Alla solita ora, tra Jim Jarmush e il Pirellone

I Morti Non Muoiono del regista statunitense non è esattamente un capolavoro, però ha in sé qualcosa di rassicurante


INTERAZIONI: 460

Ho parlato molto, scritto molto, in questi giorni di isolamento, di come casa mia, fortunatamente una casa confortevole in una situazione di emergenza come questa, sia di colpo diventata diversa da come la vivo di solito, io che per scelta e necessità da tanti anni applico quello che tutti chiamano oggi smart working. Di come, cioè, l’essere isolato, a scrivere o parlare in studio, davanti al PC o al telefono, per radio, sia di colpo diventato impossibile, e di come ogni singolo spazio sia diventato quotidianamente, perennemente, lo spazio di qualcuno, e per qualcuno intendo uno di noi sette che ci stiamo trovando in questo isolamento prima volontario, nessuno lo aveva imposto, e ora coatto.

Questo fatto, il trovarsi a convivere ventiquattro ore su ventiquattro, anche coi nostri cari, viene spesso visto solo come una risorsa, in tempi di isolamento, e ovviamente lo è.

Nessuno potrà lamentarsi di soffrire di solitudine, qui dentro. E se mai, come tutti colpiti da questa forma di stanchezza psicologica che ci induce a lasciarci andare alle nostre emozioni di colpo amplificate, uno provasse a lamentarsene, che so?, sui social, son convinto che in un nanosecondo si troverebbe a combattere una delle tante battaglie che a loro volta sono come esacerbate da questa situazione, assaliti da chi si lamenta di stare da solo, di non vedere nessuno, e che se uno non voleva i figli poteva non farli, insomma, quella roba lì.

Tanto per essere chiari, mi ritengo una persona fortunata.

Molto fortunata.

Ho una famiglia meravigliosa, credo di averlo detto anche troppe volte. Non ritengo di essere fortunato professionalmente, perché lì la fatica pesa, ma nonostante anche avere una famiglia sia faticoso, anche un matrimonio richiede fatica, mente chi dice il contrario, perché l’amore è anche una questione di dedizione, non solo di trovarsi, di lavoro quotidiano su se stessi, lavoro e dedizione, oltre che l’indubbio culo di essersi incontrati e esserselo detti, ecco, tanto per essere chiaro, ritengo di essere una persona fortunata. E in questi giorni di dolore e distruzione, ritengo di essere una persona fortunata perché i miei cari sono qui con me, non tutti, i miei genitori e i miei fratelli sono lontani, certo, ma anche loro in salute, quindi non mi posso lamentare.

Anzi, me lo dico tutti i giorni che sono fortunato.

Anche se a volte mi ritrovo a cercare un po’ di quel silenzio che, stranamente, al momento è più fuori dalle finestre che dentro casa.

Da qui vorrei partire.

Quando una settimana fa, forse due, vattelo a ricordare, mi sono accorto che c’era stata un’impennata preoccupante di traffico, il lunedì mattina, come se di colpo Milano si fosse risvegliata senza essere autorizzata a farlo, senza poterselo in realtà permettere, era perché, di colpo, da dietro le porte finestre della sala, dove mi trovavo a fare i compiti coi miei gemellini, ho sentito un rumore che mi risultava estraneo. Era il solito rumore delle auto che passano, talmente solito che, in genere, neanche l’ho mai notato, ma che in questi giorni è talmente sparito da farsi di colpo quasi assordante.

Mi sono affacciato sul balcone, preoccupato, e mi sono trovato sotto gli occhi, sette piani sotto gli occhi, uno spettacolo che in realtà ben conosco, familiare, la grande strada che si trova lì, con qualche macchina, molte meno di quante non ce ne siano di solito, comunque abbastanza da fare un rumore per me ormai quasi estraneo.

Ora, una o due settimane dopo, vattelo a ricordare, questo rumore si è fatto sempre più lieve, di auto ne passano meno, anche se si sentono tristemente molte più ambulanze, ma affacciarsi alla finestra, in casa di finestre e basta ne ho poche, o uscire in balcone, di questi ne ho diversi, significa, pensa te!, incontrare un po’ di quel silenzio che in casa ormai è praticamente sparito.

