Mai come oggi, dobbiamo ripetere come un mantra I’ve Got a Life degli Eurythmics, e poco importa se non siamo intonati come Annie Lennox o geniali come Dave Stewart

La canzone dovrebbe essere la colonna sonora di tutte le case, quelle case nelle quali ci troviamo tutti, chi più chi meno, spero tutti, a vivere autoreclusi in attesa che tutto questo delirio finisca

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In casa ci stiamo riorganizzando, non poteva che essere così. Conviviamo costantemente, come in casa, a Milano, non succede mai. Perché quando ci sono le vacanze, unico momento in cui i grandi, io e mia moglie Marina, non lavoriamo, e i piccoli, i nostri figli Lucia, 18 anni, Tommaso, 14 anni, e Francesco e Chiara, otto anni, non vanno a scuola, in genere ce ne andiamo, o in qualche luogo di villeggiatura o, durante le feste di Natale e per parte delle vacanze estive, nella nostra terra natia, Ancona.

Ci stiamo riorganizzando trovando dinamiche e spazi di convivenza, tutti durante il giorno abbiamo cose da fare, io e Marina lavoriamo, mia suocera, settima di sette, ci dà una enorme mano in casa, cucinando e facendo quel che in casa serve, i ragazzi e i bambini studiano, o meglio studiacchiano, e poi giocano, si distraggono, guardano la tv. La casa è grande, ma gli spazi, quando si è tutti insieme, sembrano restringersi gulliverianamente.

Quello che esce sono io, a fare la spesa, anche se adesso anche quel semplice gesto è più complicato, con l’ingresso ai supermercati gestito dalla sicurezza, un tot alla volta, tutti a un metro di distanza, come da ordinanza, tutti anche piuttosto diffidenti nei confronti degli altri, come mai mi era successo in cinquant’anni di vita. Lucia, la più grande dei figli, in quella età in cui, giustamente, ci si sente immortali, è quella che fatica di più a capire la situazione, o a farsela andare bene, ma sta alle regole, così la abbiamo cresciuta e oggi non è il caso di ribellarsi, Tommaso, che invece è il più rigido nei comportamenti, neanche ci pensa a uscire, convinto che dobbiamo tutti morire, i gemelli sono abbastanza piccoli da vivere tutto questo senza lasciarsi andare a sconforto, per loro è solo una grande vacanza prolungata.

Lo sconforto. Io e Marina stiamo provando a tenere botta, non abbiamo molte altre scelte, ce lo impone il nostro ruolo di genitori, ce lo autoimponiamo come adulti. Ma non è sempre facile. Ci conosciamo da trentaquattro anni, stiamo insieme da oltre trentadue, ci capiamo anche senza bisogno di dirci apertamente le cose. A entrambi capita, durante il giorno, di sentire su di noi gli occhi fissi dell’altro, preoccupati, occhi che, appena si incrociano, diventano occhi addolciti, un lieve sorriso di circostanza a increspare la bocca, la parvenza di una durezza che non sempre siamo capaci di indossare ma che sentiamo di dover indossare, almeno tra noi. Non ne abbiamo parlato apertamente, perché, appunto, dobbiamo mantenere una parvenza di normalità, ce lo dobbiamo e lo dobbiamo agli altri in casa, ma siamo preoccupati.

Il fatto che io sia qui a scriverlo, per altro, non cambia la faccenda, perché lei, Marina, che come me in questi giorni lavora da casa, smart working che con la multinazionale per la quale lavora ha già praticato in piccole dosi in passato, le porta via buona parte del tempo, e il resto è assorbito totalmente dalla gestione della famiglia, quindi so che non mi leggerà.

Siamo preoccupati per più motivi.

Per gli ovvi motivi sanitari, chiaramente, visto che quella che inizialmente sembrava una faccenda di pochi giorni e con pochi rischi si sta dimostrando ben più seria e ostica di come ce l’avevano raccontata.

Per altrettanto ovvi motivi lavorativi, perché l’idea che sia bloccato non solo tutto il mondo nel quale io opero, quello dello spettacolo, ma sia addirittura bloccata l’intera Lombardia, non a caso indicata spesso come la locomotiva economica dell’Italia, non lascia intravedere niente di positivo all’orizzonte. Anzi.

