Una canzone per scacciare il nervosismo? Paper in Fire di John Mellencamp

In questo periodo di convivenza forzata, la musica può aiutarci tanto a mantenere la calma

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Mia moglie Marina mi considera una persona estremamente nervosa. Non credo  ritenga sia la mia caratteristica primaria, stiamo insieme da trentadue anni e non credo di poter dire che sia una “feticista del nervosismo”, sempre che esista questo tipo di feticismo, ma sicuramente se qualcuno gli dovesse chiedere se sono nervoso risponderebbe perentoria di sì.

Nostro figlio Francesco, otto anni, è molto nervoso, questo lo posso dire col giusto distacco misto a padre di figlio maschio, parlo in generale, non con riferimento a questi giorni, è nervoso sin dalla nascita, al punto che mia moglie Marina, ma non solo lei, ripete come un mantra che questa caratteristica è quel che ha ereditato da me, come certi tratti somatici e una certa tendenza a mettersi in evidenza, gigionesca, direi io, pensando anche a e, seppur, almeno per i tratti somatici, mia suocera è convinta che per quel che riguarda la somiglianza fisica, c’è un certo cugino di terzo grado di suo zio che sicuramente gli somiglierà di più, non sia mai che qualche tratto genetico e fisiognomico arrivi anche da parte del padre.

Comunque, questo il ragionamento, basilare e basico, io sono nervoso, Francesco è nervoso, siamo due gocce d’acqua.

Poco conta che quando io avessi l’età di Francesco ero un bambino tutt’altro che nervoso e agitato, lui è uguale al me stesso adulto, divenuto forse nervoso, non sarei poi così convinto di esserlo così tanto, per tutto quel che la vita mi ha posto di fronte in questi miei primi cinquant’anni, strano a questo punto che Francesco non abbia capelli bianchi come i miei e la mia stessa barba, butterei sul tavolo della discussione, se discussione seria fosse.

Vi racconto un aneddoto, così che il famoso nervosismo di Francesco vi sia chiaro.

Quando i gemelli avevano neanche due anni, nell’estate del 2013, io e i nostri quattro figli siamo andati una settimana a Vasto senza Marina. Vi ho già raccontato di come Vasto sia la città natale di mia suocera, e di quel cugino di zii di cui sopra, e lì fino a pochi anni fa avevano, avevamo, una casa nella quale andavamo a passare le vacanze, io, Marina e i figli, con mia suocera, molto meno mia cognata e la sua famiglia, perché mio cognato è di Milano e ha sempre legato poco con quella casa e quella terra.

C’erano con noi i miei genitori, per dare una mano con la gestione della casa, ma non c’era Marina, rimasta a Milano a lavorare, era fine luglio. Tutte le mattine, quindi, prendevo e portavo tutti e quattro i figli al mare, a Vasto Marina, la famosa spiaggia larga oltre duecento metri di sabbia fina, e sia messo agli atti che a me la sabbia, non quella di Vasto ma proprio la sabbia in generale, mi fa profondamente cagare, fatico anche a considerare mare quello con la sabbia, intendiamoci, figuriamoci a farmelo piacere, ma le creature lì potevano giocare, vorrai mai che le creature non giochino?

Tutti i giorni. Io e i quattro figli al mare, in spiaggia, con la sabbia.

Scendevamo presto, perché se no non avrei trovato parcheggio, stavamo lì tutta la mattina e verso mezzogiorno tornavamo su, il tempo di fare le docce, i gemelli non avevano neanche due anni, ricordo, quindi Tommaso ne aveva sette appena compiuti e Lucia undici da compiere di lì a pochi giorni, almeno i gemelli avevano bisogno che la doccia gliela facessi io, e agli altri davo una mano, o quantomeno tenevo i tempi, e poi si pranzava, sotto lo sguardo sbigottito dei miei, che immagino si sorprendessero non poco del mio pragmatismo, abituati ai maschi della mia famiglia non altrettanto smart nel gestire la figliolanza.