Infatti succede, anche abbastanza spesso.

Esco sul balcone, specie in quello della sala, che dà appunto sulla strada in genere molto trafficata, una delle arterie di Milano, e ascolto quel silenzio, mentre da dentro arrivano grida, risate, canzoni, i suoni dei videogiochi, la voce di mia moglie che è perennemente in call con qualche collega, la tv che guarda mia suocera.

Lo faccio anche tutte le notti, prima di andare a dormire, e in quel caso il silenzio è quasi magico, non fosse che è indotto da una tragedia. Mi affaccio e non vedo nessuno, letteralmente nessuno. In periodi normale anche di notte ho auto di passaggio, sotto casa, stavolta no, neanche una.

C’è questa lunga strada, oltre due chilometri in linea retta, c’è in lontananza lo skyline di piazza Gae Aulenti, il Bosco Verticale, il palazzo Unicredit, i palazzi nuovi in costruzione, davanti il Pirellone con la scritta State A Casa, e lì, in mezzo alla strada, nessuno.

Ogni notte, come un piccolo rito che mi sono autoimposto, appoggio lo smartphone alla ringhiera del balcone, diretto proprio su quella lunga ferita che neanche sanguina più, e scatto una foto. Uso l’effetto notte della camera dello smartphone, che tiene l’obiettivo aperto più a lungo, sopperendo alla mancanza di luce, ogni notte la stessa foto, identica.

La strada deserta, i palazzi illuminati, chi più chi meno, è sempre intorno a mezzanotte, i semafori accesi non si sa bene per chi.

Sono sempre l’ultimo a andare a dormire, non da oggi. Un rito, forse, non saprei dirlo con certezza. Mi alzo dal divano, spengo la tv, controllo che la porta sia chiusa bene, vado in bagno e poi a dormire. Tutti i giorni. Come tutti i giorni, poi, parlo di tutti i giorni in generale, non solo di tutti questi giorni qui, di quarantena, sono anche il primo a alzarsi. Anche in questi giorni qui, perché come vi ho già detto io e Marina, mia moglie, ci siamo autoimposti di mantenere tutte le vecchie abitudini, orari, consuetudini, come se dovessimo poi uscire, per accompagnare i bambini a scuola, per andare al lavoro, per tornare a casa al lavoro.

Tutto normale, non fosse che nulla è normale.

Sia come sia sono sempre il primo a alzarsi, e devo dire che questo mio girovagare per casa, almeno per mezz’ora, il tempo di preparare il caffè per me e per lei, Marina, di fare colazione, di andare poi a farmi la doccia, con lei, Marina, che si alza quando io ho finito, per iniziare lo stesso iter, mi fa godere di questo scampolo di silenzio che poi so durante il giorno non potrò mai ascoltare.

In genere, ma questi giorni non serve, la mattina riattivo il citofono, che ho spento prima di coricarmi, perché voglio evitare che qualche balordo si diverta a suonare nella notte e scappare, è successo un paio di volte, ma questi giorni citofonano solo i tipi di Amazon, e lo fanno di giorno, non certo di notte (per la cronaca, ricorderete che vi ho parlato dello smartphone con il display coperto di chiazze viola di mia figlia Lucia, bene, anzi, male, lo smartphone è diventato tutto viola, parlo del display, ma, di male in peggio, Amazon ha consegnato ancora una volta con un giorno di anticipo, come per la stampante giorni fa, ma stavolta ha cannato l’ordine, infatti al posto dello smartphone nuovo ho trovato un tubo color oro di Dove Darma Spa, e immagino qualcuno che attendeva la crema in questione si sarà beccato lo smartphone, un bell’affare, per cui ho dovuto improntare il reso e ordinarne uno nuovo, maledetti.

Il resto delle giornate ve le ho già raccontate, ma si dipanano equamente tra lavoro, con la scrittura, la lettura, poca ultimamente, e i tanti, tantissimi compiti che devo seguire io, perché Marina ha i normali orari di lavoro, come fosse in ufficio, ma è soprattutto il silenzio notturno, che mi colpisce, quello dell’alba.