E anche per motivi umani, perché questi giorni di emergenza stanno tirando davvero fuori il peggio da un paese che già di peggio ne aveva dimostrato tanto. A partire da questa inutile quanto avvilente faida nord sud, non voglio neanche sprecarci troppe parole, e questo costante fottersene di regole che magari sembrano riguardare direttamente noi, ma che anche non ci riguardassero, e ci riguardano, coglioni, riguarderebbero sicuramente i più deboli, cioè quelli che una società civile dovrebbe tutelare e difendere. Vedere l’altro giorno le stazioni assaltate, mentre ancora il decreto legge che blindava la Lombardia e altre quattordici province non era ancora che una bozza, e già la fuoriuscita della notizia non ufficiale darebbe spunti per avvilirsi, è stato una spettacolo miserevole, da paese incivile quale probabilmente siamo.

Tutti pronti a scapparsene, abbandonando la città nella quale vivono, lavorano, studiano, e pronti a farsi portatori di contagio presso i propri cari, fregandosene quindi di coloro presso i quali stavano scappando. I propri cari. L’ho già scritto nei giorni scorsi.

Quando ormai più di due settimane fa è arrivato il sentore che la faccenda non sarebbe andata tanto per le corte, che le scuole sarebbero state chiuse, non certo così tanto, ma sicuramente per qualche tempo, e che anche Marina avrebbe telelavorato, io lo faccio praticamente da quindici anni, abbiamo inizialmente pensato di tornare nella nostra Ancona. Avremmo avuto modo di vedere i miei genitori, anziani, i miei fratelli, gli amici di vecchia data, quelli di sempre, avremmo usufruito della pacata vita di provincia, la spesa che costa non dico la metà che a Milano, ma quasi, avremmo potuto fare passeggiate al mare, in campagna, tutta roba impensabile qui dove ormai viviamo da oltre vent’anni. Ci abbiamo pensato. Ma ci siamo anche subito detti che non dovevamo farlo, uso il verbo dovere non a caso. Perché avremmo potuto inconsapevolmente portare il contagio in zone che, quando ci abbiamo pensato, sembravano ancora immuni al CoronaVirus. Magari avremmo potuto contagiare proprio le persone che volevamo vedere, a partire proprio dai miei. Abbiamo quindi fatto gli adulti, quali siamo, e ce siamo rimasti a Milano, dove adesso ci hanno blindato, anche in virtù dei tanti altri adulti che si sono comportati in maniera meno consapevole e civile di noi. E dire che sarei io l’anarchico, quello che non rispetta le regole.

Siamo preoccupati, sì, ma non stiamo cedendo di un millimetro le nostre difese alla paura. Non ce lo possiamo permettere. Non ce lo vogliamo permettere. Abbiamo rovesciato la diligenza, come in certi vecchi film western, quelli di prima che il politicamente corretto e Kevin Costner coi suoi Oscar impedisse a sceneggiatori non troppo a conoscenza della storia o ipocritamente intenzionati a raccontare la storia dalla parte dei vincitori di raccontare i bianchi come i buoni e i nativi americani, allora semplicemente gli indiani, come i cattivi. Abbiamo rovesciato la diligenza e ne abbiamo fatto scudo contro i cattivi, abbiamo dato fuoco a stracci  e legname per fare luce nella notte, abbiamo appoggiato le carabine su quelle che sono diventate le nostre feritoie, intenzionati a vendere a caro prezzo la pellaccia.

Resta la malinconia, impossibile da cancellare con la sola forza di volontà, ma quantomeno gestibile.  Ci si guarda, si sorride, e si va avanti, questo è quanto. Riorganizzando la quotidianità, inseguendo nuovi ritmi, forse più umani, ma che abbandoneremmo in un nanosecondo se solo ci offrissero la possibilità di tornare a un mese fa, quando il nostro solo problema sembrava capire dove fosse finito Bugo dopo che aveva abbandonato il palco dell’Ariston, Morgan a blastarlo sulle note della sua stessa canzone.

Sicuramente nessuna traccia, al momento, di quella Milano finta e ridicola apparsa fugacemente nella narrazione di Beppe Sala, il nostro sindaco lì a lanciare l’hashtag più miserabile di questi giorni, #MilanoNonSiFerma, una Milano che si muove a ritmi impensabili, che fa miracoli e lavora duro, oggi che è chiaro a tutti che Milano è ferma e forse si sarebbe dovuta fermare di propria volontà e di sua volontà, del sindaco, assai prima che arrivasse un decreto legge a farlo.

