Pasqua con Brett Gurewitz

Ho bisogno delle sue schitarrate furiose come non mai. In questo periodo è per me necessario come pochi altri

Photo by Antje Naumann (AllSystemsRed)


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Alla fine è arrivata Pasqua. No, non è arrivata la Pasqua fuori dalla quarantena, questo lo sappiamo, ce lo hanno ripetuto ossessivamente, ce lo siamo ripetuti ossessivamente, seppur ormai anche quei pagliacci che ci guidano hanno capito che addossare tutta l’ipotetica colpa a noi, piuttosto che a loro, era un giochino che non solo non reggeva, ma alla lunga avrebbe indotto la medesima gente, noi, a scendere in piazza, metaforicamente e fisicamente, per reclamare i nostri diritti, quindi è arrivata proprio la Pasqua, ma siccome siamo persone dotate di buon senso e intorno a noi ancora imperversa il Coronavirus, è arrivata la Pasqua e basta.

Di domenica, almeno questo non è cambiato rispetto a prima.

È invece cambiato il detto, “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”, ma almeno nel mio caso, nel nostro caso, Pasqua è sempre stato con i nostri, inteso in famiglia.

Negli ultimi anni era costantemente anche nello stesso posto, a Monteleone, proprio in quel lodigiano che inizialmente sembrava essere il solo posto colpito dal virus e che poi si è dimostrato assai meno colpito di altre parti della Lombardia, credo, o almeno altrettanto colpito ma prima identificato come un focolaio e quindi isolato, Monteleone, dicevo, nella casa in campagna di nostro cognato Diego, o meglio, dei suoi genitori, Pino e Bruna, e la compagnia di giro era composta da loro, Pino e Bruna, appunto, dalla famiglia dei miei cognati, Michela, la sorella di Marina, Diego, suo marito, e i loro figli, Emma e Jacopo, da mia suocera, Franca, e da noi sei. Sia Pasqua che Pasquetta. A volte anche il primo maggio, ma non sempre. Lì si può mangiare all’aperto, o almeno in qualcosa di simile all’aperto, sotto un bersò, e poi c’è l’aia, dove si può giocare a ping pong, stare sdraiati a chiacchierare, complici abbondanza di sedie da sdraio di quelle che di solito si vedono al mare, si può andare a fare passeggiate per i campi, noi adulti a piedi, i piccoli in bicicletta, i piccolissimi di corsa. Quest’anno, ovviamente, niente di tutto questo. Siamo in casa, noi sette, e Dio grazie che siamo in sette, ripeto, sicuramente non ci possiamo lamentare della solitudine, non ne soffriamo affatto.