Ma non è della gestione del concetto di pater familias da parte mia o dei miei che voglio parlarvi, quanto del nostro andare al mare, mio e dei miei figli.

La mattina arrivavo verso le otto e tre quarti nel solito posto, subito dopo la prima discesa che porta a Vasto Marina se si scende da Shangai, lo dico per i vastesi all’ascolto, proprio davanti alla statua della bagnante, quella specie di sirenetta in salsa abruzzese.

Ci accomodavamo con il nostro ombrellone e poi passavamo la mattinata al bagnasciuga, del resto quello offre Vasto Marina, tipica spiaggia di sabbia dove per andare a fare il bagno dove non tocchi devi arrivare a piedi a qualche centinaio di metri dalla riva, tipo in Croazia, forse anche oltre.

Ma non è neanche del mare di Vasto che voglio parlarvi, quando avevamo ancora casa da quelle parti avevamo modo di scegliere e andavamo con assai più piacere in altri lidi, da Punta Penna a Punta Aderci, o in una delle callette tipo San Nicola, ma da solo con quattro bambini piccoli non avevo scelta, Vasto Marina.

Chiaramente, andare tutti i giorni in un determinato posto, anche se si tratta solo di una settimana, crea una sorta di appartenenza, di identificazione con una microcomunità, quella che va al mare tutti i giorni nello stesso posto. Non a caso, già al termine della prima mattinata, ci si saluta tra vicini, al secondo si passa a due chiacchiere, nel mio caso no, perché con quattro figli da seguire, è davvero dura, a fine settimana, parlo di condizioni normali, si è lì a darsi pacche sulle spalle bruciate dal sole, a promettersi future cene che, lo sappiamo benissimo tutti, non avranno mai luogo una volta tornati alla nostra vita di tutti i giorni, si è parte di una microcomunità, appunto.

Nella microcomunità davanti allo scoglio della bagnante, lì a Vasto Marina, per quella settimana, io sono stato il vedovo, credo, o il cornuto, perché un padre con quattro figli, di cui due di neanche due anni, è assolutamente inammissibili, in termini sociali, quindi ci deve essere una qualche spiegazione altra, la vedovanza, appunto, o le corna.

Intendiamoci, nessuno me lo ha chiesto o me lo ha fatto capire, siamo tutti persone di tatto, ma suppongo che questa informazione fosse lì, non detta ma percepita, e con questo non voglio certo star a dire che i vastesi o quelli che frequentano le spiagge vastesi, c’era una famiglia che tutti i giorni arrivava lì da Casoria, giuro, attraversando quel tratto d’Italia pur di non far bagnare i propri figli sul Tirreno, non voglio certo star a dire che i vastesi o quelli che frequentano le spiagge vastesi siano arretrati, che, cioè, non possano pensare a una figura di padre moderno, che lascia la moglie al lavoro in città e se ne va al mare coi figli, non è questo il punto, o magari sì, parlo di percezione veloce, a pelle, vedi un padre di quaranta anni e poco più al mare con quattro figli, smart ma pur sempre un filo impacciato, e subito ti viene da pensare che ci sia stata una causa scatenante in qualche modo tragica, non può essere semplicemente un padre in vacanza coi suoi quattro figli piccoli.

Magari esagero, sia chiaro, magari sotto sotto c’è un minimo di pregiudizio, anche se avendo io frequentato Vasto per ventinove anni, la prima volta nell’estate del 1988, poco dopo che io e Marina ci eravamo messi insieme, i suoi nonni ancora entrambi vivi a abitare la casa che poi sarebbe stata la casa che avremmo a lungo frequentato, specie dopo la nascita dei gemelli, avendo quindi io frequentato Vasto per ventinove anni, più che pregiudizi dovrei parlare di giudizi, e non mi sento mica di lasciarmi andare a giudizi di tal fatta nei confronti di Vasto e dei vastesi, preferisco parlare appunto di sensazioni e la sensazione che provavo in quei giorni, in quella settimana, era che appunto la gente mi guardasse con compassione, solidale, certo, ma pur sempre compassione, come a dire, “povero Cristo, guardalo lì coi suoi quattro figli”, niente pregiudizi campanalistici, ripeto.