Si cammina piano, oggi, spesso dentro il perimetro di casa, altro che miracoli. A parte i miracoli, veri, di chi sta in prima linea per fermare tutto questo, sia chiaro, veri eroi cui deve andare il nostro indefesso plauso, e mi scuso se magari per stanchezza a volte, come ora, parlo come fossi Fusaro, non era mia volontà, lo giuro.

In questi nuovi ritmi, in questa organizzazione, c’è un costante ricevere, da parte mia, messaggi e canzoni nuove da parte di artisti che conosco e stimo, penso a Chiara Vidonis, Eleviole?, Elisa Bonomo, Veronica Vitale, Francesca Xefteris, Serena Ganci, ma anche che ancora non avevo avuto il piacere di sentire, come i Black Casino and the Ghost, Antonio Salviulo, Michela Franceschina, Francesca Perrons, un modo concreto per fare cerchio in un momento di reale isolamento, molto apprezzato, si sappia. Ricevo anche molti messaggi, e non solo dagli amici che conosco da tempo e che frequento anche fuori dai social. Messaggi in cui mi si chiede come sia, in effetti, la vita in un territorio blindato, messaggi che mi chiedono di come sia gestire i figli, in questi tempi oscuri. Messaggi che scaldano il cuore, e che mi fanno pensare che in fondo stare qui tutti i giorni a raccontare, con il mio stile e i miei modi, i giorni del contagio possa avere un senso, portare un po’ di svago in giornate pesanti, certo, ma anche far passare che in fondo siamo tutti sulla famosa stessa barca.

È un po’ come, in fondo, se in grande si riproponesse una dinamica simile a quella che si è creata in casa, cuori che provano a sintonizzarsi sulla stessa onda, lì intenti a superare anche l’imbarazzo di mostrarsi sensibili, fragili, provando a ipotizzare qualcosa di simile a un’idea di futuro prossimo, migliore. Gli altri, i più piccoli, nel traslato semplicemente i meno sensibili o i più distratti, bisognosi di svago, di input sereni, fossero anche dei placebo.

In questi giorni di isolamento coatto e autoimposto, visto mai che se ne possa trarre davvero qualcosa di buono, ho provato a far ascoltare ai miei figli un po’ di buona musica. Lo faccio sempre, anche nel breve tragitto che copriamo la mattina quando li porto a scuola in auto, ma stavolta mi ci sono messo più organicamente, proprio con le intenzioni manifeste di far conoscere loro qualcosa che non hanno ancora avuto modo di ascoltare bene. Siccome so che alla loro età la vista ha un peso maggiore dell’udito, non a caso guardano molto più di quanto non ascoltino, ho usato il trucchetto di far vedere loro dei video su Youtube, beate smart tv. Sono partito dal rock, cercando di farli ridere raccontandogli che il tizio a torso nudo e con tutti quei foulard che si dimenava cantando era coetaneo della loro nonna, mia suocera, nel mentre da qualche parte in casa a fare cose, piazzando una dietro l’altra Crazy, Cryin’, Amazing e What it Takes degli Aerosmith. Sono poi passato ai Guns N Roses, provando il terzetto Sweet Child of Mine, Don’t Cry, November Rain, per poi finire nei classici, con un We Will Rock You, canzone che loro ben conoscono avendone fatta colonna sonora di un saggio a scuola, e una assai più divertente, parlo del video, I Want to Break Free, sempre dei Queen. Ho catturato la loro attenzione, certo, ma so bene quando si tratta di una attenzione parziale, di quelle che ci farebbero gridare alla vaporizzazione delle nuove generazioni. Qualcosa di volatile, momentaneo, effimero, un attimo e sono passati a altro. C’è stato un momento, però, in cui si sono come immobilizzati, con lo sguardo concentrico che Mowgli aveva quando Sir Biss provava a ipnotizzarlo per farne un sol boccone nel Libro della giungla, e capisco che una citazione del genere tradisca la mia anagrafe assai più dei brani poc’anzi citati. È successo quando nel maxi schermo della televisione è apparsa la faccia bellissima e affascinantissima di una non più giovanissima, trentotto anni, e chiedo scusa per tutti questi superlativi, sono in quarantena, abbiate pietà del povero estensore di queste righe, di Annie Lennox, nel video di A Love Song For a Vampire, tratto dalla colonna sonora del film Dracula di Bram Stoker, per la regia di Francis Ford Coppola, anno del Signore 1992. Un video pazzesco, sono d’accordo coi miei figli, in cui una Annie Lennox in stato di grazia canta come solo lei sa fare una improbabile canzone d’amore definitiva, quella appunto di una donna che si concede a un vampiro, l’amore che supera la morte, a voler essere ottimisti, o la morte che si mangia la vita attraverso l’amore. Una canzone che, a pensarci bene, trasmette alla perfezione proprio quel senso di malinconia di cui parlavo qualche riga fa, quella che attanaglia i nostri cuori di adulti al tempo del colera. Noi, io e mia moglie Marina, nello specifico, ma un po’ tutti noi, lì a ballare al lume di candela come la mina interpretata da Winona Ryder e il Conte Vlad interpretato da Gary Oldman, immaginateci, se ce la fate, mentre i cori inneggiano con quel “Love oh love oh love oh love oh love” e lei, Annie, tuona i suoi “Still Falls the rain” e “Still Falls the night”. Loro, i miei gemelli, incantati, io commosso, Annie Lennox mi fa da sempre questo effetto, almeno da quando, superata la pubertà, ha smesso di indurmi pulsioni meramente sessuali, quanto ha sconvolto la mia adolescenza non è dato sapere.

