Sognare non costa niente, basta chiudere gli occhi, ma è una ricchezza impagabile, provateci

Usiamo la fantasia per abbattere quelle pareti che ci stanno diventando troppo familiari. Proviamo a andare altrove per pensare a andare avanti


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Sto approfittando di questi giorni di isolamento per studiare un po’. In realtà, visto il lavoro che faccio, studio costantemente, perché questo è richiesto a chi svolge il mio ruolo, e perché soprattutto per questo ho scelto di svolgere il mio ruolo, per potermene poi stare lì a leggere e ascoltare tutto il santo giorno quel che mi sarebbe piaciuto leggere e ascoltare anche solo per hobby, con la sola differenza che ho trovato il modo di farmi pagare per farlo.

Solo che in questi giorni di isolamento, non avendo modo di incontrare gente, che è un’altra parte del mio lavoro, non necessariamente la più interessante, visto la gente che in genere anima il mio ambito lavorativo, e non avendo da spostarmi in giro per Milano, perché tutti sono chiusi e bloccati in casa,  esattamente come me, siamo nella Zona Rossa, difficile dimenticarselo, ne sto approfittando per studiare di più, dedicando, se possibile, ancora più tempo alla lettura e all’ascolto.

Ho, tra gli altri, letto in un sol boccone l’unico libro di Tom Wolfe che non avessi ancora letto, Il Regno della Parola, uscito nel 2016 e, visto che che nel mentre Tom Wolfe è passato a miglior vita, presumibilmente l’ultimo suo libro che mi capiterà di leggere, sempre che non opti per rileggermi uno dei suoi libri più vecchi.

Ora, dovete sapere che Tom Wolfe è uno degli autori che più ha influenzato il mio essere scrittore. Intendiamoci, non direttamente la mia scrittura, ma proprio il mio modo di intendere l’essere scrittore. Protagonista di quello che proprio grazie a una sua intuizione viene chiamato New Journalism, nei fatti Tom Wolfe è sempre stato un narratore prestato al mondo del reportage e delle inchieste, solo che per buona parte della sua vita professionale lo ha fatto spacciandosi per giornalista, poi ha smesso dedicandosi completamente al suo ruolo di scrittore. Avendo avuto la fortuna di nascere dopo di lui, e avendo quindi avuto modo di conoscere i suoi testi ancora prima di cominciare a scrivere, ho potuto così cominciare direttamente mescolando le due cose, partendo in realtà prima dai libri per passare poi agli articoli, ma sempre scivolando da una zona all’altra, senza veri e propri limiti. Nei fatti è andata così, parlo per me, ho iniziato a scrivere racconti, passando presto a un’idea più architettonicamente complessa di romanzo. Il tempo di essere identificato come scrittore, ho già raccontato come e da chi, e mi è stata proposta una prima collaborazione giornalistica. Una proposta che partiva da due punti fermi, fregandosene bellamente di un terzo. Chi me lo ha proposto, infatti, riteneva io fossi in grado di scrivere articoli, riteneva avessi argomenti interessanti da mettere dentro detti articoli e se ne è sbattuto bellamente del fatto che io non fossi né pubblicista né giornalista. Funziona così, del resto, da sempre. L’ordine dei giornalisti raccoglie in suo seno tutti coloro che ambiscono a un ruolo di giornalista, professionista o pubblicista, ma i giornali sono animati prevalentemente da gente che a quel ruolo non ambisce, o che se anche vi ambisce non ci arriverà, perché in assenza delle necessarie qualifiche. Io, personalmente, non sono né giornalista professionista né pubblicista per scelta, pur avendo avuto e avendo tutt’ora i requisiti necessari per esserlo. Non mi interessa avere quella tessera, anzi, non avendo affatto piacere a ritenermi giornalista e a essere confuso per un giornalista, in nessun modo, mi sono sempre guardato bene dal definirmi tale, arrivando in ogni modo a puntualizzare il mio ruolo di scrittore e critico musicale. 7

Questo, credo, fuga anche ogni dubbio riguardo a quanti sostengono io tenda a violare un presunto codice deontologico dei giornalisti, seppur io sia in realtà spesso e volentieri assai più coerente a quel codice di molti giornalisti veri e propri.

Tom Wolfe era un giornalista, credo, sempre che anche in America esita il nostro corrispettivo dell’Albo, ma era soprattutto uno scrittore. Così come era soprattutto uno scrittore l’altro mio faro, almeno a inizio carriera, Hunter S. Thompson, colui che con Tom Wolfe è stato spesso indicato come l’inventore del New Journalism, questa sorta di mix tra giornalismo e letteratura, e che nello specifico è il padre del Gonzo Journalism, chi ha avuto il piacere di leggere Paura e Delirio a Las Vegas sa di che cosa io stia parlando.

