissimo, stando almeno ai parametri delle Marche, e qui già iniziate a capire come Lucia avesse occupato militarmente tutta la nostra vita, anche stordendoci e inducendoci a gesti idioti, andare da Ancona a Jesi, quando anche a Ancona c’erano pediatri, la pediatra di Lucia ci aveva messo il tarlo del dubbio rispetto al suo poco peso, lasciando intendere che stesse crescendo poco, minuta come era, per questo mia suocera, lavorando subliminalmente in quello che immagino un qualsiasi giudice avrebbe condannato come plagio, un lavoro di lima sorda, tutti i giorni, tutte le ore, tutti i minuti, colpendoci al nostro tallone di Achille, l’incertezza che l’essere neogenitori comporta sul futuro prossimo, ci aveva indotto alla doppia pesata, ma volendo strafare, ci aveva indotto alla doppia pesata da spogliata. Traduco per i non avvezzi, spero tutti, la doppia pesata è una antica tortura medioevale, di quelli che si possono ammirare in certi castelli visitabili, nelle Marche abbiamo per dire quello di Gradara, cantato da Dante per la storia di Paolo e Francesca, una tortura medioevale tremenda, dolorisssima, nei fatti una mera faccenda di calcoli basilari, si pesa la bambina quando deve mangiare, con quelle cazzo di bilance coi pesi, tipo quelle che si usavano in tempi passati, giustamente superati dal progresso, fanculo il luddisti, o con quelle elettroniche, che si affittano presso le farmacie a cifre che in altri momenti della nostra vita avremmo ritenuto sufficienti a un gesto di giustizia sommaria, da compiere in pubblica piazza, di fronte al tribunale del popolo osannante, al popolo piace sempre il sangue di chi si prende gioco di lui, la si pesa prima e la si pesa dopo, poi si calcola la differenza e la differenza tra il dopo e il prima è il peso preciso di quanto ha mangiato, nulla di particolarmente complicato. La variabile portata da mia suocera, un po’ come quando giocando a Cucù, il gioco delle carte nel quale si deve provare a passare a colui che sta alla nostra sinistra una carta bassa, se la si ha in mano, con lo scopo di arrivare alla fine del giro con una carta più alta degli altri, e nel quale il Re blocca il passaggio di carte, l’asso considerato al pari di una maledizione maya, si aggiunge la variabile del cavallo, lì a far saltare, questo simula la figura delle carte da briscola, siano esse piacentine o napoletane, la carta direttamente al giocatore successivo, variabile possibile, ma non obbligatoria, la variabile portata da mia suocera era quella di pesare la creatura, Lucia, appunto, da spogliata, era estate, direte voi, che ci vuole?, e lo dite perché non sapete quanto cazzo ci vuole a mettere e togliere i body, i pannolini, col rischio che nel mentre pisci, perché i bambini tendono a pisciare se gli si toglie il pannolino, ben lo sanno tutti i genitori che si sono ritrovati a ricevere pisciate in faccia o nelle mani, roba che se la vedi a Paperissima ridi, anche perché se guardi Paperissima ti meriti di ridere per quelle stronzate, ma che se capita a te ridi meno, specie se ti capita tutti i giorni o quasi, per qualche mese, il tutto chinati sul letto matrimoniale, perché noi avevamo il fasciatoio a Milano, non certo a Ancona, con il mal di schiena che di lì a poco avrebbe devastato me, Marina era già devastata dal parto, a tutte le poppate, ogni tre, quattro ore, intendiamoci, a spogliarla, pesarla, rivestirla, darle da mangiare, rispogliarla, ripesarla, fare i calcoli, farle fare il ruttino, il tempo di finire e già si doveva ricominciare, come in un loop malefico, mortale, demoniaco, al punto che dopo qualche settimana io, che sono nervoso come Francesco, già lo sapete, ho fatto uno show degno di un Al Pacino in particolare forma, e ho dichiarato urbi et orbi che alla prossima volta che qualcuno mi avesse chiesto di fare una doppia pesata avrei lanciato la bilancia dalla finestra, urlando e strepitando, usando un linguaggio colorito, molto colorito, il tempo di finire che ho preso la bilancia, sono sceso, sono salito in macchina e l’ho riportato alla farmacia, fanculo a doppia pesata, mai più ritornata nelle nostre abitudini familiari, con Tommaso c’era il consultorio di Via Boscovich, a Milano, con i gemelli l’occhio mio e di Marina, le dinamiche cambiano, i genitori crescono e diventano più esperti, i gemelli sono comunque portati per natura a un maggior senso di sopravvivenza, sono più scafati, è un fatto.