In passato, ma parlo di un passato lontano, quando i figli non c’erano, o erano davvero piccoli, prima della scuola, a Pasqua si andava in Ancona, approfittando dei pochi giorni di ferie, pochi ma sufficienti per dare un salto nella nostra terra, prima dei figli, nei primi due, tre anni, si tornava anche una volta ogni due, tre settimane, eravamo giovani, si poteva fare, si voleva fare, ma poi l’età è avanzata, non che io e Marina ci si senta vecchi, intendiamoci, ma fare certe corse contro il tempo ha cominciato a pesarci, o più semplicemente abbiamo iniziato a sentire casa nostra come casa nostra, e andare in Ancona in tempi di ponti, di vacanze, significa impiegarci qualcosa come un paio d’ore più del solito, da quattro, tante ce ne vorrebbero, circa, per coprire i quattrocentoventi chilometri che dividono le due città, se ci metti un qualche ingorgo, una sosta per cena all’autogrill, un tempo si partiva sempre quando Marina usciva dall’ufficio, e ci si fermava sempre all’autogrill dopo Bologna, a Castelsanpietro, davanti a dove un tempo, sempre quel tempo lì, c’era la Malaguti, ora qualcosa che ha a che fare con la robotica, il traffico di uscita di Milano e di entrata in Ancona, perché fa strano a dirsi, ma il traffico in Ancona è forse peggio di quello di Milano, con le dovute proporzioni, una urbanistica complicata, con poche vie d’accesso alla città, spesso martoriate dagli eventi, su tutti la famosa frana del 1983, quella che tutti possono vedere entrando in città in treno, quando poco prima di arrivare alla Stazione, in Ancona si trova subito prima del centro, si costeggia un tratto di mare che presenta sulla sinistra, parlo ovviamente per chi ci arriva da nord, come me, un continuo andirivieni di piccoli dossi, là dove un tempo c’era una bella spianata, un quartiere chiamato Frana Barducci, pensa te?, che improvvisamente, si fa per dire, una notte è franato, portandosi dietro il quartiere sovrastante, Posatora, il tutto così, a scivolare verso il mare, e ricordo quella notte fatta di black out, ero un ragazzino e quella zona non l’avevo mai frequentato, io vivevo in centro, di ambulanze che andavano avanti e dietro, abitavo proprio sopra la sede della Croce Gialla, la versione anconetana della Croce Rossa, corse non tanto per i morti, fortunatamente come per il terremoto del 1972 non ce ne furono, se non a causa di infarti, se non sbaglio un paio, ma per svuotare un intero ospedale, l’oncologico, che si trovava proprio lì sopra, un vero delirio, e se la sto a citare, la frana del 1983, è solo perché a pensarci ora, in piena emergenza Coronavirus, noi tutti murati vivi da ormai quarantotto giorni, i morti che a breve raggiungeranno quota ventimila, nonostante un rallentamento nella corsa, con relativo rallentamento nella corsa dei contagi e dei ricoveri, speriamo che Pasqua e soprattutto Pasquetta non riacutizzi il problema, noi tutti murati vivi da ormai quarantotto giorni a passare la Pasqua in casa, invece che a Monteleone, parlo per noi, o dove avreste voluto e potuto passare la Pasqua voi, con i vostri o con chi avreste voluto, è solo perché, a pensarci ora, forse anche quella, ma ognuno di noi, di voi, avrà mille altri esempi plausibili e buonissimi da fare, sarebbe potuta essere un monito a affrontare le vicende con un po’ più di avvedutezza, in quel caso prendere sul serio un posto che storicamente veniva chiamato “Frana Barducci”, evidentemente una zona franosa, e evitare di costruirci sopra un quartiere, a meno che, per dirla col mio amico Lasagna, al secolo Mirko Martiri ma per tutti Lasagna, o Gesù, visto che aveva questa faccia incorniciata da capelli e barba bionda, come l’iconografia occidentale di Gesù, in realtà, diciamolo apertamente, molto più probabilmente simile a me, Gesù, faccia incorniciata da capelli e barba nera, carnagione olivastra, parlo di quel periodo lì, in cui io e Lasagna ci frequentavamo, perché ora i capelli e la barba sono grigiastri, nel caso della barba tendente proprio al bianco, nel caso di Lasagna non saprei dire, non lo vedo da una vita, e se lo chiamavamo Lasagna, perché immagino ve lo state chiedendo, è perché a scuola, alle medie, si portava per merenda le lasagne, a volte, alto e grosso come era, una montagna, anche ottimo centravanti, quando giocava come me nel Piano San Lazzaro, lui titolare, io no, un bomber alla tedesca, di sfondamento, Lasagna, appunto, il