Intendiamoci, non mi frega nulla di star qui a fare il filosofo pret-a-porter, da supermercato, quello che come il primo sorso di birra si mette qui a pontificare sul silenzio.

Sono un critico musicale, apprezzo la musica, e apprezzo pure il rumore di fondo, quello che il digitale, maledetti, ha ben pensato di eliminare.

Solo che affacciandomi tutte le notti al balcone, per fare una foto identica a quella del giorno prima, foto che per altro neanche condivido più sui social, l’ho fatto i primi due, tre giorni, perché mi sembrava allucinante quel deserto, ora sarei una sorta di sociopatico, mi sono tornate in mente vecchie idee che da tempo non prendevo più in considerazione, vedi tu come ti gira la testa quando stai tutto il tempo tappato in casa.

Ho il computer pieno di folder su cui ho infilato file con idee strampalate. Ci campo, io, con le idee strampalate. Mi vengono, quasi sempre di notte, mentre non dormo a letto, alcune scompaiono alle prime luci dell’alba, perché si dimostrano stupide coi primi raggi del sole, o semplicemente perché me le dimentico, anche se ho sempre considerato il detto “se te le sei scordato significa che non erano importanti” una vera idiozia, provate a dirlo al vostro capo che vi chiede perché non avete fatto una determinata cosa che dovevate fare o a un professore che vi sta interrogando, poi ne riparliamo, altre sopravvivono al risveglio e finiscono lì, dentro il mio computer.

Ne ho davvero a centinaia.

Alcune poi vanno avanti, le sviluppo, ne parlo con le persone che lavorano con me, tipo Mattia Toccaceli, il mio partner in crime per buona parte dei progetti video e social, altre finiscono nel dimenticatoio dal quale possono emergere come non emergere mai più.

A volte, ma molto raramente, le vado a ripescare, non perché ne abbia necessità, ma perché incuriosito vado a riaprire un folder di cui non ricordavo nulla, e di colpo mi tornano davanti agli occhi per come me le ero immaginate, dimostrandosi fallimentari o geniali, spesso entrambe le cose contemporaneamente.

Nonostante io sia in realtà una sorta di piccolo imprenditore, così mi considera lo stato, che infatti in questi giorni disperati e disperanti si è completamente dimenticato di me come di tutti gli altri nelle mie condizioni, nonostante io sia in realtà una sorta di piccolo imprenditore mi vedo in realtà più come un artista, ho le mie visioni e se posso le assecondo, senza pensare alla fattibilità, alla contingenza, senza essere troppo pragmatico, poi vedremo se porterà a qualcosa di buono, a qualcosa di anche economicamente remunerativo.

Spesso è proprio la faccenda economica a farle naufragare, quelle idee, perché portare avanti progetti che non generino economie mi è difficile, ho quattro figli, devo puntare al concreto, ma a volte succede pure che le sviluppi lo stesso, per puro spirito intellettuale.

Così è nato tutto il progetto Anatomia Femminile, per dire, senza nessuno scopo di lucro, e in effetti di lucrarci su mi sarebbe impossibile, non fosse altro perché, invece, è stata e è una costante forma di spesa, in termini di tempo, energie e anche soldi, spese però ben riposte, perché, credo, quando mai terminerò il mio transito terrestre, potrò dire di aver fatto un grande progetto, che ha dato modo a tante artiste di farsi ascoltare, di incontrarsi, di dar vita a collaborazioni, di esserci, e non mi sembra poco.

Tre antologie, tre edizioni online del Festivalino di Anatomia Femminile, sui social, due edizioni sanremesi, eventi spot, un Festivalino Off, avrei anche un Festivalino della Quarantena, quasi ottanta video, che però non sto mandando in onda perché, non so, ho l’impressione che i tempi non siano adatti a una cosa del genere, troppo dolore intorno, ma magari mi sbaglio, Anatomia Femminile è un progetto che era nato così, in una notte in cui non dormivo, all’epoca mi svegliavo sempre alle tre e trentotto, tutte le notti e non dormivo poi più, e che è diventato qualcosa che ha coinvolto oltre quattrocento persone, con oltre un milione e mezzo di persone che ci si sono confrontati, non posso che essere felice di non aver archiviato anche quel progetto, la mattina dopo che l’avevo partorito nottetempo.