Questo per dire come Lucia avesse occupato militarmente le nostre vite, e un po’ anche mia suocera, ma con meno successo.

A quei tempi, però, ben altro era il senso di quella occupazione, Lucia era sempre al centro dei nostri pensieri e anche dei nostri movimenti.

Per farla dormire, per dire, lei che era piccina e che dormiva in mezzo a me e Marina, sì, noi abbiamo fatto dormire Lucia in mezzo a noi per quasi tre, anni, almeno per parte della notte, perché ha sempre continuato a fare una poppata a metà notte, e tenerla lì comportava avere meno sbattimenti, e perché poi è passata a bere biberon di succo di frutta, idem, alla faccia del pediatra spagnolo che ha scritto Fai la nanna, il libro che spiega come con semplici comandi secchi, come quelli che si danno in tedesco ai cani per ammaestrarli e addestrarli, i bambini si possano far dormire tutta la notte e tutta la notte da soli sin da subito, qualcosa come li metti a letto, li lasci piangere fino allo sfinimento chiudendo la porta alle tue spalle e provi a vivere per qualche ora, metodo che ci faceva orrore alla nascita di Lucia, ci ha fatto un po’ meno orrore con Tommaso, che abbiamo messo a dormire in camera con Lucia già a sei mesi, avevamo appena acquistato casa, avevamo una camera per i bambini, non vuoi farli dormire insieme?, ma che abbiamo in qualche modo adottato, senza manco leggere il libro in questione, coi gemelli, non fosse altro perché i gemelli sono due, e o vivevamo un po’ anche noi o avremmo capitolato (volevo usare il verbo soccombere, ma non sono stato in grado di declinarlo, sono davvero troppo stanco per questa cazzo di quarantena), ma ci arrivo, perché per rendere il tutto deflagrante devo partire da lontano, da Lucia, appunto.

Lucia era piccina, era estate, quindi per farla addormentare, prima di deporla come una sorta di reliquia in un tabernacolo, a volerla vedere con gli occhi del fedele, o come una invisibile barriera tra me e Marina, e qui potrei scivolare in altre dinamiche, che mi risparmio e vi risparmio, a voler usare gli occhi del pragmatico, per farla addormentare avevo preso l’abitudine di appoggiarla sul mio petto, usando il mio cuore per calmarla, e usando il mio respiro come ninna nanna. Tutte le volte che doveva dormire la mettevo lì, e ce la tenevo per un po’, finché non si addormentava e potevo spostarla in mezzo a me e Marina. Una cosa bellissima, lo so, che sicuramente ha in qualche modo influito nel mio rapporto con Lucia, so anche questo, anche se non sempre è evidente, specie quando ci scanniamo come i tifosi di West Ham e Millwall, identica a me di carattere, polemica fino allo sfinimento.

Pensate al me stesso che dico che il disco di Biagio Antonacci è da paragonare a un cavallo che affoga dal buco del culo, o che consiglio a Laura Pausini di chiamare il suo album “A cazzo di cane”, poi pensate a me, più giovane di diciotto anni e mezzo che faccio addormentare mia figlia cullandola sul mio petto.

Fatelo, se ci riuscite.