gigante che mangiava lasagne per merenda, a scuola, e tanto bastò per affibbiargli un soprannome che, però, a memoria, non lo infastidiva affatto, come invece capita a volte coi soprannomi, vi ho detto di Cippo e Puccio, comunque, a meno che, per dirla col mio amico di allora Lasagna, uno non avesse voluto andare direttamente con la casa al mare, passando quindi dal quartiere collinare di Posatora a quello decisamente più balneare della Palombella, quartiere di ingresso cittadino, a pochi passi dalla stazione, fatta eccezione per i quartieri di Torrette, quello dove al momento sorge il gigantesco ospedale Regionale, e quello di Collemarino, il nostro Bronx, entrambi più a nord, uno verso il vettore che porta all’autostrada, l’altro lungo la statale, confinante con Palombina, posto di mare indegno dove le nonne portano i nipoti a giocare con la sabbia, la sabbia!!!, e poi Falconara, che per intendersi è il posto dove sorge l’Api, la gigantesca raffineria di petrolio dentro la quale si passa col treno, sempre arrivando da nord, che idea suggestiva far passare la ferrovia dentro una raffineria di petrolio, a sua volta a ridosso di una città con quarantamila abitanti circa,  passando quindi dal quartiere collinare di Posatora a quello decisamente più balneare della Palombella, quartiere di ingresso cittadino, quello nel quale soggiorno quando sto in Ancona, nella casa natale di mia moglie Marina, quella di mia suocera, detto en passant, quartiere chiamato la Piccola Stalingrado, per quel suo essere popolare e abitato, conseguentemente, da un nutrito numero di comunisti, quando i comunisti esistevano e infoltivano le loro fila soprattutto nei quartieri popolari, citato proprio in esergo del mio romanzo di esordio, Questa volta il fuoco, recentemente tornato in libreria nella trilogia Avrei voluto tutto, piccolo spazio pubblicità, insieme ai romanzi Anime @ losanghe e Una notte lunga abbastanza, tutti e tre incentrati sulle vicende di un personaggio, mio alter ego, e il suo gruppo di amici, tra gli altri lo stesso Lasagna, citato proprio in esergo del mio romanzo d’esordio, Questa volta il fuoco, perché è da lì che era partita quella manifestazione di un milione  e mezzo di persone a Roma, novembre 1994, contro il governo Berlusconi, la prima grande manifestazione della mia generazione, seconda se si conta anche il 25 aprile milanese, cui però non avevo partecipato, e la manifestazione era partita da lì nel senso che da lì era partito il treno che aveva traghettato noi, me, Marina, Lasagna e gli altri, anche Roberto, anima con me di quegli Epicentro che mi sono più volte trovato a raccontare, anche nel romanzo Anime @ Losanghe, a Roma, dove poi si era svolta la manifestazione, anche se il romanzo è appunto un romanzo, non una cronaca, pura finzione, pura finzione, quella di Questa volta il fuoco e di Anime @ losanghe, che ai tempi mi fece litigare con mezzo mondo, il mio mezzo mondo, questo mio entrare e uscire dal mio vissuto per fare fiction all’epoca assolutamente incomprensibile a tutti, forse anche oggi, si trattasse della mia amica Raffaella, che si offese perché nel romanzo Questa volta il fuoco parlavo in maniera non esattamente politicamente corretta delle forze dell’ordine, non voglio spoilerare la trama, visto mai che qualcuno volesse prendersi proprio Avrei voluto tutto?, e lei si era da poco fidanzata con un poliziotto, o si trattasse dei ragazzi degli Epicentro, Roberto in testa, offesi per certe mie distorsioni nella storia della band, ma allora come oggi, credo di averlo ripetuto allo sfinimento, non è certo il raccontare i fatti per come sono avvenuti che mi interessa, anche quando scrivo di fatti inerenti alla cronaca musicale, ma il provare a raccontare la verità, e nel caso specifico non era certo la verità degli Epicentro l’oggetto del mio narrare, distorcevo anche la mia storia, quella della mia famiglia, quella di Marina, all’epoca mia fidanzata oggi mia moglie e madre dei miei quattro figli, figuriamoci, ma la mia e la relativa mia visione della vita di provincia, gli Epicentro a fare da chiave con cui aprire quello scrigno pieno di orrori, comunque mi sto ancora una volta perdendo, succede sempre più spesso, ultimamente, quindi mi fermo e riparto, senza andare a ripescare il bandolo, non serve, questo è un diario che vuole raccontare la quarantena, bandoli persi per strada compreso.