Altre idee, che so essere geniali, non per narcisismo o egoriferimento, ma perché riesco nonostante a essere sufficientemente lucido per capire cosa sia o non sia geniale, sono lì, dentro un folder, pronte magari a saltare fuori al momento opportuno, o destinate a non uscirne mai più, se non per essere lette prima o poi da me, lì davanti al PC col sorriso di chi si dice da solo di aver avuto idee geniali, ma col rammarico di non essere stato in grado di dar loro vita.

Alcune, lo confesso, non le ricordo proprio. Addirittura neanche le capisco. Leggo cosa ho scritto, spesso parecchie parole, sapete che tendo un filo alla logorrea, ma non solo non ricordo di averle scritte, neanche capisco cosa avevo in mente. Ci provo, eh, ma senza riuscirci. Questi sono in genere i file che restano aperti sul mio PC più a lungo, perché tendo a concedermi i tempi necessari, quando si tratta di capire cosa avevo in mente, ma giuro che a volte restano proprio idee sospese, incomprensibili anche per me.

Torno a me che ogni notte esco sul balcone a fare la foto del nulla.

Tutte le notti, non credo di averne saltata neanche una, sempre intorno a mezzanotte.

Una delle idee che cullo da tempo, sicuramente da quando vivevo in via Tadino, nei pressi di Corso Buenos Aires, e ho lasciato quella casa nel 2006, fate voi, è quella di dare vita a un progetto che si chiamava, si chiama, Alla solita ora.

So che condividere un progetto quando non è in via di realizzazione è sbagliato, perché qualcuno potrebbe farlo prima e meglio di te. So anche che condividere un progetto che neanche hai iniziato è ancora più sbagliato, perché potresti in caso correre il rischio di arrivare secondo con distacco su un tuo stesso progetto. Ma so che, in effetti, se anche qualcuno potrebbe prendere questa idea e farla propria, figurati che mi frega adesso di essere depredato delle mie idee, mi stanno depredando della possibilità di arrivare a dopodomani, dimenticandosi di me, figuriamoci se sono le idee il problema, so anche che come la farei io non la potrebbe fare nessuno, e non si legga questa ultima frase come il delirio di onnipotenza di uno che si sente stocazzo, ma più come la consapevole lettura dei fatti da parte di chi sa di avere una propria cifra, anche piuttosto riconoscibile, cifra che utilizza in un po’ tutto quello che fa, dalla scrittura, alla radio, alla tv a tutto il resto, e che quindi può arrogarsi il diritto di dire che nessuno è in grado di fare qualcosa come lui, come me, parlare in terza persona come Maradona mi dà alla testa, e che quindi qualsiasi cosa mai decidessi di fare sarebbe comunque mia, anche arrivassi secondo o terzo.

Poi, lasciatemi godere un po’ del mio sano o insano narcisismo, sono anche talmente poco stocazzo che sì, la farei comunque meglio, perché la mia cifra è una bellissima cifra, e perché, in tutti i casi, se uno pensa una idea tagliata con l’accetta su di sé, converrete, chiunque provi a rubargliela è sul suo campo di gioco che si troverebbe a giocare, e sul mio campo di gioco son legnate per tutti.