E questo è solo uno dei tanti episodi che potrei fare, episodi che potrebbero abitare quel percorso che va dai genitori che, al primo figlio, se qualcosa cade in terra lo buttano, o lo lavano con l’Amuchina, i genitori era i soli a sapere già cosa fosse l’Amuchina prima del Coronavirus, o lo disinfettano con lo sterilizzatore, sì, ho avuto in casa anche uno sterilizzatore, come un vaporizzatore per togliere l’eccesso di umidità in camera dei bambini, lo confesso, ecco, uno dei tanti episodi che sta tra me e Marina che prendiamo un giochino di Lucia, lei non ha preso il ciuccio, giochino caduto in terra e lo portiamo in un bar, chiedendo un bricco con acqua bollente dentro il quale sterilizzarlo, me e Marina che prendiamo il ciuccio caduto a Tommaso, anche lui piccolo, e lo puliamo con un po’ di acqua di una fontanella, o passandocelo in bocca noi, e arriva io e Marina che prendiamo qualcosa caduto a uno dei gemelli e glieli rificchiamo in bocca così com’è, tanto si fa gli anticorpi, sto ovviamente mettendo in pratica la sottile arte del paradosso, lo dico per i pochi assistenti sociali all’ascolto, tanto siamo tutti chiusi in casa, sucate forte.

Questa è la perfetta cristallizzazione del passaggio che avviene nelle dinamiche padre/madre figlio, man mano che si cresce di età, noi genitori ma anche i figli, quindi si acquisiscono maggiori conoscenze sul campo, noi, e al tempo stesso si diventa meno rigidi, sempre noi, o forse più elastici, fate voi, e man mano che arrivano altri figli in famiglia, e quindi l’esperienza si accresce, la casistica pure, e si riconoscono le malattie sceme, come la sesta malattia o quella Mani Bocca Piedi di cui non ho mai appreso l’ordine preciso, che detto così sembra una categoria di Youporn, insomma, si diventa più autonomi, emancipati, forse, dovrei dire.

Altro esempio, la caduta del moncone dell’ombelico, e so che col citare ciò avrò praticato una simbolica vasectomia ai lettori senza figli, o avrò chiuso le tube alle lettrici senza figli, ma tant’è, la caduta del moncone dell’ombelico, dicevo, ovvio che con il primo figlio è qualcosa di angosciante, siete lì tutti i giorni a disinfettare un moncone di ombelico, non è che lo facciate tutti i giorni, immagino, a meno che non siate pediatri, come la mia amica Nadia, che saluto, e che se ne sta lì in prima linea, tieni duro Nadia, mi raccomando, non è una cosa che fate tutti i giorni e per questo è altrettanto ovvio che col primo figlio, non ce n’è, correrete almeno un paio di volte al Pronto Soccorso, perché siete sicuri di aver fatto danni irreparabili, lì con l’ovatta e il disinfettante, e poco conta che un moncone sia un moncone, come un unghia, carne morta, fa sempre impressione e voi siete convinto di aver fatto danni irreparabili, danni che ovviamente non avete fatto, col secondo ci correrete una volta sola, al Pronto Soccorso, e se siete in Ancona capace che vi accoglierà Nadia, salutatemela, e con i terzi e quarti, specie se sono gemelli, neanche una volta, fate tutto da soli, manco foste Karev a Grey’s Anatomy, per altro, che cazzo vi è venuto in mente, amici di Sky, di mandare in onda la puntata della sua dipartita, scusate se spoilero senza preavviso, in piena pandemia?, siete impazziti?, per di più senza manco il doppiaggio, che leggere con le lacrime agli occhi è un casino?

Insomma, avete capito, il primo figlio occupa tutto lo spazio disponibile, il secondo se lo divide col primo, il terzo e il quarto, nel nostro caso assieme, si spartiscono il resto, relegando il figlio di mezzo in un angolo, dal quale uscirà a fatica da adolescente, esternando una contrapposizione per lui ingestibile col padre, che sarei io, lui quattordicenne ligio alle regole e all’ordine, io hooligan del West Ham appassionato di punk e famoso per la mia vena polemica, anche perché nel mentre la prima figlia, quella Lucia che dormiva sul mio petto, è diventata una adolescente, lo è diventata per altro prestissimo, credo anche a causa dell’arrivo dei gemelli, e una adolescente femmina è capace di occupare tutti gli spazi, peggio del fuoco che durante un incendio divampa in una stanza, stessi effetti devastanti, per altro, forse anche maggiori, lasciando ai gemelli il cinque per cento della nostra attenzione e tenendosi per sé il restante novantacinque percento, bye bye Tommaso, t’ha detto male.