Riparto, e ovviamente potrei anche dirvi che non è vero che io abbia perso il bandolo, ma che questo mio raccontare di me che perdo il bandolo, succede abbastanza spesso, come dicevo, ultimamente, è un modo per simulare uno stato d’animo ondivago, il mio, il vostro, come a voler mimetizzare la mia scrittura, che come ho detto altrove, è e rimane scrittura, la vita quotidiana, ma in questo caso, vai a capire se dico il vero, è andata proprio così, considerate che la nota a margine dei due romanzi di cui parlavo sopra, Questa volta il fuoco e Anime @ losanghe, recitavano qualcosa come “ogni frase contenuta in questo libro è falsa, compresa questa”, una roba del genere, non ho voglia di andare a ripescare il libro, lì in libreria.

Comunque, dicevo, un tempo io e Marina andavamo per Pasqua in Ancona, per ritrovare i nostri cari, parenti e amici, poi col tempo passare parte di quelle ore di ferie, le sue, io ho sempre avuto lavori senza orari troppo fissi, tranne i primi tempi passati a Milano, quando lavoravo a Eurisko, chiamando nelle case per sapere che sapone usaste, liquido o le saponette, per chi avreste votato, quelle robe lì, poi col tempo passare parte di quelle ore di ferie, le sue, in auto, ha cominciato a pesarci, per non dire di adesso, che solo a caricare le valige per sei è una impresa epica, figuriamoci farle, le valige per sei, compito di Marina, fare le valige per cinque, la mia parte la faccio io, e mio, il caricarle, come poi guidare, perché anche Marina ha la patente, ma è andata così, guido sempre io, e viaggiare di notte, col buio, mi risulta difficile, ricordo ancora quando, una decina di anni fa, dopo aver provato a tenermi sveglio come sempre lasciando i finestrini abbassati durante un viaggio notturno, Marina, Lucia e Tommaso, i gemelli ancora non c’erano, che dormivano, dopo essermi tirato la barba per procurarmi dolore capace di scaricare endorfine, pensa te come ero messo, dopo aver preso due, tre caffè in due, tre autogrill, ci fosse mai stato uno che, come da spot della Società Autostrade, in effetti te lo regalasse, il caffè, dopo l’aria, la barba tirata, i caffè, sono entrato nel tunnel della Redbull, bevanda dal sapore paragonabile, credo, alla merda liquefatta, forse un po’ peggio, ma capace in effetti di tenerti sveglio, stanco ma sveglio, sveglissimo, coi sensi tutti eccitati, tipo Spiderman quando sente un nemico che si avvicina a distanza di centinaia di metri, tu lì a guidare che senti uno che ha messo la freccia dietro di te, il tic e tac nonostante i finestrini chiusi e la radio accesa, sveglissimo, non a caso la usano nei rave party, la usavano nei rave party, perché ora non se ne fanno, tutti murati vivi a casa, e in effetti anche prima del Coronavirus non so se si facessero più, da tempo scomparsi dalle pagine di cronaca, spesso cronaca nera, ultima volta che ricordo di averne sentito parlare era per un rave organizzato sul Monte Conero, quello sul quale vorrei seppellissero il mio cuore, quando sarà il momento, già sapete, idea geniale, organizzare un rave illegale, i rave sono illegali, sul Monte Conero, se si tiene conto che sul Monte Conero c’è una base militare, e si dice anche una base della Nato, le gallerie scavate fronte mare dal quale, vuole sempre la credenza popolare, escono a volte piccoli aerei americani, oggetto a loro volta di un’altra credenza popolare, quella che vuole il Monte Conero come una delle zone migliori in cui avvistare UFO, ci sono spesso ritrovamenti di appassionati di UFO, parlo sempre di quando era possibile fare ritrovamenti, oggi chiamati con quella brutta parola, assembramenti, talmente brutta che molti la scrivono con la elle, assemblamenti, immagino partendo dalla parola assemblea, comunque sarebbero gli aerei della Nato che partono dalle gallerie nascoste sul fronte mare del Monte Conero a essere confusi per UFO, la gente lì a guardare col naso in su quelle strane luci in cielo, in passato ho raccontato di come fosse convinto di averli visti anche mio zio Rodolfo, il pittore Rodolfo Gentili, con sua moglie Renata, al punto che quegli UFO finiranno in tutti i suoi quadri, così, con discrezione, delle luci in cielo nelle scene marinare ambientate nella sua Porto Recanati, sua in quanto città scelta dove vivere, perché lui era di Macerata, o nelle scene di vita campestre, le dolci colline marchigiane, non saprei dire se è più credibile che quelle luci siano aerei della Nato, piccolissimi aerei della