Ora, non è di me e del mio torbido rapporto con la possibilità di entrare nella casta dei giornalisti che voglio parlarvi, avevo iniziato così bene dicendo di come questi giorni possano diventare occasione di crescita e di studio, fatemi tornare in quei lidi. Il fatto è che Tom Wolfe ha sempre raccontato mondi che mi interessano parecchio, anche se spesso li ha raccontati ancora prima che io venissi al mondo, e lo ha fatto incarnando consapevolmente quel ruolo da dandy ironico e ficcante che così è lontano dal mio immaginario e dalla mia poetica da farmelo letteralmente adorare. Per dire, Hunter Thompson, a sua volta piuttosto lontano da me per sue certe esternazioni vagamente discutibili, per quel suo amore per le armi e per le droghe, l’ho sempre visto assai più vicino a me, forse anche per una mera faccenda lessicale. Sapere che si è tolto la vita, gravemente malato, ma che prima di farlo abbia lasciato ordini per il suo funerale che prevedevano di ricomporre il suo cadavere seduto alla sua scrivania, la macchina da scrivere di fronte e il suo amato fucile, lo stesso con cui si è tolto la vita, in braccio, alla presenza del fedele amico Johnny Depp, ecco, già solo quello me lo fa stare irrimediabilmente simpatico, assai più di quanto nella vita di tutti i giorni non potrebbe fare un tizio perennemente vestito di bianco, con panciotto e cappello panama a larghe falde e scarpe di vernice. Anche se, lo ha raccontato lui stesso più volte, quello del vestirsi di bianco è stato un espediente, un escamotage per farsi notare, un modo per non passare inosservato poi divenuto una sorta di divisa di ordinanza, e devo dire che come escamotage ha funzionato parecchio.

Il Regno Della Parola, quindi. Un libro geniale, come tutti quelli di Wolfe, che parla di linguistica, e per farlo parte da lontano, o apparentemente da altrove. Per arrivare a dirci come la linguistica sia diventata una scienza centrale, quindi per parlare in buona sostanza di Noam Chomsky, Wolfe parte infatti da Darwin e dal darwinismo, andando a costruire una perfetta simmetria tra la storia di Darwin e della scoperta dell’evoluzionismo che a quest’ultimo è ingiustamente legata, questo scopriamo leggendo il libro in questione, essendo in realtà detta scoperta da attribuire a Alfred Russell Wallace, e la storia di Chomsky, le cui tesi linguistiche sono state messe in un angolo dall’antropologo Dan Everett e dalla tribù dei Piranha. Un saggio su evoluzionismo e linguistica, quindi, che scivola via veloce come si trattasse di un articolo di gossip da leggere mentre si aspetta il nostro turno dal parrucchiere, lo dice uno, credo sia evidente a chiunque mi abbia mai visto di persona o in remoto, che dal parrucchiere ci ha passato davvero poco tempo in vita sua. Wolfe è un mago della parola, sa come affabulare grazie a uno stile unico, mai ridondante, sempre incisivo e ironico quanto basta a tenerci incollati alla pagina. Sul perché io abbia deciso di leggere proprio in questi giorni Tom Wolfe e il suo Il Regno della Parola vorrei avere qualcosa di altrettanto affascinante da dire, ma così non è, si tratta di fidelizzazione, credo, o più semplicemente di stima indefessa (oltre che del fatto che mi ero perso a suo tempo questa uscita), ma il fatto di aver letto in un solo giorno questo saggio di circa centoottanta pagine mi ha invece spinto, so che sto smentendo quanto detto sopra, ma mica è una dichiarazione fatta sotto giuramento in tribunale, questa, a leggere il suo vecchissimo saggio Elctric Kool-Aid Acid Test, anno del Signore 1968, uno dei miei libri preferiti di sempre. Si tratta di un lunghissimo reportage che il nostro ha scritto dopo aver seguito, sempre di bianco vestito, Ken Kesey e i Merry Prankster in giro a bordo del Furthur durante il Magical Mistery Tour, da non confondere con l’omonimo lavoro dei Beatles, che per la cronaca proprio come omaggio al bizzarro viaggio in giro per gli USA a bordo dell’altrettanto bizzarro scuolabus ipercolorato guidato da Neal Cassidy ha quel nome.

Ora, mi fermo. Non sono Tom Wolfe, direi che è chiaro. Non sono neanche Hunter S. Thompson, pure questo è chiaro. Non sono, quindi, né particolarmente bravo a passare da un argomento all’altro, come Wolfe fa nel suo saggio da cui sono partito, Il Regno della Parola, né particolarmente bravo a attenermi ai fatti che racconto, sempre che i due nomi in questione lo fossero. Non è vero che non sono particolarmente bravo a fare quel che ho appena scritto, non sono semmai particolarmente bravo a fingermi modesto, sono un fottutissimo asso delle parole, lo so e gigioneggio fingendomi modesto. Il fatto è che non ho più voglia di parlare di Wolfe, andatevelo a leggere o rileggere, merita sempre e mai come in questo periodo in cui sembra che in molti abbiano perso il lume della ragione un po’ di cinismo può venirci utile. Leggetevi anche Thompson, tutto quel che trovate, ca va sans dire, merita anche lui.