Succede, tanto poi affettivamente, cito la mia amica Andrea Mirò, che proprio quando sono nati i gemelli ha portato in casa mia una marea di roba che aveva di sua figlia Eva, figlia sua e del suo compagno Enrico Ruggeri, inondandoci di vestiti e di materiali vari, come quei cuscini tondi che si usano per allattarli, perché i gemelli vanno allattati insieme, contemporaneamente, sia che li si allatti al seno, in caso con una mossa chiamata da giocatore di rugby, uno sotto un braccio, la testa a sbucare all’altezza del seno, uno sotto l’altro, idem, sia che li si allatti artificialmente, perché è meglio essere coinvolti in due che dover star lì tutto il giorno, allatta uno, allatta l’altra, cambia uno, cambia l’altra, non se ne verrebbe fuori, idem per dormire, Fai la nanna, dicevo, e non rompere il cazzo, aggiungo, tanto poi, cito la mia amica Andrea Mirò, appunto, l’amore per i figli non è come una fetta di torta, che se sei da solo te la puoi mangiare tutta, se siete in quattro avete una fetta a testa, no, l’amore per i figli è una nuova torta per ogni figli, perché l’attenzione e l’amore dei genitori si moltiplica, piccole bestie che non siete altro.

Comunque, così vanno le cose, e così andavano ai tempi in cui c’era solo Lucia, pensa te che giro immenso che ho fatto, sembro Antonello Venditti, perché è di quando Lucia è stata svezzata che voglio parlarvi, nel mentre eravamo tornati a Milano, nella nostra bella casa in via Tadino, zona Buenos Aires, un quarto piano senza ascensore composto di due stanze, ma enormi, settantacinque metri quadri, quarto piano senza ascensore che, siccome Lucia dormiva anche nel cosiddetto ovetto, quella sorta si seggiolino portatile che si può mettere in auto come sulle ruote del passeggino, mi vedeva compiere quotidianamente i quattro piani di scale con Lucia in braccio da una parte, la struttura delle ruote appoggiata all’altra spalla e via a salire. Ma non è neanche di questo che voglio parlarvi, all’epoca andavano così le cose, ero poco più che trentenne, avevo energie da spendere, ero aitante e anche snello, sia messo agli atti.

Quando abbiamo svezzato Lucia, che ha sempre mangiato poco, anche ora che va per i diciannove anni, e chissà se li festeggerà a casa a Milano in lock down, di nuovo il buco del culo nel quale non passerebbe uno spillo, io e Marina le provavamo di tutte per distrarla e indurla a aprire la bocca così, senza accorgersene. Le facce buffe, l’aeroplanino fatto col cucchiaio di gomma per non ferirle le gengive, le parole sceme con la voce scema con le quali ci si rivolge ai bambini, i balletti, poi un giorno, disperato, ho preso la mia amata chitarra acustica, la mia amatissima chitarra acustica, e ho iniziato a suonare e cantare Wish You Were Here dei Pink Floyd, gentilmente offerta dalla premiata ditta Roger Waters/ Davide Gilmour, e di colpo, lei, si è distratta e ha mangiato. Così, senza preavviso, ci sono io che faccio Wish You Were Here e c’è lei che mangia. Eureka, avevo trovato la chiave di volta, l’Eldorado, scoperto Atlantide.

Questo, ovviamente, ha generato una routine devastante, a ogni pappa io che dovevo suonare per mezzora, tanto ci metteva, la creatura, Wish You Were Here, in loop, se mi fermavo smetteva di mangiare, come Pavlov e i suoi cazzo di cani, al punto che non posso più sentirla, Wish You Were Here, senza provare un fastidio paragonabile, immagino, non a qualcuno che prova a ficcarti il già citato spillo nel culo, ma a qualcuno che ti ci ficca una cucitrice Singer, senza che me ne vogliano quelli che amano farsi ficcare cucitrici Singer o altri oggetti, animati o inanimati, preconfezionati o attaccati a un corpo vivo, nel culo, e al tempo stesso io non la riesca più a suonare neanche sotto tortura.