Nato, sbucati da gallerie nascoste sul monte, un po’ come quelle dalle quali usciva Batman a Gotham, immagino nascoste da frasche o finte pareti di lavagna, il Monte Conero è pieno di pareti di lavagna e frasche, o sia più credibile la versione degli ufologi, versione per altro suffragata dal fatto che Osimo e la sua campagna, lì a due passi dal Conero, alle sue spalle, se si guarda il Conero dal mare, magari provando a scorgere da qualche parte queste benedette gallerie nascoste, sia uno dei posti in Italia e credo nel mondo in cui sono apparsi più spesso i così detti “cerchi sul grano”, oggetto, per dire, di un film con Mel Gibson e Joaquin Phoenix, oggi per tutti il Joker, Batman che ricorre come un inquietante filo rosso queste mie pagine, film dal titolo Signs, del regista M. Night Shyamalan, film anche bruttino, va detto, M. Night Shyamalan, quello anche de Il sesto senso e soprattutto di Unbreakable, The Village e Lady in the Water, film che ho letteralmente adorato e che ancora adoro, e non pochi, in questi giorni di clausura forzata, di quarantena imposta dall’alto, e si intenda dall’alto come meglio si crede, dal governo, dal destino o forse da Dio stesso, hanno ravvisato in tutto questo nostro essere costretti a stare a casa qualcosa di non troppo diverso dalla trama di The Village, ve la spoliero in poche parole, se non lo avete già visto non meritate cortesie da me, capre, la trama di The Village, quindi, un villaggio nella Pennsylvania del XIX secolo, rintanato dentro il perimetro di uno steccato, mostri crudeli e feroci a circondare i boschi tutto intorno, boschi attraversati a un certo punto dalla protagonista, la stessa per altro di Lady in the Water, la disturbante, essendo una donna dovrei dire conturbante, ma proprio di disturbo e inquietudine si tratta, Bryce Dallas Howard, figlia di quel Ron Howard oggi regista di grandi blockbuster, guarda te che parola vintage che sono andato a ripescare, e un tempo Ricky Cunningham del già citato, in queste pagine di diario decameroniano, domani proprio tocchiamo il cinquantesimo capitolo, santo Dio, Happy Days, il passaggio da sfigato a popstar è lì, dietro l’angolo, lei, Ivy Walker il nome del suo personaggio, cieca, per ragioni che non vi sto a raccontare, non è The Village l’oggetto di questo mio parlarvi a vanvera, oggi, esce dal villaggio, diretta oltre i boschi, per cercare cure per il suo fidanzato, ferito da un rivale, a rischio di essere sbranata dai mostri che tengono tutti gli abitanti sotto scacco, terrorizzati alla sola idea di uscirne, impossibilitati di vestirsi di rosso, per non attirare la loro attenzione, e, per farla breve, una volta uscita miracolosamente illesa dal bosco, complice la sua cecità,  scoprirà che lei e i suoi compaesani non vivono nella Pennsylvania del XIX secolo, ma dentro una comune di pazzi del XX secolo, e che il villaggio, le creature mostruose che la circondano e tutta la leggendaria epica che da sempre tiene tutti sotto scacco, altro non è che il tentativo ordito per tenere le famiglie che quella comune compongono al riparo dai rischi della vita contemporanea, e già che ci sono dico anche che nel Sesto senso Bruce Willis è in realtà morto e che Kaiser Sose è Kevin Spacey, ma se vi ho citato The Village come ipotetica matrice della situazione che stiamo vivendo non è perché io creda alla tesi che vuole che noi ce ne stiamo da tempo isolati, terrorizzati, perché qualcuno così vuole, e che in realtà il Coronavirus altro non è che una brutta influenza che avrebbe dato il la a qualche fantomatico governante del mondo di tenerci in scacco, tesi e terrorizzati, quindi facilmente governabili per secondi fini, vai a sapere quali, tesi che appunto ha girato al pari di chi pensa che dietro ci sia Big Pharma o Bill Gates, sono dotato di intelletto e sono anche moderatamente capace di utilizzarlo, quanto perché mi sembra suggestivo indicare un film, che appunto è un film, come ipotetica matrice capace di cristallizzare l’attualità, lì alla fine l’inganno viene scoperto, non è mica come con Contagion di Soderbergh, in effetti assai più simile alla contingenza, dove il finale non è dei più entusiasmanti, io conosco amici che sono in ospedale intubati da settimane, conosco amici a cui sono morti cari, poco più di un’influenza una sega, per essere chiari, Sharon Stone usa uno stiletto di ghiaccio per uccidere in Basic Instinct, e no, non aveva le mutande nella famosa scena in cui ha accavallato le gambe.