Io ora voglio passare a parlarvi del Furthur, dei Merry Pranksters, di Ken Kesey e del Magical Mistery Tour. È quello di cui avevo intenzione di parlarvi sin dall’inizio, ma come al solito ho deciso di prenderla molto larga, tanto per farvi compagnia per un tratto di strada più lunga, siatemi grati.

Nel farlo, anche qui cado nell’ovvio, occorre io sottolinei come in vita mia non ho mai fatto uso di sostanze stupefacenti, del tutto disinteressato all’argomento. Sono sempre stato molto interessato, per contro, alla cosiddetta controcultura, che con il mondo delle droghe ha avuto parecchio a che fare, a partire dalla Beat Generation, presente a bordo del Furthur per mezzo di quel Moriarty compagno di viaggi di Jack Kerouac, e del mondo hippy, perfettamente rappresentato dai The Worlocks, di lì a poco on the road e onstage con il nome Grateful Dead. Il Magical Mistery Tour era nato da un’idea di Ken Kesey, poi divenuto famoso in tutto il mondo per il suo romanzo Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo, incentrato sul mondo degli ospedali psichiatrici, che aveva deciso di attraversare lo stato testando l’appena nato LSD, acido lisergico fuoriuscito dai laboratori di Berkley che presto sarebbe diventato il vero motore del movimento hippy, oltre che presumibilmente il suo maggior nemico. Di questo parlerà il reportage di Wolfe, di come LSD sia entrato a forza nella poetica di questo manipolo di artisti, scrittori, pittori, musicisti, e di come in qualche modo ne abbia cambiato le dinamiche, andando a influenzarne non solo e non tanto i rapporti interpersonali ma anche la poetica, come tutte le jam improvvisate, i reading poetici, le istallazioni artistiche nate lungo la strada dimostrano. L’idea di prendere uno scuolabus, colorarlo con colori sgargianti, fluo, e usarlo come mezzo di trasporto/palco in giro per il paese è senza dubbio un’ottima mossa comunicativa, capace di rimanere valida a distanza di decenni. O meglio, lo sarebbe stata se alla base di questa scelta ci fosse stata una qualche volontà di pubblicizzare qualcosa, un prodotto, un’opera o fosse anche una semplice idea. Nei fatti Ken Kesey e soci volevano sperimentare gli acidi e farlo inseguendo la massima libertà possibile, libertà consentita da una falla legislativa che non aveva ancora reso illegale l’LSD.

Ora, perché io vi stia a parlare di un manipolo di artisti e artistoidi, non tutti erano in effetti all’altezza dei succitati Ken Kesey e Grateful Dead, diciamocelo, che attraversano una nazione attraverso di uno scuolabus coperto di pitture fluo dandosi all’improvvisazione psichedelica potrebbe risultare incomprensibile, noi stiamo vivendo in un particolare momento delle nostre vite e della vita del nostro paese, del nostro continente, in cui è impossibile anche uscire di casa, figuriamoci di andare alla deriva, vagabondare. Nei fatti, credo, proprio perché viviamo reclusi, isolati, impauriti pure per questa condizione, credo sia necessario ricominciare a sognare, e se per farlo ci è utile pensare a quelli che probabilmente oggi considereremmo degli scappati di casa, ben venga. Sogniamo, compagni lettori, ipotizziamo tutti di prendere pitture e pennelli e di colorare un autobus, di scuolabus non se ne trovano più molti, pronti a partire per viaggi senza meta e senza scopi. Lasciamo che l’idea di improvvisare arte, sia poesia, pittura, musica, si impossessi di noi, ci ridia fiato, ci faccia battere il cuore. Prendiamo, se serve, proprio un vecchio album dei Grateful Dead, Aoxomoxoa direi che è la scelta più scontata ma anche la migliore, e lasciamo che accompagni il nostro viaggio a occhi aperti. Se lo riteniamo troppo datato, Dio ci perdoni, vada pure per un album dei Dave Matthews Band, dei Phiph o quel capolavoro assoluto di The Grand Pecking Order, uscito diciannove anni fa, superband delle superband che oltre al phishiano Trey Anastaio vedeva in lineup Les Claypool dei Primus (e ovviamente non solo) e Stewart Copeland dei Poilce, pensiamo sempre in grande, che diamine. Lasciamo libere le briglie della fantasia (in questo potrebbe aiutarci anche leggere Alan Moore, il più grande fumettista di tutti i tempi, e il suo Magical Mistery Moore). Usiamo la fantasia per abbattere quelle pareti che ci stanno diventando troppo familiari. Proviamo a andare altrove, di qualsiasi altrove si tratti, modo confortevole, oggi, per pensare a andare avanti. Furthur, questo il nome scelto da Kesey e i suoi Merry Pranksters per il loro scuolabus multicolore, significa appunto “avanti”, “più in là”, mica è un caso.

Sognare non costa niente, basta chiudere gli occhi, ma è una ricchezza impagabile, provateci.