Una delle idee che cullo da tempo, sicuramente da quando vivevo in via Tadino, nei pressi di Corso Buenos Aires, e ho lasciato quella casa nel 2006, fate voi, è quella di dare vita a un progetto che si chiamava, si chiama, Alla Solita Ora. Un’idea che in qualche modo traeva spunto da un film che avevo visto e adorato, Smoke, film di Wayne Wang e Paul Auster, quel Paul Auster lì, che come autore di libri invece non sono mai riuscito a amare del tutto, seppur abbia letto almeno tre volte la sua Trilogia di New York (attenzione, lo dico per gli analfabeti funzionali in ascolto, io ho letto tre volte la Trilogia di New York di Paul Auster per scelta, perché intuivo che c’era qualcosa che mi incuriosiva senza capire esattamente cosa, ma in genere le trilogie si possono leggere anche solo una volta, addirittura si possono lasciare così, a metà, a cazzo, si chiamano trilogie perché comprendono tre opere non perché vanno lette tre volte, tanto è vero che le trilogie possono essere anche più di tre volte, come mi è successo con la Trilogia della città di K di Agota Kristof, o una sola, come mi è successo con la Trilogia Malese di Anthony Burgess, l’autore anche del romanzo L’Arancia meccanica), o dal seguente Blue in the face, diretto dal solo Paul Auster, non ricordo bene, essendo questo secondo il sequel del primo. In questi due film, che avevano come interprete un gigantesco Harvey Keitel e che avevano come coprotagonisti altri giganti come Forest Whitaker, William Hurt, Lou Reed, Lily Tomlin, Madonna, Jim Jarmush, al punto che ero straconvinto che fossero film suoi, non ci fosse stato Google avrei sicuramente scritto una fesseria.

Sì, Jim Jarmush, ecco, rileggetevi la cosa che ho scritto su sulla cifra stilistica e sull’avere idee che poi magari fanno qualcuno e capirete cosa intendo, se subito dopo andrete a recuperare questi due film, perché è chiaro che Paul Auster, scrittore, come regista molto debba a Jim Jarmush, autore e regista, e che però questi due film non siano esattamente film di Jim Jarmush, proprio perché la mimesi non potrebbe mai essere compiuta, seppur andarci molto vicina, tanto più se l’imitato è contemporanea dell’imitatore.

Comunque, in uno di questi film, non ricordo bene le trame, esili, jimjarmushiane, che ruotano intorno alla tabaccheria gestita dal protagonista, Harvey Keitel, in un angolo da qualche parte a New York, Brooklyn nello specifico, questo lo ricordo, in uno di questi film c’è un tizio, forse proprio quello interpretato da Keitel, che fotografa tutti i giorni lo stesso angolo di strada, tutti i giorni, a volerne fermare le minime mutazioni, a cogliere attimi che ovviamente non possono essere mai simili a se stessi, seppur nella medesima cornice.

La mia idea, il titolo già lo dice, è un po’ differente, è mia, infatti, si chiama Alla Solita Ora perché, da circa quattordici anni a questa parte, mi ripeto che prima o poi dovrei fare una foto a quel che vedo, a coloro che mi sono intorno, a una medesima ora. Ogni giorno a una determinata ora, zac, una foto, ovunque mi trovi, con chiunque mi trovi, qualsiasi cosa io stia facendo. Quando l’ho avuta, questa idea, non esistevano i selfie, non so se anche io devo essere compreso nel pacchetto, non ci ho ancora pensato. So solo la faccenda della medesima ora.

Dovrei mettere la sveglia di quelle che suonano quotidianamente, tipo quelle che metti se a una determinata ora devi prendere tutti i giorni una pillola, e zac, tirare fuori lo smarpthone e fare una foto. A dire la verità, quando ho avuto questa idea, quattordici anni e rotti fa, avrei dovuto tirare fuori la macchina fotografica, mi sembra di ricordare già di quelle digitali, zac, una foto. Oggi sarebbe più facile, perché lo smartphone lo abbiamo sempre dietro, all’epoca un po’ meno.

Ma non è stata questa difficoltà a frenarmi dal farlo, figuriamoci, c’è chi va in giro con una bombola di ossigeno in un carrello della spesa, esempio non felicissimo di questi tempi, temo, che sarà mai stato andare in giro con una macchinetta digitale sempre appresso?

Ho desistito per due ragioni, più elementari.

Prima, quella forma di pigrizia che mi coglie sempre subito dopo aver avuto una idea, anche una idea che ritengo geniale, come questa, una sorta di malinconia postcoitale, per capirsi. So che è un progetto che mi coinvolgerà per mesi, forse per anni, e mi freno, perché già mi sono stancato a avere questa idea. Ma non è neppure questa la cosa che mi ha frenato davvero, perché, appunto, Anatomia Femminile, progetto che mi vede per altro dover interagire con un mucchio di persone, sappiate che ho una chat con oltre un centinaio di cantautrici, abbiate compassione per me, lo sto portando avanti da quasi dieci anni, e non è che sia tornato mai sui miei passi.