Comunque, dicevo, un tempo io e Marina andavamo per Pasqua in Ancona, per ritrovare i nostri cari, parenti e amici, poi col tempo abbiamo deciso di non farlo più. Abbiamo diradato le nostre discese, parlo come se l’essere più a sud significasse essere al fondo di una discesa, nordcentrico, andiamo giù per le vacanze di Natale, sempre, mai saltata una, e per le vacanze estive, anche se da che i gemelli sono cresciuti e abbiamo venduto la casa di Vasto andiamo anche in vacanza da qualche altra parte, nel senso, non passiamo tutte le vacanze tra Ancona e Vasto, quando siamo in Ancona andiamo al mare in prevalenza sul Conero, Portonovo, Marcelli, Sirolo, Numana.

Per questo motivo, per il nostro andare a Natale e d’estate in Ancona, i figli in genere vanno giù assai prima di noi, passando alcune settimane con mia suocera, sempre lei, a volte da soli con mia suocera, a volte con anche i cugini, motivo per cui in passato, quando avevo una maggiore libertà di lavorare in remoto, passavo parte di quelle settimane anche io lì, per portare al mare tutti, ho sempre avuto auto grandi, da sette posti, non sto ovviamente a specificarvi perché, vi stimo, in fondo, ora molto meno di prima, perché tra radio, tv e necessità di essere intorno a Milano mentre lavoro meno, questo fatto di scendere sempre per le vacanze di Natale e d’estate in Ancona, ha fatto sì che questi giorni di convivenza forzata nella nostra casa di Milano, casa nella quale abitiamo da neanche due anni, per la cronaca, rappresenta un unicum nella nostra vita familiare. Mai siamo stati così tanti giorni in casa, è ovvio, questo vale per tutti, ma per noi vale anche di più, perché in genere quando si sta in casa, penso alle vacanze di Natale, certo potendo uscire, ma comunque non con la necessità di andare a scuola, i figli, o al lavoro, non siamo qui a Milano, siamo appunto in Ancona o in qualche posto che abbiamo deciso di visitare, a Natale sempre in Ancona. Solo io passo così tanto tempo in casa, in genere, e del resto anche in questi giorni sono il solo che esca, una volta alla settimana.

Questa è comunque, a memoria, la nostra prima Pasqua a Milano, e è senz’altro la nostra prima Pasqua in famiglia, intendendo con questo non che le altre volte lo abbiamo passato sparsi in giro, ognuno per sé, mai successo, ma che è la prima volta che siamo solo noi, senza la famiglia dei miei cognati.