A riprova di questo, ma magari, invece, è solo senso di ospitalità, e su questo non ho davvero paura di espormi, ogni mattina c’era chi mi portava la merenda per i bambini, nonostante io ne portassi di mie, o qualche regalino per le creature, così come, se a un certo punto uno dei figli si allontanava, ecco lì tutti pronti a dirmi, “vada, vada pure, li guardiamo noi”. A un certo punto una signora mi ha pure portato un barattolo di miele di quelli grossissimi, ci sarà stato dentro almeno un kg di miele delle sue api, così, per gentilezza tra vicini, seppur vicini di ombrellone.

Non sto a dirvi la faccia che hanno fatto tutti il primo giorno che ci siamo affacciati a Vasto Marina dopo l’arrivo di mia moglie Marina, una settimana dopo, quando, cioè, tutti hanno preso coscienza che non ero né vedovo né cornuto, a meno che io non fossi quei mariti che sanno perdonare, ma più semplicemente uno che era sceso al mare una settimana prima della moglie, scostumata lì a lavorare in città mentre il marito era al mare con quattro figli di cui due piccolissimi, facce talmente sbigottite che poi abbiamo optato per non andare più a Vasto Marina, per quell’estate (e qui sto esagerando davvero, ovviamente, perché è vero che non ci siamo più tornati, ma solo perché, come detto sopra, ci piace di più altro tipo di spiagge, più selvagge).

Sia come sia, prima che Marina scendesse, una mattina, mi si avvicina una signora che tutte le mattine arrivava in zona dall’entroterra abruzzese, dalle parti della Maiella, vado a memoria, mi avrebbe raccontato di lì a poco, dopo aver forzato la mia nota ritrosia a parlare con sconosciuti, uno mica lavora sulla propria immagine di orso asociale per niente, Ida, il suo nome.

La signora mi si avvicina per chiedermi se Francesco e Chiara, un anno e dieci mesi, fossero gemelli. Grazie al cazzo, penserà qualcuno, ma tocca forse dare dettagli che spieghino il perché di questa domanda. I gemelli omozigoti, quelli cioè che nascono da due sacche diverse, sono sì gemelli, perché nascono nel medesimo giorno dal medesimo parto, ma tecnicamente sono da considerarsi fratelli, perché, per capirsi, non hanno lo stesso DNA. Potrebbero addirittura essere frutto di due differenti concepimenti, ma non entriamo nei tecnicismi. Sono gemelli ma sono in realtà fratelli, questo il punto. Non sono quindi uguali, e fin qui, ancora una volta, e grazie al cazzo, Francesco e Chiara sono maschio e femmina, ma un grazie al cazzo contenuto, perché voi non potete sapere le volte che ci è stato chiesto, a me e Marina, se sono omozigoti o monozigoti, magari più per far sapere che si conoscono, poco direi, quei termini, che per reale conoscenza del mondo dei gemelli.

Francesco e Chiara sono gemelli, quindi, ma sono anche fratelli, e hanno tra loro lo stesso tipo di somiglianza che possono avere due fratelli, fratello e sorella, nello specifico.

Per dire, io, mio fratello Marco e mia sorella Caterina, ci somigliamo davvero poco. O almeno, io non somiglio affatto loro. Io sono riccio di capelli, loro hanno i capelli lisci, io ho il viso affilato, loro tondeggiante, mio fratello ha  gli occhi verdi, io e mia sorella Caterina marroni, io sono più alto di loro, e potrei andare avanti a lungo.

Idem i gemelli.

Sono gemelli, ma sono fratello e sorella, e a parte l’essere entrambi ricci, una bionda e l’altro moro, non è che si somiglino tanto. Poi, intendiamoci, qui si apre il solito dibattito, perché c’è chi dice che siano uguali, e c’è chi dice il contrario, ma non è questo il punto, di sapere se pensate che si somiglino o meno, onestamente, mi fregava poco in tempo di pace, figuriamoci ora.