Neanche il tempo di riprendermi che, così in fondo doveva andare, la malinconia ha fatto la fine che dovrebbe sempre fare in questi giorni così oscuri, essere lì, sullo sfondo, ma sovrastata dall’ottimismo e dalla volontà ferrea di andare avanti.

È infatti partita in automatica, qualcuno regali un cavallo all’inventore di Youtube, una canzone degli Eurythmics, band che l’ha vista a lungo al fianco di Dave Stewart, suo compagno nella vita, all’epoca, oltre che suo partner in una delle più incredibili band di tutti i tempi. Sia messo agli atti che Dave Stewart è colui nel quale mi vorrei reincarnare, signor notaio. La canzone in questione è una delle ultime che i due hanno dato alle stampe, I’ve Got a Life, inedito del 2005 incluso nella Ultimate Collection del duo inglese insieme al brano Was It Just Another Love Affair?. I’ve Got a Life, credo, dovrebbe essere oggi la colonna sonora di tutte le case, quelle case nelle quali ci troviamo tutti, chi più chi meno, spero tutti, a vivere autoreclusi in attesa che tutto questo delirio finisca, vera e propria scarica elettrica puntata sui nostri cuori. Parte lenta, con la voce di Annie a sostenere la canzone, le note basse a rincorrersi con le alte, visto il suo range chi se non lei se lo potrebbe permettere?, pochi suoni a fare da sfondo, lei vestita da uomo, i capelli biondo platino su un completo da Iena. E quando sembra che la canzone voglia procedere come una ballad, seppur con un lieve sottofondo electropop, genere che gli Eurythmics hanno contribuito a inventare, probabilmente inconsapevoli che in un futuro lontano li avrebbero seguiti anche un Alessio Bernabei come una Francesca Michielin, ecco che parte una botta dance, preannunciata da una palla stroboscopica a pieno video, di quelle che non puoi che alzarti in piedi e incominciare a ballare in preda all’ottimismo.

Una incredibile defibrillata.

Del resto il testo questo ci dice, “I’ve Got a Life/ Though it refuses to shine”, ho una vita anche se si rifiuta di brillare, “I’ve Got a Life/ Ain’t it Over, ain’t it Over”, ho una vita, non è finita, non è finita, “I’ve Got a Way/ It’s the Only Thing That’s Mine”, ho una strada, e è la sola cosa che mi appartiene, “All I’M Asking for is Tenderness, a Little Tenderness”, tutto quello che chiedo è solo tenerezza, un po’ di tenerezza.

A volte il tanto bistrattato, da me, mondo dello streaming, sempre che Youtube sia in effetti parte di quel mondo, ci regala sprazzi di impensabile ragionevolezza.

A tratti di saggezza ascetica, come in questo caso.

Mai come oggi, infatti, dobbiamo ripetere come un mantra lo special di I’ve Got a Life degli Eurythmics, e poco importa se non siamo intonati come Annie Lennox o geniali come Dave Stewart, lì a dialogare con lei.

Be Strong Now Baby, oh/ Gotta Be Strong Now Baby”, Sii forte adesso, piccola/ Devo essere forte ora, piccolo.

Ho una vita, non è finita, non è finita.