Non ci riesco, soprattutto, con quella mia amata, amatissima chitarra, perché qualche mese dopo, quando Lucia ha cominciato a muoversi con il girello per casa, nessuno dei nostri quattro figli ha gattonato, ma Lucia e Tommaso hanno molto usato il girello, Lucia andando all’indietro, prevalentemente, metafora che ancora oggi non sono riuscito a decifrare, quando Lucia ha cominciato a muoversi col girello per casa l’ha centrata in pieno, spezzandola alla base del manico, fatto che, Lucia era la mia adorata prima figlia, le dinamiche col tempo cambiano, ve lo ripeto da oltre diciottomila battute, mi ha indotto a uscire di casa, lasciandola con Marina, al fine di non compiere gesti inconsulti, mentre so bene che se lo avesse fatto uno dei gemelli lo avrei brutalizzato coram populo, sto ovviamente giocando coi soliti paradossi, assistente sociali sucate ancora. Da allora, per altro, nessuna chitarra è più entrata in casa mia, la mia collezione altrove, finché non abbiamo cambiato casa, da dove vi scrivo allora, uno studio capace di accoglierne almeno una senza correre simili rischi.

Wish You Were Here, quindi.

È da qui che volevo partire.

O qui che volevo arrivare, in realtà.

Wish You Were Here.

Sia che si amino i Pink Floyd, e fatico a capire come non li si possa amare, sia che ci stiano sul culo, e un po’ capisco anche questo, vedi tu che effetto mi fa la clausura, porco cazzo, credo che non ci sia nessuno di voi che non abbia almeno una volta usato questa espressione per far sapere a qualcuno che amiamo, cui comunque vogliamo bene, che lo avremmo voluto al nostro fianco. Un po’ perché citare i Pink Floyd fa figo, diciamolo, anche per chi a parte questa, di titolo, conosce solo The Wall, non l’album o il film di Alan Parker con BoB Geldof, non esageriamo, ma la canzone Another Brick in the Wall, per tutti The Wall tanto quanto Nel Blu Dipinto di Blu e Volare, un po’ perché in effetti quel titolo dice tutto, vorrei tu fossi qui, che altro dovremmo mai aggiungere?

Ecco, arrivato al cinquantunesimo giorno di clausura, e quindi al cinquantunesimo giorno di diario della quarantena, lo confesso, vorrei non essere qui.

Sì, vorrei essere altrove, in alcuni momenti, almeno per un po’, anche da solo, anche se solo a pensarci mi sento in colpa, ma sicuramente non vorrei essere qui.

Certo, non facciamo che dirci con Marina che fortunatamente abbiamo una casa che non ci fa pesare la quarantena, e so che a lamentarmi mentre c’è gente che vive in spazi angusti, disagevoli, scomodi e stretti, per non dire di chi invece che essere a casa è in ospedale o è morto, faccio peccato, ma a volte, sono umano anche io, stare qui, a Milano, con le ambulanze che passano di continuo, con quest’aria cupa che si respira guardando in strada, con Fontana e Gallera che hanno fatto danni irreparabili, laddove prima li aveva fatti il Celeste Formigoni, ma anche con Sala e Gori che non è che si siano mossi molto meglio, ma soprattutto qui, dentro queste mura, le stesse quattro mura senza un mondo intorno, rovescio la canzone dei Matia Bazar, mi pesa in maniera quasi ingestibile, sicuramente difficilmente sopportabile.

Poi ovviamente passa, perché in fondo siamo tutti sani, come sono sani i miei familiari in Ancona, e un mio caro amico è appena uscito dall’ospedale dove è stato intubato per settimane, non mi devo e non mi posso lamentare, ma in certi momenti mi sembra che davvero continuare così per chissà quanto altro tempo ancora non sia una strada percorribile.

In quei momenti, che più passano i giorni più capitano spesso, mi fermo, se capita a letto, e capita spesso a letto, perché fatico a dormire e la notte porta sempre cattivi pensieri, chiudo gli occhi e penso a quando, appena trentunenne, facevo dormire Lucia sul mio petto, addormentandola col battito del mio cuore e col mio respiro. A quel punto mi calmo. Così, di colpo. Poi basta che ripensi a me che suono Wish You Were Here mentre lei fatica a mangiare e tutto ricomincia da capo. Tanto di tempo da perdere ne abbiamo parecchio…