Quando erano piccoli, questo lo posso affermare con perizia scientifica, erano piuttosto diversi fisicamente, Francesco un po’ più alto e un po’ più grandicello come corporatura, un maschio avrebbero detto nella spiaggia di Vasto Marina (si scherza, eh), lei più minuta, seppur tondetta come lui, ora è esattamente il contrario, a volte, vedi, la vita. A occhio, per chi non li conoscesse, sarebbero anche potuti essere fratello e sorella con un anno di differenza, quindi io sarei stato il vedovo o cornuto di una madre che aveva messo al mondo quattro figli in quattro parti, così, nota a margine.

Ida, però, è di lei che vi stavo raccontando, mi si avvicina una mattina di quella settimana passata in solitaria coi bambini a Vasto e mi chiede se Francesco e Chiara sono gemelli. Non dice, ovviamente, “Francesco e Chiara sono gemelli,” non sa i loro nomi e, per ragioni che col tempo hanno dato vita a un fraintendimento, Francesco è stato chiamato Ciccio per tutti i primi suoi anni di vita, in realtà una presa per il culo del milanesissimo modo di chiamare gli altri, “Ciccio”, modo che io e il mio amico fraterno Luca Del Pia, fotografo col quale ho lavorato gomito a gomito per tutti gli anni di Tutto Musica, usavamo per chiamarci a vicenda, “Ciccio”, e che abbiamo adottato per chiamare Francesco, fin quando, a un certo punto, abbiamo optato per tornare a chiamarlo Francesco, perché ben sappiamo che un soprannome che parte da casa rischia poi di rimanere attaccato addosso a chi ne è oggetto, o vittima, per tutta la vita, e Ciccio fa sì ridere, ma non è esattamente il nome che avevamo scelto per lui.

A proposito dei soprannomi, poi giuro che torno a Ida, lì a bagnomaria sulla spiaggia di Vasto Marina, una calda mattina di fine luglio del 2013, sappiate che quando ho frequentato il primo anno del ginnasio, che poi sarebbe la quarta ginnasio, in classe nostra eravamo davvero pochi alunni, tredici. Alcuni di questi tredici si conoscevano tra loro, provenendo dalla medesima scuola media. Io non conoscevo nessuno, ma sono un essere socievole, nonostante l’immaginario da orso asociale di cui sopra, non è stato un problema ambientarmi. Uno dei miei compagni di classe con cui ho più legato è Emmanuele, ora professore di Sociologia all’Università di Macerata. Emmanuele, con la doppia emme come Kant, ci teneva sempre a dire, ci spiegò che un altro nostro compagno di classe, di cui non farò nome per la legge sulla privacy, essendo ora un medico, era stato soprannominato alle medie “Cippo”, a causa di un suo bizzarro ripetere sempre “Cippo cippo cippo”, come una sorta di verso animale o di mantra bislacco. Di lì a qualche giorno, quindi, il nostro compagno di classe, per altro presentato da tutti i professori come una sorta di genio, vedi a volte come si invoglia al bullismo, lui che era anche un anno avanti seppur nato il primo giugno, quindi esattamente due anni prima di me, che avendo cambiato scuola dopo aver frequentato per un anno ragioneria, promosso ma del tutto convinto di aver sbagliato scuola, ero un anno indietro, di lì a qualche giorno, quindi, il nostro compagno di classe diventò per tutti Cippo, soprannome che attecchì con la velocità di un virus, lasciatemi la libertà di usare una metafora di cattivo gusto.

Ora, immagino che per chiunque, sentirsi chiamare Cippo, non sia esattamente gratificante, tanto più se già hai passato i tre anni delle scuole medie con quel nomignolo attaccato addosso. Come dire, magari Cippo aveva sperato in una ripartenza senza quel soprannome, e invece eccolo ancora lì, Cippo per tutti. Così un giorno, contravvenendo a una flemma che tutt’ora lo caratterizza, Cippo sbrocca, e urlando come un pazzo dice che non vuole più essere chiamato Cippo, che Cippo è un brutto soprannome e che lui ha un suo nome di battesimo.