No, a frenarmi è stata la scelta dell’ora in cui farmi la foto, seconda ragione elementare.

Perché il progetto Alla Solita Ora, converrete, parte proprio dalla scelta di un’ora specifica.

Se scegliessi, per dire, le due di notte, gioco coi paradossi, mi dovrei fotografare sempre a letto. Magari cambierebbe il letto, durante i giorni di vacanza o nei viaggi di lavoro, ma cambierebbe poco altro, perché in vacanza c’è sempre Marina al mio fianco, e nei viaggi ci sarei io da qualche parte, in caso potrei chiamarlo Letti in cui ho dormito, o una cosa del genere.

Potrei quindi optare per un orario lavorativo, ma ci sarei spesso io al PC, non un grande spettacolo.

Potrei metterlo a ora di pranzo, ma ci sarei io che mangio, con la mia famiglia, la stragrande maggioranza delle volte, magari non tutta, Marina e i figli piccoli, durante l’anno scolastico e lavorativo, mangiano nelle rispettive mense, o da solo, se sono in giro e mangio al volo, o con amici e gente con cui lavoro, ma sempre io che mangio e altri che mangiano sarebbe, non esattamente quello che ho in mente, se no avrei infilato il cibo nel titolo.

A me interessava, interessa, immortalare momenti diversi della giornata, routine, momenti speciali, incontri unici, incontri soliti, risate, pianti, mangiare, dormire, fare l’amore, cagare, casa, esterni, teatri, studi di registrazione, il mio PC, la televisione, il giradischi, tutto, ma non esiste una ora che ho ancora identificato adatta a tutto questo.

Infatti il progetto non è mai partito, seppur lì, tra quelli che ogni tanto guardo, cullandomi nell’idea di iniziare a svilupparlo. Forse l’ho involontariamente fatto, scattando questa mia foto notturna, deserta, sempre uguale a se stessa, una foto, però, che involontariamente tradisce l’idea da cui l’altra foto è nata, cioè quella di mettere in scena non tanto i panorami quanto le persone che avrei incontrato giorno dopo giorno, per un anno, due anni o quanto mai avrei deciso che quel progetto, Alla solita ora, sarebbe durato.

Jim Jarmush, per altro, regista che compare in Blue in The Face come attore, ma anche musicista uno che ha lavorato non solo con quei nomi lì, ma anche Tom Waits, Roberto Benigni quando Roberto Benigni era Roberto Benigni, John Lurie, per altro nello stesso film, ma che ha anche fatto capolavori come il Ghost Dog che mi ha fatto conoscere l’Hagakure, all’epoca per altro ripubblicato da Mondadori proprio mentre io lavoravo alla Varia della Mondadori che quel libro ha ripubblicato, è uscito l’anno scorso con il film I morti non muoiono, la sua personale rilettura del classico film sugli zombie, stavolta Iggy Pop, già apparso nella trilogia Coffee and Cigarettes, a suo modo legata a Smoke e Blue in the Face, e Dead Man, stralunato western con Johnny Depp, e RZA, già coinvolto in altre opere, come appunto Ghost Dog, oltre al solito Tom Waits, a rinverdire il cast di superattori. Film, I Morti Non Muoiono, che ho visto di recente, prima che questa emergenza diventasse questa emergenza. Film discutibile, non esattamente un capolavoro, che però ha in sé qualcosa di rassicurante. Ci sono morti che escono dalle tombe, gli zombie, ma ci sono anche le facce stralunate di Bill Murray, Tom Waits o Iggy Pop a rendere il tutto poco pauroso. Ecco, penso, la strada deserta sette piani sotto il mio balcone, un silenzio assordante intorno tutto questo sarebbe molto più affrontabile per tutti noi ci fossero almeno quelle facce stralunate lì.