Forse sono riuscito a spiegarlo, andando a perdermi in ricordi del passato remoto e del passato prossimo, ma passare Pasqua in casa è davvero strano, perché quarantanove giorni sono quarantanove giorni, perché Pasqua arriva appunto alla fine di un periodo di penitenza, reale o metaforico, fate voi, di quaranta giorni, e noi i nostri quaranta giorni di penitenza li abbiamo passati, perché, infine, ma forse potrei andare ancora avanti non ci fosse questa stupida regola non scritta che quando apri incisi ne devi aprire per forza tre, fatto che non vale per le relative, dove buon senso editoriale metterebbe un limite a sette ma a me dei limiti editoriali, lo avrete immagino intuito, non frega nulla, perché  al momento nessuno di noi ha ben chiaro quando arriverà questa benedetta resurrezione, metafora scelta non a caso anche dal buffone per indicare una rinascita che, parlo per me ma credo non solo per me, al momento è inimmaginabile, al massimo si può parlare di ricrescita, intendendo quella dei capelli sotto la tinta.

Mentre quindi l’aria tiepida di aprile si riempie del solito suono delle ambulanze, laddove iconograficamente dovrebbero essere suoni di campana e cinguettii di uccellini, non posso che chiudere questo quarantanovesimo capitolo del mio personale Decameron, giuro che se dovessimo superare i cento giorni di clausura, arrivati al centesimo giorno mi fermo, che a tutto c’è un limite, anche alla mia forza di volontà, mentre l’aria tiepida di aprile si riempie del solito suono delle ambulanze non posso che andare presso l’armadio che raccoglie buona parte della mia grande collezione di cd, sfioriamo quota diecimila, cercando in quello strano ordine che ho io di suddividerli, per generi, prima, e in ordine alfabetico, poi, la discografia dei Bad Religion, band seminale dell’hardcore americano che, a dispetto del nome apparentemente blasfemo, oggi, ha davvero molto da dirci e da dirmi oggi. Le loro canzoni cortissime, struggentemente melodiche, con testi forbiti, carichi di parole e di sottotesti mi sono infatti oggi necessarie per liberare la testa dai cattivi pensieri, e mi perdoneranno i vicini, che del resto ci stanno abituando ai loro suoni molesti, suoni molesti che per me molesti non sono affatto, anzi, sono segni che esiste una vita al di fuori dei suoni delle ambulanze, appunto, il mondo che scorre fuori dal bosco del Villaggio di M. Night Shyamalan.

Non ho molti dubbi su che album scegliere, non perché i Bad Religion abbiano sfornato pochi lavori degni di nota, direi che tutto quello che hanno fatto è degnissimo di nota, fondamentale, addirittura, ma è delle canzoni della tetralogia Suffer, No Control, Against the Grain e Generator che ho bisogno, un bisogno fisico, chi ama la musica mi potrà ben capire. Ho bisogno delle schitarrate furiose di Brett Gurewitz, personaggio per la mia formazione culturale necessario come pochi altri, in musica Grant Hart, Ian Brown, Jello Biafra, Henry Rollins, Perry Farrell e pochi altri, in letteratura, beh, i nomi degli scrittori necessari alla mia formazione culturale ve li dico un’altra volta, ho bisogno delle schitarrate furiose di Brett Gurewitz e Greg Hetson, della voce di Greg Graffin, della sezione ritmica di Jan Bentley e Bobby Schayer. Ho bisogno di quei pochi secondi per loro sufficienti per tirare su una linea melodica capace di entrarti nelle vene, sufficiente anche per costruirci su una storia da raccontare, una tesi da sviluppare, una suggestione da farci arrivare poeticamente. Pochi secondi, meno di un minuto, spesso, capaci di cacciare via, almeno al momento, quarantanove giorni passati dentro queste mura. Auguri.