Emmanuele, colui che aveva subdolamente introdotto in classe la nozione del concetto di Cippo, lo guarda, Cippo ancora agitato per quel suo essere stato chiamato Cippo per mesi anche lì, al ginnasio, e lo rassicura.

Hai ragione, non ti chiameremo più Cippo,” dice, “da oggi sarai Puccio”.

Il termine Puccio, a mo di didascalia, derivava da Fantozzi e da quel Puccettone con cui Calboni era solito chiamare il ragionier Ugo, facendogli ganascina.

Da quel momento, e l’aneddoto volge al termine, Cippo verrà chiamato per i rimanenti anni scolastici Puccio, anche nell’anno che Emmanuele, che di quel nuovo nome era promotore, come dell’altro, andrà a Milwaukee per Intercultura, partendo per quella che per tutti era la città di Happy Days, e tornando da quella che per tutti era nel mentre diventata la città di Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, appunto, città dalla quale portò, in anticipo sui tempi, una audiocassetta di Appetite for Distruction dei Guns ‘N Roses e una di The Lonesome Jubelee di John Cougar Mellencamp, uno degli ultimi a nome John Cougar Mellencamp, mi sembra di ricordare, entrambi tra i miei album preferiti di sempre, il primo più adatto ai tempi che stiamo vivendo ora del secondo, certo, abbiamo tutti bisogno di una scossa, ma comunque due veri capolavori, fidatevi di un critico musicale che ormai parla solo d’altro, di Puccio, nello specifico, e di come Puccio sia prontamente nato dalle ceneri di Cippo, Puccio, soprannome che forse qualcuno usa ancora per quel nostro amico, ora medico stimato.

Tornando a Ida, la sua domanda era semplice, “Sono gemelli?”, avendo per soggetto Chiara e Francesco, allora per tutti Ciccio.

Il tempo di esternare il mio sguardo perplesso, di chi si meraviglia perché qualcuno ha colto la gemellitudine, nonostante le differenze fisiche, che Ida aggiunse, “Sa, glielo chiedo perché ho notato che si picchiano di santa ragione, come i gemelli. Ho anche io due gemelli, anche se hanno ormai più di quarant’anni, li ho riconosciuti.”

Ora, fatto salvo che non ha aggiunto se i suoi gemelli, più di quarant’anni, si picchiassero ancora di santa ragione, è del nervosismo di Francesco che stavo parlando, inizialmente, è evidente che Ida in qualche modo rientrò a pieno titolo tra quanti mi adottarono, e ora la smetto di usare questi tempi passati che, lo confesso, mi fanno davvero cagare, passo al presente.

Ida comincia quindi a coccolare i miei figli, mentre sono al mare, vedovo o cornuto, portando loro focacce e croissant, come altri vicini di ombrellone. Non oppongo resistenza, non sia mai che si offendono.

Poi una mattina, credo una delle ultime di quell’eterna settimana, Ida porta un innaffiatoio, rosa, trovato non so bene dove.

Un regalino, certo, che chiaramente è per Chiara. Ida ha due figli maschi, immagino che vedere una piccola bambina, bionda e con gli occhi verdi, abbia colpito il suo cuore abruzzese, non fosse in più che l’innaffiatoio trovato è rosa, quindi più adatto a una bambina, almeno stando a quella faccenda del gendrismo di cui vi ho già parlato nei giorni scorsi e che vi invito a ficcarvi in culo, nel caso lo vogliate brandire a mo di manganello.

Quindi arriva Ida, con un innaffiatoio rosa in mano. Di quelli piccoli, da spiaggia, per fare castelli di sabbia aiutandosi coi secchielli. Saluta, poi velocemente si avvicina a Francesco, dimostrando quindi di saper riconoscere una coppia di gemelli, ma di faticare a distinguere nella coppia il maschio e la femmina, lo dico perché sapendo come andrà a finire l’aneddoto so che lei della faccenda del gendrismo ci si pulisce il culo, il rosa è per le femmine e il celeste per i maschi, e che cazzo. Porge l’innaffiatoio rosa a Francesco il quale, non essendo stato indottrinato al gendrismo, o più semplicemente troppo piccolo per fare distinzioni poetiche e anche troppo gemello per rinunciare a qualcosa che potrebbe essere suo e suo soltanto, afferra l’innaffiatoio, felice come una pasqua.

È in riva al mare, e per riva si intenda questo lunghissimo bagnoasciuga che arriva da Vasto Marina fino a lambire le coste di Zara, sempre acqua bassissima, pochi centimetri.

Ida si ravvede, capisce che Francesco è Francesco, non Chiara. Lo capisce e quindi sfila perentoriamente l’innaffiatoio dalle mani di Francesco, Ciccio per tutti all’epoca, neanche due anni, e lo affida alle mani deliziose e cicciottelle di Chiara, Chiara per tutti all’epoca come oggi, neanche due anni. Il tutto in un batter di ciglia.

Io so già cosa sta per accadere, come in certe scene dei film in cui vedi due che parlano in auto, al ralenti, mentre dal finestrino dalla parte dell’autista di vede arrivare un camion a tutta velocità, camion che ovviamente devasterà l’auto dentro la quale i due stanno parlando, uno vede tutto, vorrebbe anche avvisare i protagonisti, ma sono attori che girano una scena di un film, non è che si possa fare molto. Io potrei anche fare qualcosa, ma tutto è troppo veloce, non faccio in tempo.

Francesco, vede la scena che lo vede passare velocemente da attore protagonista a attore non protagonista, tipo come è successo per l’Oscar a La La Land, frutto della senilità precoce di Warren Beatty, in realtà vinto da Moonlight, La La Land suca, Francesco vede la scena, la decifra perfettamente, rovescia gli occhi all’indietro, come Linda Blair in alcune scene de L’Esorcista, e si lascia andare a corpo morto all’indietro, complice l’acqua che ne attutirà l’impatto (si sa che i gemelli, destinati per natura a nascere dopo solo otto mesi, e dopo aver già convissuto con altri esseri umani nel caldo e accogliente ventre materno, che nel loro caso è meno ampio e quindi meno accogliente, sono decisamente più scafati e pronti a prendere le misure del mondo, va bene cadere all’indietro, scenicamente, ma senza correre rischi di farsi male).

Francesco, gli occhi bianchi, cade all’indietro, finendo in acqua, acqua bassissima, dove comincia a urlare come un’aquila, per circa quindici minuti. Fatto, questo, che spinge Ida verso un senso di colpa del quale, immagino, ancora oggi non si è liberata del tutto, e che ha fatto di lui, Francesco detto Ciccio in acqua, gli occhi bianchi, le urla da aquila, una forma di attrazione per tutta la costa abruzzese, da Martinsicuro fino a Termoli.

Francesco, quindi, ora lo sapete anche voi, è molto nervoso. Non fa nulla per tenerlo nascosto, se eravate in Abruzzo o più in generale nell’arco di duecento chilometri da Vasto, quella mattina di fine luglio 2013, ben lo sapete, avete ancora nelle orecchie quegli urli. È molto nervoso. Come me, sostiene Marina e tutti i suoi parenti, poco conta che io alla sua età fossi una sorta di gatto di marmo, come oggi è Tommaso, per dire, che riserva i suoi scatti di ira e di nervosismo solo per me, suo padre, colui che, quindi, faccio psicologia spiccia, tanto ritengo la psicologia tutta qualcosa di paragonabile a quegli intrugli che vendevano i tizi del Medicine Show di cui ho parlato ultimamente, roba da imbonitori, colui che lui deve uccidere, metaforicamente, per far uscire se stesso, più nello specifico, colui al quale deve rompere i coglioni tutti i giorni per uscire allo scoperto come essere vivente adulto, dotato di una propria personalità, pensa che sfiga dover fare i conti con uno che ha fatto della polemica una delle voci più consistenti del proprio 740.

Ora, dopo oltre tremilatrecento parole, oltre ventimila caratteri, qualcuno si potrebbe anche chiedere perché io stia parlando di nervosismo, mio e di Francesco, e lo stia facendo spostando sempre un po’ più in là il cuore del discorso di questo quarantaseiesimo capitolo del mio diario del contagio. Semplice, perché se nei primi giorni il nervosismo ha colpito un po’ tutti, in casa, in modalità differenti, e soprattutto, fortunatamente, in tempi differenti, più passano i giorni e le settimane più è evidente che ora il nervosismo si sta facendo sempre più presente, senza la minima intenzione di ritirarsi dopo veloci incursioni.

Tradotto, in casa si sbrocca più facilmente, anche per faccende di nessuna importanza, e lo si fa anche contemporaneamente, alzando quindi decisamente la voce. Direi che ci sta, succede anche in tempi di pace, ma ormai è evidente che questa clausura cui ci siamo sottoposti o che ci hanno imposto, comincia a lasciare segni evidenti sul nostro umore, spero non anche sulla nostra psiche. L’altra sera, per dire, mia suocera, che si sta sicuramente molto annoiando, non avendo lavori da svolgere, compiti da seguire, ma neanche cose pratiche da fare, durante il giorno ogni angolo di casa è conquistato da qualcuno che deve fare qualcosa, si è lasciata andare a un “A giugno, qualsiasi cosa succeda, io torno a casa mia”, consapevole, in realtà, che quando finalmente tutto questo sarà finito, quando cioè partirà la famosa Fase 2, il progressivo ritorno alla vita normale, sarà proprio lei l’ultima di noi sette a poter mettere il naso fuori di casa, unica over settanta in casa, figuriamoci il tornarsene in Ancona in treno. Poco prima, del resto, avevamo fatto una videochiamata serale con un nostro amico che vive da solo, e anche lui si era lasciato andare a uno sfogo simile, nascondendo dietro la necessità del paese di riprendere una normale attività lavorativa la sua personale necessità di ritornare a una vita sociale, single ma abituato a una socialità elevata, tutte le sere o quasi fuori di casa tra amici, teatro e impegni vari.

Ormai si sbrocca tutti e non più solo sui social, dove di sbrocchi ne leggiamo sempre, almeno dagli ultimi anni a questa parte.

Del resto, credo, non ho esperienza a riguardo, come tutti del resto, credo che sbroccare dopo tutti questi giorni di clausura, con la paura per quel che c’è fuori, l’incertezza per il futuro prossimo e sulla lunga distanza, le sirene delle ambulanze di fuori, le notizie devastanti che arrivano dalla televisione e tutto quanto, sia non solo naturale, ma anche produttivo. Uno sbrocca qualche minuto, si sfoga, poi riprende come se niente fosse, tanto siamo tutti vittime di sbalzi d’umore continui. Come Sgarbi, che è capace di passare a parlare delle ombre in Caravaggio, mandare a cagare qualcuno e riprendere da dove si era fermato, così, come se niente fosse.

Ecco, io al momento, vedi a volte l’utilità di andare a pescare aneddoti apparentemente senza senso nella memoria, labile, sto ascoltando in loop Paper in Fire di John Mellencamp, tratto da quel The Lonesome Jubilee, seduto in balcone, il suono del dobro di Mike Wanchic e del violino di Lisa Germano, che artista e che donna, con la sezione ritmica di Toby Myers al contrabbasso e del gigantesco Kenny Aronoff alla batteria a sostenere il tutto, a a fondersi con la voce calda del vecchio piccolo bastardo a infondermi quel poco di speranza capace, ancora, di scacciare via se non il nervosismo, quello fa parte del mio carattere, dice Marina, quantomeno la disperazione. Poco non è.